censo
cènso s. m. [dal lat. census -us, der. di censere: v. censire]. – 1. In Roma antica, la compilazione delle liste dei cittadini e la registrazione dei loro averi, operazioni affidate a magistrati speciali detti censori. Più tardi, e fino ai tempi moderni, il termine passò a significare il catasto, e anche il complesso dei beni posseduti, il patrimonio individuale o familiare, il reddito del patrimonio, e quindi l’imposta a cui il reddito era soggetto: le famiglie più illustri del luogo per nobiltà e per censo; conservare il c. avito; classi di cittadini distinte in base al c.; pagare il c. allo stato. Nel sec. 19° significò più in partic. la quota d’imposta annua il cui pagamento dava diritto ad essere elettori o eleggibili; nel regno sardo e poi nel regno d’Italia furono senatori per c. gli eletti nella categoria (fra le 21 prescritte per la nomina a senatore) di coloro che pagavano da almeno tre anni tremila lire l’anno d’imposte dirette. 2. Nella legislazione e nella dottrina medievale, denominazione generica delle prestazioni legate a un immobile sul quale il creditore del censo non aveva diritti. In partic.: c. livellare, somma annua che si pagava al domino diretto di un fondo o di un fabbricato per goderne l’uso; c. riservativo, prestazione annua che il proprietario di un immobile si riservava nel momento in cui trasferiva la proprietà dell’immobile stesso; c. consegnativo o bollare, consistente in una rendita annua, in denaro o in derrate, gravante sopra un immobile, e data come corrispettivo di un capitale versato al debitore della rendita. 3. Nome di varî tributi feudali: c. della marineria, imposto da Federico II di Sicilia per assicurare la fornitura di legname alla flotta; c. del sale, ecc.; per estens., nel medioevo e nell’età moderna, anche la rendita dei denari prestati volontariamente al comune, alla signoria, ecc. e lo stesso debito pubblico.