DOLFIN, Zaccaria
Nato a Venezia, il 30 maggio 1527, da Andrea (morto nel 1548) di Zaccaria di Andrea e Deia di Alvise Mocenigo, "nella ... pueritia" frequentò la "scola et casa" del dottissimo umanista Egnazio, perfezionandosi quindi a Padova in filosofia e diritto. Entrato nella carriera ecclesiastica, si trasferi a Roma, ove, il 15 maggio 1550, figura nella lista dei beneficiari d'una porzione di pane e vino nel palazzo apostolico. "Familiaris" del papa, protonotario apostolico, il D., il 5 maggio 1553, fu preposto al vescovato di Lesina (dove, peraltro, non risulta mai recarsi), le, cui rendite, nel 1574, risulteranno di circa 1.800 scudi.
Ben più impegnativa per il D. la designazione - ventilata già in settembre, quando l'agente spagnolo di Ferdinando I, Diego Lasso, a titolo personale, pare, e senza autorizzazione del sovrano, obiettò al papa che si trattava d'un "venetiano" - a successore di Girolamo Martinengo nunzio presso il re dei Romani, come anticipò a questo lo stesso Giulio III, il 17 ottobre, mentre l'8 novembre il cardinale Giovanni Morone ne informava Ferdinando I, al quale, il 20, il papa si premurava d'annunciare ufficialmente: "mittimus tibi dilectum filium. Zachariani electuni pharensem praelatuni nostruni domesticum ... hominem nobis propter cius nobilitatem, prudentiam et fideni vehementer probatum". Il D. era, dunque, "nuntius com potestate legati de latere" presso l'Asburgo e alle credenziali rilasciategli il 10 seguirono le istruzioni del 10 dicembre.
Giunto, attorno al 5, a Venezia, il D. vi sostò per qualche tempo un po' per salutare parenti ed amici, un po' per attendere ulteriori "scritture" da Roma ed anche perché trattenuto da una leggera indisposizione. Il 19 genn. 1554, accompagnato dal nunzio presso la Serenissima Ludovico Beccadelli, il D. si recò in Collegio, ricevuto "amorevolmente" dal doge Marcantonio Trevisan e dai componenti di quello e da tutti "abbracciato". Lasciata il 20 Venezia, il D. arrivò a Vienna il 7 febbraio. Qui caldeggiò, nelle udienze con Ferdinando I, sia pure con tono riguardoso, l'urgenza della pace tra i principi cattolici, si preoccupò di frenare la diffusione dei libri luterani, ascoltò la richiesta regia si facesse grazia delle "annate" ai vescovi disposti a "domandare" la conferma della Sede apostolica.
Trasferitosi a Augusta, dove la Dieta s'era aperta il 5 febbr. 1555 e dove sarà "legato" il di lui più esperto ed autorevole cardinal Morone, il D. ebbe modo di seguire con apprensione le minacce alla "religione" costituite dalla pretesa alla concessione delle due specie da parte degli "Stati dell'Austria", nonché dalle reiterate istanze degli "elettori" di "poter credere e discredere a suo placito".
Indubbio lo "zelo" del re, ma del pari evidente la sua debolezza. Su di lui, comunque, il D. preme tramite il confessore e per mezzo di due suoi consiglieri rivelatisi sensibili ai suoi "buoni offitii". E, stando alla sua lettera del 18 marzo a Giulio III (che, però, muore il 23, senza aver modo di leggerla), ci sarebbe addirittura di che sperare. "Le cose vanno bene, gli animi di tutta la Dieta et di tutta l'Alemagna" propendono, a detta del D., ad imitare l'Inghilterra, che, sotto la regina Maria, torna a volgersi a Roma. Occorreva, per conseguire questo "desiato fine", adoperare "destrezza et prudenza". Il D. prospettava l'opportunità dell'invio, in una Germania ingenuamente vagheggiata come prossima al reinserimento nel solco dell'"antica obbedienza", d'una sessantina di "suffraganei" e d'una "grari quantità di messali", antifonari, cerimoniali, "pontificali, rationali". A replica dei roghi luterani, andavano, a suo avviso, prontamente stampati almeno "tre o quattromila corpi di ragion canonica", così ribadendo la validità d'una normativa che o quel traditor" di Lutero aveva vituperato riducendola, nella sua furia distruttiva, a "ius combustum". Spingendo sino alla stolidità e al delirio la sua giovanile baldanza, il D. configurava siffatta rimonta cattolica come restauro finanziario, come gigantesco recupero di contributi pecuniari già dati per perduti. Sua persuasione, avvalorata dal consenso d'una ventina di "bonissimi cattolici, parte chierici, parte laici" coi quali, ad Augusta, fu in costante contatto, fosse possibile imporre al clero scivolato nell'eresia - come condizione per la riammissione nella cattolica milizia - il pagamento d'uno scudo al papa, ogniqualvolta, somministrando i sacramenti, ricorresse all'olio santo. La Santa Sede, così danneggiata dalla defezione tedesca, avrebbe potuto - calcolava il D. - "per questa via" contare su d'un cespite annuo di mezzo milione "d'oro". E "buon pro le faccia!".
Cosi speranzosamente esultante il D., quasi ignaro della genesi - anche economica - del divampante Loss von Rom luterano. Ma l'andamento concreto della Dieta, l'arrivo del Morone, una più fredda e circostanziata informazione riportano le lettere successive del D. nell'ambito d'una meno arbitraria valutazione, lo costringono a desistere dall'indulgere a speranze prive, pel momento, di fondamento. Più opportuno approfittare della simpatia manifestatagli da Ferdinando I per parlargli "sinceramente", sino a dirgli che, "secondo me, ella non devea mover passo", in fatto di "religione", senza accordo preventivo col pontefice Marcello II, anche a scanso - soggiungeva il D. "destramente" - di "periculo de ... conscientia". Ed il re, proprio perché aveva "in bona consideratione" quanto il D. gli andava bisbigliando, spedi a Roma Scipione d'Arco a ragguagliare il papa "de le cose de la Dieta". Nel frattempo il D. ebbe modo di verificare l'inattendibilità delle rosee prospettive da lui sciorinate al papa defunto.
S'addensavano, infatti, le ombre: una "scrittura" redatta in "casa de li elettori" aveva un contenuto "impio" e "pernicioso"; preoccupante l'afflusso a Weimar di cavalieri ivi convenuti col pretesto delle nozze del secondogenito del duca di Sassonia; vincolante negativamente il "pessimo ultimo convento", del 1552, di Passavia, tutto "fondato su gravami" che si volevano mantenere, sicché i "cattolici" s'auguravano o qualche accidente che dissolvi questa Dieta" in modo non confermasse quanto in quello concordato. Di contro all'"ostinatione" dei "desviati" arroccata su due "punti" - "uno che" ciascuno potesse "credere a modo suo", per cui, anche in futuro, restassero impunite trasmigrazioni al protestantesimo; "l'altro che" i "prelati" privi di giurisdizione "temporale" non potessero esercitare nemmeno la "spirituale" - si stagliava il "buono e veramente christiano animo" di Ferdinando I, come scriveva il D., il 30 maggio, al nuovo papa Paolo IV. Ma "non basta" a frenare l'aggravarsi del "mal stato delle cose di qua". Determinati, decisi, compatti i luterani. Impauriti, esitanti, titubanti, arretranti i cattolici, i quali, nell'impossibilità di "fare bene alcuno", s'accontentavano del "manco male", foriero, per il D., d'ulteriori malanni, mentre, invece, per Ferdinando I solo accettando i "mali minori" s'evitava la "rovina" irreparabile. Il D. l'ammoniva che il bene non nasce dal male, insisteva che qualsiasi accordo difforme "dall'usato in simili casi" dalla Chiesa avrebbe partorito "mal esito". Instancabile il D. negli "opportuni discorsi" e col re e coi "prelati" ed "agenti de li altri prencipi" perché stessero "forti", perché non cedessero, perché non si lasciassero "ingannare da la malitia" degli "avversari". Dimentico della sua incauta lettera, del 18 marzo, al morente Giulio III, in quella del 22 giugno a Paolo IV il D. vantava l'esattezza del proprio successivo pessimistico giudizio, la coerente lungimiranza del suo costante "pronostico" d'un esito fallimentare laddove i cattolici, anziché mirare al "bene", s'impantanavano nel terreno perdente del "manco male". La Dieta (così il D. il 27 al nunzio presso Carlo V, Girolamo Muzzarelli), se inizialmente pareva latrice di qualche "oncia di male", ora ne stava producendo centinaia, anzi migliaia di "libre". Ciò anche pel pavido assenteismo dell'episcopato cattolico, essendosi presentati solo l'arcivescovo di Salisburgo e i vescovi di Wúrzburg e di Eichstátt. "E debole la parte cattolica", si crucciava il D., disunita, disorganizzata. Mentre i "disviati", riunendosi due volte al giorno nella "casa" degli "agenti" dell'elettore di Sassonia, concertavano accuratamente le loro mosse, i "nostri" s'incontravano di rado e "sono poco d'accordo tra loro". Un'opinione severa questa del D. sugli esponenti del clero e del laicato cattolici riconducibile, forse all'intransigenza ispiratagli dalle sue frequentazioni gesuitiche. Era soprattutto il gesuita Girolamo Nodal quello al D. più vicino. E il D. lo volle suo confessore. E questi, a sua volta, garanti a s. Ignazio di Loyola che il D. "è huomo di molta importanza et aiuta quanto può la compagnia" di Gesù.
Poco confacente il clima d'Augusta alla salute del D., sicché egli manifestò il desiderio d'andarsene. Accontentato coll'invio del successore, il vescovo di Verona Luigi Lippomano, che giunse il 26 luglio, dopo averlo istruito e dopo aver atteso l'attenuarsi di prolungate piogge torrenziali, il 14 agosto il D. si mise in viaggio, preceduto da una lettera dell'8, di Ferdinando I al papa, dove il sovrano, preso atto a malincuore del suo richiamo a Roma, pregava d'averlo ancora presso di sé come nunzio, ribadendo questo suo vivo desiderio in una successiva lettera del 2 settembre.
Ottimo - elogiava il re - l'operato del D., preclare le sue virtù, eccezionale la sua conoscenza "rerum. istarum germanicarum". Era, pertanto, nell'interesse della Santa Sede, oltre che suo, il D. "ad nos remissum iri". Arrivato, nel frattempo, il D. a Venezia alla fine d'agosto per sostarvi sino al 16 settembre, gli pervenne copia d'una lettera, fatta circolare come sua dai protestanti, a Giulio III "con mille tristitie della Sede apostolica et di quel papa". Si trattava, così Lippomano, d'un falso di "questi ribaldi lutherani", anzi di "farina", così il D. al segretario di Stato cardinale Carlo Carafa il 7 settembre, di quell'"indemoniato" di Pier Paolo Vergerio.
Di nuovo, attorno al 26-27, a Roma, il D. non si trattenne a lungo, ché il papa. sensibile alle reiterate pressioni viennesi, lo nominò per la seconda volta nunzio; ed egli, partito il 27 dicembre, raggiunse il 9 genn. 1556 Bologna - quivi avendo le dettagliate istruzioni dell'inizio del mese - e prosegui poi per Trento, dove, alla fine del mese, ebbe modo di condannare, coll'"eletto" Ludovico Madruzzo, nipote del cardinal Cristoforo, P"impietà" della conclusione della Dieta augustana, inveendo contro il "turpe ricesso" del 25 sett. 1555. E, in ottemperanza alle istruzioni, analoghi concetti svolse nelle successive tappe - Bressanone, Innsbruck - del viaggio che lo portò, a metà febbraio circa, a Monaco, dove l'arciduca Alberto, per quanto "assai costante nella religione", preferi lasciar trascorrere il carnevale senza "parlar seco di negotii", differendo sino al 26 la prima "audientia". E il D., sia pure controvoglia, dovette accontentarlo con una "scrittura" che egli volle "poter mostrar ad ogni uno", dalla quale chiaramente risultasse come il pontefice "comanda tutto il contrario di quello che ricercano i suoi sudditi". Lasciata, il 12 marzo, la capitale bavarese col suo "buon principe" in un mare di "guai" per la "troppo sfrenata rabbia" dei "desviati", il D., in cinque giorni, si portò a Salisburgo signorilmente ospitatovi nel palazzo arcivescovile.
Qui, nei colloqui col suo ospite, Michele Kuenburg, s'appalesa lo scarto tra pretese romane, vale a dire che i "prelati cattolici" facciano "interamente il debito loro", e situazioni di fatto. È con queste che l'arcivescovo deve confrontarsi. Può, ad esempio, proibire i libri eretici nel suo territorio, ma poiché questo sta tra l'Austria e la Baviera, entrambe "infettissime", ne risulta vanificata la proibizione. Inutile parlare di "riforma generale" perché, per attuarla, si susciterebbe la "general sollevatione" dei "popoli, per il più infetti talmente - così, il 21, il D. al Carafa - che non penso ... humano rimedio possa ... sanarli".
Un'impressione confermata dalla breve sosta a Passavia: sincero il cattolicesimo dell'"eletto" in attesa di conferma Wolfgang von Klosen e dei canonici, ma "infetta da varie eresie" l'intera "diocesi". E lo sgomento coglie il D., quando, finalmente arrivato, il 23, a Vienna, v'apprende che il re è stato costretto a "sospender l'essecutione" delle disposizioni "contra communicantes sub utraque specie". Ferdinando stesso dimostrò al D., nell'udienza del 25, "che non potea fare altro". Ciò valeva anche pel "recesso augustano" che tante ire aveva su: scitato a Roma.
"Mi provo - riferisce il D. - che ... non solo non havea potuto fare altramente, ma che, se non havesse fatto così, sarebbe seguita grande e certa rovina di tutti li ecclesiastici, perché alhora i nemici" sarebbero ricorsi all'"armi", argomento rispetto al quale "li nostri mancavano et d'animo et di forze". Sicché, argomenta il re, egli, essendo riuscito a salvare il salvabile nella bufera, merita "lode" per l'"industria et fatiga" con cui s'era prodigato piuttosto che "biasimo" per una "conclusione" non soddisfacente. Il D. si rende conto che le sue parole riproducenti la rigidezza romana, suonano "indarno". Percepisce che il sovrano, sotto il tiro incrociato della tremenda minaccia turca e d'una concomitante "rebellione de li suoi Stati", è nella "peggiore" delle situazioni. Ne consegue - così il D., il 26 aprile, al Carafa - che, "quanto alla religione", le "cose", "in questi paesi ... settentrionali", precipitano verso la rovina dell'"auttorità et dignità ecclesiastica" sino alla palese disobbedienza al magistero romano. Circondati da ministri e consiglieri in odor d'eresia i "prencipi", che, inoltre, non possono "ottenere sussidio" dai "popoli" se non accondiscendono a che "possano credere ciò che detta ad ogni uno di loro il demonio". Dilaga inarrestata la pratica della comunione sotto le due specie, tollerata anche dall'arciduca di Baviera. Il D., "sgomentato", si sente impotente. La "Germania", scrive il 24 maggio a Paolo IV, se non si frappone un "miracolo" divino, tra breve sarà "tutta alienata dall'obedienza" alla Sede apostolica. "Gran novità" a danno dell'ortodossia promette l'imminente Dieta di Ratisbona. I "giovani" di circa una ventina di "contadi" ungheresi riunitisi presso Cassovia (Kogice) hanno promulgato "quattro articoli" ereticali. Ovunque volga lo sguardo, così il D. il 31 a Giovanni Carafa fratello di Carlo, registra "che la religione in queste provincie ogni giorno più viene mancando".Si profila intanto, da parte di Carlo V, la "renuntia dell'imperio", senza che Ferdinando I ne giubili, visto che il fratello desidera sia il figlio Filippo "vicario imperiale in Italia". Ridonda a Vienna - ove si dice che Carlo V e Paolo IV gareggino "a chi può far peggio al compagno" - la tensione tra imperatore e pontefice, investendo pure Ferdinando I, sicché le "inconfidenze" tra la Santa Sede e gli Asburgo bloccano le reciproche diplomazie sminuendo l'importanza della missione del D., che via via si sente inutile e via via accusa dolori di testa, specie una "periculosa vertigine". Né - col panorama politico tutto ingombrato dal grandioso evento dell'abdicazione - al D. riesce d'attirare l'attenzione sulla questione aquileiese; e solo il 10 giugno ha modo di presentare il breve papale in proposito che pur da un pezzo tiene "in scarsella" ogniqualvolta si reca all'udienza.
"Veggo il negotio difficile - confida all'avvilito patriarca Giovanni Grimani - et temo che le cose che a questi tempi corrono pel mondo lo difficultino anche più". Non c'è, da parte di Ferdinando. alcuna intenzione d'affrettare la reintegrazione nei suoi diritti del patriarca. Si capisce inoltre che, per contare sul, "soccorso" anche dei protestanti contro il Turco, egli non sarà a Ratisbona rigido; tant'è che al D., il quale gli aveva chiesto "se giudicava ispediente ch'io andassi a Ratisbona" per sostenere "in qualche modo la causa nostra", fa capire che "gli pareva ch'io potessi far di manco". Né giova al prestigio del D. la mancata conferma papale del vescovo di Modrug, in Croazia, Dionisio Pioppius che, nominato da Ferdinando, era stato assicurato di questa dal D. ancora durante la sua prima legazione e s'era, perciò, forte di detta assicurazione, insediato.
Sempre più rattrappito il ruolo del D., che nell'agosto-settembre si limita a trasmettere quanto apprende della guerra antiturca e dell'inquietante china che sembra imboccare la Dieta di Ratisbona compromessa in partenza dall'assoluta priorità assegnata al "sussidio" contro la Porta.
"Li secolari principi - scrive al D. il 5 settembre il cardinale Otto Truchsess ... non consentiranno né in adiuto contro il Turco né in altro" sino a che non saranno pienamente rispettati "il convento di Passau et l'ultima Dieta augustana". E ciò "con estrema rovina del cattolicesimo". Proprio per arginarla, secondo il Truchsess, il D. avrebbe dovuto recarsi a Ratisbona per contrapporre i suoi "buoni offitii" ai "maggiori inconvenienti", se non altro ritardandoli. Ma il D. doveva, invece, rientrare; lasciò, perciò, Vienna, ai primi di ottobre e, attorno al 25, era già a Roma.
Iscritto, il 9 genn. 1557, nei ruoli della famiglia papale, il D. mantenne i contatti con Vienna, inviando sino all'agosto parecchie informazioni a Ferdinando, interrompendo quindi questa sua fornitura di notizie un po' per mancanza di materiale interessante un po' perché l'imperatore disponeva d'altri canali e anche per non esporsi laddove il contrasto tra il pontefice, visceralmente antiasburgico, e Ferdinando s'aggravava. Certo che il D. non doveva essere nelle grazie di Paolo IV se il suo nome compare nella "farniglia levata o partita doppo la riforma dal 10 marzo a 20 luglio 1559". Ed il processo al cardinal Morone era ammonimento eloquente per quanti, come il D., pencolavano verso gli Asburgo.
Donde la guardinga cautela delle mosse del D., che, in una "scrittura", del gennaio 1559, a Carlo Carafa, riepilogativa (nella quale, a facile sfoggio d'intransigenza, rivangava l'accusa a Gasparo Contarini d'aver male operato, nel 1541, a Ratisbona perché animato da quello "heretico spirito di cercar d'accordare fra catholici et heretici" donde sarebbe "nato tutto il fondamento del male che hoggidi pate la christiana republica") delle sue informazioni "sopra il fatto ... della cessione dell'imperio" e dei tre "recessi" di Passavia, Augusta e Ratisbona (rispettivamente del 1552, 1555, 1557), sciorinava - a proposito della prima questione - il più supino allineamento coll'atteggiamento papale, ricordando d'aver più volte espressa l'"oppinione" che Carlo V "nulla ratione poterat se abdicare imperio" senza aveme preventivamente informato il papa. Nel contempo, però, s'ingegnava di scagionare d'ogni responsabilità Ferdinando. Ed era - a suo dire - pure colpa di Carlo il "recesso" di Passavia: "come conclusione da Carlo fatta s'ha da considerare".
Ma perché l'affezione del D. per il ramo austriaco degli Asburgo fruttasse, occorreva attendere che migliorassero, morto Paolo IV, i rapporti austro-pontifici. E fu con Pio IV che, in una fase decisiva del travagliato concilio di Trento (c'era da riattivarlo e occorreva l'avallo cesareo), al D. venne riaffidata la nunziatura viennese, con giubilo del rappresentante imperiale a Roma, il quale, il 1° luglio 1560, s'affrettava a scrivere a Ferdinando che il D. era suo "servitore tanto sviscerato" che di più non si poteva desiderare, avendolo "in tutte l'occasioni trovato pieno di reverente osservantia verso Vostra Maestà cesarea".
Notoria questa disposizione del D., che ora, lungi dal nuocergli come sotto Paolo IV, rientrava nei calcoli di Pio IV e di suo nipote Carlo Borromeo. Il primo, infatti, il 25 agosto, annunciava a Ferdinando d'aver dato i "mandata" per la rappresentanza al D. "probatae nostrae fidei et tuo studiosissimo cultori", mentre, nelle istruzioni del 1530, il secondo ricordava al D. che era stato scelto, oltre che per l'esperienza delle "cose di Germania" e della corte viennese, proprio perché il papa "sa che l'imperatore vi ama et tiene conto di voi".
Partito, il 2 settembre, da Roma, dopo una rapida sosta a Firenze uffle per ventilare a Cosimo I la sua disponibilità a non gratuiti servigi, il D., il 28, giunse a destinazione latore della risposta papale, del 30 agosto, al memoriale cesareo del 26 giugno. Stava al D..I comunque, illustrare quella ulteriormente a voce. Ricevuto, il 29, cordialmente da Ferdinando, non per questo il D. lo trovò malleabile in merito al concilio, che, a detta di Ferdinando, andava convocato come nuovo e non a Trento. Solo così, pensava l'imperatore (preoccupato, altresi, non si volessero intralciare le sue concessioni in fatto del calice e del matrimonio dei preti), si sarebbero indotti i protestanti alla partecipazione. Ma nemmeno Pio IV intendeva demordere, per cui, il 9 ottobre, il D. e il vescovo di Ermland (nonché futuro cardinale) Stanislao Osio - dal quale, peraltro, il D. subito si distingueva evitando d'affrontare con Massimiliano scottanti argomenti dogmatico-religiosi - dovettero comunicargli che, invece, il papa aveva deciso di revocare la sospensione del concilio tridentino. Dura la reazione imperiale, ma, secondo il D. non del tutto negativa. Anche se contrario alla convocazione in termini di prosecuzione, Ferdinando - intuisce il D. - non scatenerà una vera e propria opposizione. A Roma da un lato non si condivideva l'ottimismo del D., dall'altro gli si rimproverava - con lettera, del 2 novembre, del cardinale Borromeo - lo scarso vigore con cui aveva sostenuto la decisione pontificia.
Il D., che ascrive a suo merito d'aver sospinto l'imperatore "a laudare che si faccia il concilio ... dove vuole Sua Santità ... quando a lei piace" e a condannare, nel contempo, "il concilio nationale al quale inclina la Francia", risponde, il 17 novembre, con uno scatto di fierezza all'appunto del cardinal nipote. Egli è un diplomatico, non un crociato. "Son venuto" a Vienna per convincere l'imperatore a non contrastare "quello che farà il papa ... non a mutar il mondo", che, a settentrione, rifiuta la "continuatione". Impossibile pretendere che l'imperatore la "possa aiutar" attivamente, dal momento che per lui è "causa" d'"universal travaglio di guerra".
Obiettivo realistico e produttivo, perciò, quello della non ostilità imperiale che il D. portò avanti avvedutamente sino ad indurre Ferdinando - e, di riflesso, la Francia - all'assenso alla convocazione a Trento, sia pure con un inizio ex novo e non riallacciato alle fasi anteriori, mentre a queste non rinunciava ad accennare la bolla portata a Vienna da G. F. Commendone e presentata, il 5 genn. 1561, in un'udienza alla quale parteciparono pure il D. e l'Osio. Si trattava, a questo punto, di attirare a Trento anche i "principi heretici". Solleciti il D. e il Commendone lasciarono, il 14, Vienna alla volta di Praga donde raggiunsero, il 29, Naumburg, ove, spiegava il bolognese Flavio Ruggieri accompagnatore del secondo, i "prencipi protestanti" s'erano riuniti "per trattare alcune cose appartenenti" alla "loro confusione augustana" .
Ad essi, all'uopo radunatisi, il 5 febbraio il D. rivolge l'invito al concilio ecumenico, ove ogni loro richiesta ed esigenza avrebbero avuto attenzione e risposta. Scontato però lo sprezzante rifiuto da parte di chi non riconosce nemmeno l'intitolatura (al "diletto figlio") dei brevi papali, ché il papa non è padre, ma perverso maestro d'errore. Non a lui pertanto compete la convocazione del concilio.
Non resta al D. e al Commendone che partire, l'i 1, da Naumburg (il cui vescovo Giovanni Pflug assicura comunque di recarsi a Trento), per poi separarsi, il 13, il secondo diretto all'"Alemagna bassa" e il primo diretto all'"alta", animosamente affrontando l'inclemenza del tempo e i disagi della neve.
Toccate, in questa missione esplorativa ed esortativa finalizzata all'allargamento il più possibile esteso della partecipazione all'assise tridentina, Bamberga, Norimberga, Wúrzburg, Mergentheim, Francoforte, Magonza, Worms e Spira, il D., all'inizio di maggio, arriva a Strasburgo, quivi incontrandosi con taluni esponenti (un nobile vicentino, un ex canonico, un ex agostiniano) della diaspora ereticale italiana nonché col Vergerio, il quale, nei ripetuti abboccamenti eon il D., sembra quasi intimidito dalla triverentia" che egli, "picciol gentil huoino di Capodistria", deve al nunzio per la sua appartenenza ad "una delle honoratissime famiglie di Vinetia", sua "patrona naturale". Quindi, passando per Friburgo, Meesburg, dove risiede il vescovo di Costanza, Weingarten, Ulma ed Ingolstadt, il D., il 4 giugno, giunse a Monaco.
Qui lo zelo cattolico d'Alberto lo consolò delle delusioni e dei rifiuti via via raccolti nella sua logorante peregrinazione, durante la quale, al di là dei dinieghi spesso sprezzanti e peraltro prevedibili da parte dei protestanti, aveva racimolato, nell'ambito cattolico, stente adesioni di principio, assicurazioni poco entusiaste di sottomissione ai futuri decreti conciliari accompagnate però, nel caso dei vescovi, da palese riluttanza ad una partecipazione attiva. I più, infatti, accampando ragioni più o meno valide d'età, di mancanza di denaro, d'inopportunità d'abbandono, anche se solo temporaneo, delle diocesi, avevano escluso l'eventualità di portarsi personalmente a Trento, sottraendosi di fatto alle incalzanti pressioni dei Dolfin.
Di nuovo a Vienna, la perorazione del concilio continua ad assorbire le energie del D., il quale da solo - partendone Osio il 29 luglio - ritorna monotono, in ogni udienza, sullo stesso argomento. "lo non mi trovo mai - scrive il 27 agosto - con la Maestà Cesarea che non faccia nova instantia per la partita de gli ambasciatori suoi verso Trento". Al che l'imperatore, schivando l'impegno d'una data precisa, dapprima assicura che questi "non arriveranno al concilio doppo" quelli del re cattolico, poi concede che potrebbero anche precederli. Dilatorio e sfuggente, di fatto, l'atteggiamento di Ferdinando. Tant'e che, mentre la riapertura del concilio avviene, in tono minore, il 18 genn. 1562, solo il 31 arriva l'arcivescovo di Praga Brus von Miiglitz, uno dei suoi tre rappresentanti. E questi poi - per quanto il D. a Vienna s'adoperi in contrario - sia il 13 febbraio sia il 5 marzo - presentano richieste, specie quella della necessità d'appellarsi con un solenne invito al mondo protestante, sgradite alla Santa Sede.
Una mazzata, addirittura, per Roma il libello di riforma ferdinandeo (la cui redazione è attribuibile a Federico Stafilo) da loro presentato il 6 giugno. Efficaci, comunque, gli sforzi del D. per attenuarne la portata, per indurre l'imperatore a non intestardirsi nel sostenerlo, sicché appaia non già un imperioso intervento programmatico, ma un suggerimento dettato dalla buona volontà, rivedibile, ritoccabile, diluibile, smorzabile. Finisce che Ferdinando auspica, per l'avvenire, una minor disinvoltura nella elevazione alla porpora (che i cardinali, almeno, non siano fanciulli, che, almeno, non siano clamorosamente ignoranti), il ridursi degli abusi nell'elezione dei vescovi, l'eliminazione delle forme di più vistosa simonia.
Sagace il D. non solo smussa le perplessità e gli intralci imperiali nei confronti del progredire del concilio, ma addirittura - agganciando la sua conclusione alla conferma papale all'elezione, del novembre 1562, di Massimiliano a re dei Romani - carpisce l'adesione di Ferdinando I, che comunica ai legati conciliari il 4 ott. 1563, a che, appunto, l'assise si chiuda colla. prossima sessione. Un indubbio successo, questo, per il D. che, nel 1562-63, non ha certo potuto concedersi requie dovendo pressoché triplicare i suoi obblighi di scrittura ché non solo ha continuato a scrivere a Borromeo, ma in più ha fornito ai legati conciliari nutte le cose ... degne di lor notitia nel particolar del concilio, senza, però, "scoprire il resto de negocii" e lettere a parte ha pure spedito ai cardinali Ercole Gonzaga e Girolamo Seripando. E di tutta questa sua ulteriore corrispondenza ha dovuto inviare copia a Roma, ove, invece, s'ignora che anche il duca Cosimo de' Medici è aggiornato su quanto il D. scrive al Borromeo e ai legati conciliari ché o lascia leggere le minute all'agente toscano a Vienna o addirittura fa fare o permette questi faccia ulteriore copia delle sue lettere. Da tempo, infatti, il D. è pure non disinteressato informatore di Cosimo, cui, già il 29 luglio 1560, il suo agente a Roma aveva segnalato come egli bramasse "d'havere occasione di potersi mostrare servitore di Sua Eccellenza". Ed è, appunto, la nunziatura che offre al duca l'opportunità di contare su d'un eccezionale fornitore d'"avvisi" nonché su d'un utilissimo suggeritore di mosse avvedute, sicché, più volte, come Cosimo riconosce in una lettera del 13 marzo 1562, "s'è attenuto al suo prudente consiglio".
Ciò vale per varie questioni e pendenze. "Perseverarò facendo per Vostra Eccellenza tutto quello che ella può aspettar da servitor suo", assicura il D. il 19 genn. 1562, purché, naturalmente, il segreto non trapeli, purché non ne sappia qualcosa il Borromeo. Ancora il 27 ag. 1561 il D. s'era raccomandato di "celare che ella habbia da me cosa alcuna". Un rapporto soddisfacente per entrambi, ché se il D. è "servitor" di Cosimo, questi si sente, a sua volta "debitor" nei suoi confronti, ché il D. va ricompensato non certo con "parole", ma con adeguata "pariglia". Indi spensabile al D. - pel cui tenor di vita dispendioso i soldi non bastano mai: troppo pochi i 300 scudi mensili passatigli da Roma, si lamenta con il Morone, per lui che non ha la fortuna dell'Osio che riceve "da casa 500 talleri al mese"; "non ho io talleri", esagera, il 27 luglio 1564, scrivendo ad un suo conoscente; "estrema", definisce, in una lettera del 3 ag. 1564, al Borromeo, la "povertà mia", che gli impedisce d'allontanarsi da Vienna "senza paghare doimille ducati d'oro almeno a creditori - miei" - il denaro fiorentino, che, di volta in volta, lo rimette in sesto. Fervido, soprattutto, il suo ringraziamento, del 12 ott. 1563, per la "benignità et liberalità usata meco in tempo che posso dire essermi venuto tal soccorso per divino miracolo, essendo le cose mie di Venetia nel disordine ch'ella sa et trovando li miei difficoltà inaudita nel cavare Zenari di Roma".
Il D., in effetti, sta attraversando un brutto momento. Per sua fortuna, la sua ricompensata attività a favore della corte medicea non viene scoperta e prosegue, perciò, indisturbata; e ora 1.000 ora 2.000 ducati gli fa pervenire Francesco, il primogenito di Cosimo, sensibile agli appelli del D. perché l'aiuti a sostenere "con dignità" il suo "povero stato". Il D. è spendaccione, offre lauti banchetti, ha numerosa servitù, rileva l'ambasciatore toscano a Vienna Giulio Ricasoli; vive "più tosto da agiato cardinale che da nunzio". Ma, proprio per questo, data l'appurata utilita dei suoi occulti servigi, va "sovenuto" si che possa anche tacitare i suoi molti creditori, ammontando i suoi debiti, nel marzo del 1565, ad almeno 6.000 ducati. Non altrettanto la buona sorte assiste il D. quando si verifica il suo clamoroso coinvolgimento in una vera e propria azione di spionaggio. Si scopre infatti, a Venezia, all'inizio del 1563, che il D. trasmette alla corte imperiale notizie a lui inviate da Costantinopoli dal dragomanno del bailo, il dalmata Michele Cernovich, che il D. ha conosciuto a Vienna ancora nel 1556 inducendolo poi, una volta entrato al servizio della Serenissima (già tra i collaboratori di Marino Cavalli, figura tra i dragomanni dei successivi baili Gerolamo Ferro e Daniele Barbarigo), ad approfittame per diventare - per suo tramite - anche informatore cesareo. Fulminea la reazione della Serenissima che colpisce con bando a vita il D., gli confisca - per quanto può - rendite e beni, ed esclude, per dieci anni, dal Maggior Consiglio suo fratello Alvise (1530-1576), sospetto di complicità.
Si tratta, minimizza il D. scrivendone, il 17 marzo, al Borromeo d'"ingiusta percossa dattale da gli compatrioti". In realtà teme, da parte della Santa Sede, un'umiliante destituzione e perciò invoca - trattandosi "della total rovina nua et di tutta la casa mia" - l'appoggio dell'imperatore, il quale, tempestivamente sollecito, scrive, il 5 aprile, al papa una lettera colma d'elogi per il D. e, insieme, preannunciante "nobis molestissimum. esset si", a causa dell'"infortuniuni", il pontefice tanto "virum ... destitueret". Immediato l'esito positivo d'una pressione così esplicita, ché, il 21 aprile, l'ambasciatore cesareo a Roma Prospero d'Arco può annunciare che Pio IV "m'ha detto che non lo leverà di nuntio". Ed è il pontefice stesso ad assicurare il 23 Ferdinando, mentre il 24 suo nipote Carlo Borromeo - che per il D., cui magari chiede di procurargli "cani ... di caccia grossa", non nutre gran considerazione: "son certo che il ... Borromeo stima poco me e manco le mie fatiche", lamenterà il D. in una lettera del 24 ag. 1565 a Cosimo - scrive, piuttosto freddamente, al D. che, "circa il fatto nel quale la ... Signoria di Venetia si è fortemente risentita contro di voi, a Sua Santità è molto incresciuto di vedervi in questo travaglio". Dato, aggiunge, che "la cosa è condotta tant'oltre", l'unico "rimedio" è il "beneficio del tempo" da attendere con "bona patienza". In sostanza il cardinale fa capire al D. che non lo si richiama. solo per far piacere all'imperatore e che, comunque, la sua caduta in disgrazia presso la Repubblica resta una disavventura sua personale che dovrà fronteggiare per proprio conto, senza che la Santa Sede si schieri in sua difesa. Veda, dunque, il D. - questo l'ordine sottinteso - di fare bene il nunzio, senza cacciarsi in ulteriori pasticci.
Pio IV - così il Borromeo al D. il 22 genn. 1564 - "attende a dar modo e forma a la buona essecutione del concilio", deciso a confermarne i decreti e ad "osservarli ad unguem". Compito del D. provvedere alla trasmissione ai vescovi tedeschi dei decreti conciliari a stampa e dei relativi brevi pontifici; ed egli incarica dei recapito materiale il suo auditore Antonio Cauchio. Ma un assalto banditesco impedisce a questo di attendere alla missione, sicché a Roma si preferisce provvedere altrimenti tramite Pietro Canisio. Uno spiacevole incidente quello del Cauchio, che inficia un po' la nunziatura del D., da addebitarsi, comunque, alla mala sorte. Non senza diretta responsabilità del D., invece, il crudo manifestarsi d'incomprensioni e fraintendimenti tra Roma e Vienna nella travagliata fase dell'applicazione - dalla prima pretesa e dalla seconda ostacolata per, come scrive il D. il 15 febbraio al Borromeo, non rischiare di "perdere li Stati" per il divampante "tumultuare" dei "popoli" - dell'ortodossia tridentina. L stato, infatti, il D., nel 1563, a promettere (pur di catturare l'imperatore alla sollecita conclusione del concilio), deliberatamente giocando sull'equivoco e all'insaputa di Roma, particolari deroghe e riguardi, quasi prospettando la concessione del calice, quasi garantendo la mitigazione di fatto del rigido principio del celibato ecclesiastico. Donde, lungo il 1564, il richiamo esplicito, da parte cesarea, alle "concessiones" da lui ventilate in fatto di "coniugium sacerdotiuni" e di comunione "sub utraque specie".
Una situazione di per sé estremamente imbarazzante, nella quale tuttavia il D., camaleontico ed anguillesco, si muove con abilissima agilità, riuscendo ad assumere e, anche, a svolgere - con spericolate acrobazie, con virtuosismi equilibristici - più parti, ora immedesimandosi nelle esigenze di Vienna, ora facendosi portavoce di quelle romane. Da un lato, nella corrispondenza con la Santa Sede, insiste sulla fermezza delle sue risposte, insinuando però, nel contempo, che "s'ha anco da vestir ... li panni d'esso imperatore", che questi "conosce meglio - così al Borromeo il 27 marzo 1564 - d'ogni uno queste nationi, pensa et vede delle cose che non si possono pensare et vedere così facilmente in Roma", deducendone che merita perciò delle "satisfattioni". Dall'altro valorizza a Vienna come frutto dei suoi sapienti ed ascoltati consigli la "pietà mostrata" da "Nostro Signore in concedere il calice", facendo sperare di riuscire, col tempo, pure ad ammorbidire "la non concessione circa li preti" ammogliati. Ma proprio perché sa i modi per proporre presso la Santa Sede i contenuti più indigesti, alla veste ufficiale di nunzio s'aggiunge quella occulta di consigliere cesareo che suggerisce l'impostazione delle richieste, che le riveste della forma più adatta per suonare meglio motivate e più persuasive. Si verifica così una sorta di paradossale pasticcio: il D. nei suoi dispacci di nunzio si dilunga su orientamenti alla cui formulazione egli stesso - come estensore delle minute delle missive cesaree - concorre. E, nella misura in cui in quelli suggerisce prese di posizione rispetto a questi, finisce che - nunzio da un lato e suggeritore, dietro le quinte, dall'altro - corrisponde con se stesso, coniugando ortodossia tridentina e transigente comprensione per terre ove "quasi tutti li parochi hanno moglie". Né si tratta soltanto d'opportunismo, di furberia, di tornaconto. C'è, al di là di questi aspetti pur presenti, un supplemento d'intelligenza storica: "se è huomo - dice di sé al Borromeo - in terra" nemico di qualsiasi "novità" in fatto di "fede", questo sono "io ... ; nondimeno, dove io veggo non solo la tema, ma la certezza di maggior male et quando mi consta di certa estrema necessità, convengo io anchora pensare che nelle cose le quali honestamente si ponno fare et si vogliono esperimentare a causa solo di divertire maggior male et conservare gran bene, non si haverebbe forsi d'ammettere perpetue difficoltà".
La Santa Sede, insomma, sostiene il D. - la cui posizione è ormai diametralmente opposta a quella, intransigente e fomentata dai suoi contatti coi gesuiti, dei suoi esordi diplomatici - dovrebbe, a costo di transigere, a costo d'accontentarsi di soluzioni compromissorie, agevolare, e non già ostacolare con pericolosi irrigidimenti, la tenuta dell'Impero, il cui ruolo il D. percepisce come indispensabile al mantenimento della civiltà occidentale, alla salvezza della Cristianità, allo sbarramento di contro alla minaccia turca. Forse è anche per convinzione che il D. fa avere all'imperatore notizie dal dragomanno del bailo venendo perciò bollato dalla Repubblica come "bandito e ribelle"; forse ritiene opportuno che informazioni sul Turco gelosamente pignorate da Venezia arrivino pure alla corte cesarea. Ambizioso, intrigante, venale, sin corrotto il D., ma pure percorso da motivazioni più complesse, ma pure sensibile alle esigenze profonde di quiete interna e di pacificazione religiosa - anche se ciò significa cedere sul calice e sui preti sposati - che egli avverte presenti in tutto l'immenso territorio imperiale. Il "manco male" che il D. giovane ha tanto sprezzato, assume così, visto da Vienna e non da Roma, un significato positivo, diventa - in nempora" che Ferdinando poco prima di morire definisce "turbulentissima et periculosissima" - non solo ragionevole prospettiva operativa, ma anche grandiosa speranza. C'è coincidenza, ad un certo punto, tra le valutazioni del D. e di Massimiliano II, con sdegno del vescovo d'Augusta, il cardinale Otto Truchsess, il quale, il 4 sett. 1564, scrive al cardinal Commendone che il D. "fa mille inconvenientie sotto pretesto di gran servitio della Sede apostolica e, tra l'altro, sempre disfavorisce li catholici, favorisce li heretici", mentre "contra di me usa sotto specie d'amicitia, falsità calunnie et fraude, ma spero che Nostro Signore un giorno conoscerà la verità", accorgendosi cioè -vuol dire il porporato tedesco - di che razza d'uomo sia il Dolfin. Screditatissimo, in effetti, questi, disistimato pure da quelli che di lui più si servono, come l'ambasciatore fiorentino Ricasoli che ben sa come il D., anche quando tira in ballo il "ben publico" ed il "servitio" della Chiesa, sia in realtà sollecitato "da interesse proprio". Ciò non toglie che - per quanto spuria di sottintesi anche miserabili, per quanto sempre frammista di gretti e sin sordidi risvolti egoistici, meschinamente personali - la posizione del D. (il quale, non va dimenticato, riesce a guadagnare Ferdinando alla conclusione del concilio tridentino e, insieme, attenua mediando l'impatto, altrimenti rovinoso, delle più rigide pretese romane) serbi una valenza ideologica. Non a caso - proprio quando viene bandito per spionaggio, appunto, a favore, dell'Impero - figura tra i dieci interlocutori del Dialogo, di Giovan Maria Memmo, in tre libri (i primi due dedicati, significativamente, a Massimiliano), nel quale ... si forma un perfetto prencipe et una perfetta republica..., che esce a Venezia nel 1563 (e ci sono anche copie datate 1564, senza che l'autore si preoccupi di rimuovere la presenza d'un "bandito" come il D.), quasi a celebrare la missione universalistica dell'Impero asburgico.
Animato, dunque, da nobili idealità il D. partecipe della conversazione che il Memmo - un patrizio dalle singolari propensioni filoimperiali - suppone avvenuta a Roma nel 1556, nello stesso anno in cui, a detta del Vergerio, "ardebat supra moduni amore et veluti rabie quadam cardinalatus". Un'ambizione appoggiata sin dal 1562 con tutta la sua autorità da Ferdinando. E Pio IV, pur sottraendosi alle pressioni imperiali adducendo di voler soprassedere alla creazione di nuovi cardinali sino alla conclusione del concilio di Trento, non volendo-, nel contempo, dispiacere a Ferdinando, si lascia strappare una mezza promessa. Sicché, non senza irritazione ed imbarazzo del papa (che non vuole urtare Venezia, che non stima il D., che sa il grosso del "collegio" a lui ostile, che non ignora come abbia "pochi amici"), questa, nel 1564, gli viene con insistenza e petulanza (alle quali il D. non è estraneo, tanto più che, nella sua veste di criptoconsulente cesareo ha a che fare colla stesura delle lettere imperiali a Roma) ricordata, specie da Massimiliano, il quale, il 24 agosto, ordina al d'Arco di premere sinché venga rispettata. E, finalmente, quest'ultimo, il 20 genn. 1565, informa che il papa "mi promesse di nuovo che lo farebbe cardinale al sicuro alla prima promotione". Dopo tanto affannoso e indecoroso brigare il D. vede a portata di mano quella porpora per ottenere la quale ha mobilitata tutta la forza di pressione di Vienna; può così consolarsi dell'antecedente bruciante smacco del 1560, quando gli era stato negato - di contro alle perorazioni di Vienna e al "gagliardo officio" di Cosimo - il da lui appetitissimo vescovato di Verona, non lungi dalla quale già godeva del "priorato" di Bovolenta. Cardinale, nella "numerosa" (meglio così: in tal modo il suo inserimento nel novero dei neoporporati suona meno scandaloso) promozione del 12 marzo, il severo decreto pontificio, del 18 maggio, contro i nunzi troppo proni coi principi e postulanti, per loro tramite, favori ed onori mira, appunto, ad evitare, in futuro, il ripetersi di casi analoghi al suo. Né la Santa Sede, per quanto pressata in tal senso prima da Ferdinando e ora, ancor più, da Massimiliano, s'adopera con lena per la revoca del bando inflittogli dalla Serenissima.
Flebile, fiacca, poco convinta (nell'udienza di congedo, in ottobre, concessa all'ambasciatore veneto Giacomo Soranzo), e per di più contorta (quasi volta a far, in qualche modo, intendere che non è colpa del pontefice se ha dovuto eleggere un siffatto cardinale) la richiesta di Pio IV. "Voressimo - così, quasi titubante, il papa - ... che" i Veneziani "si riconciliassero con Dolfin, ché certo fu gran cosa bandire un vescovo e nostro nunzio, senza farci intendere parola alcuna. Se ci aveste - prosegue Pio IV - fatto sapere una parola, l'averessimo levato di dove era" e preso provvedimenti punitivi. Bandendolo, invece, fulmineamente e senza preavviso, all'incontro ci avete data occasione di onorarlo", quasi costretti a reagire ad un atto così clamoroso contro un ecclesiastico d'un certo rango. "Saria bene - insiste il papa, che associa l'auspicio di riconciliazione a favore del D. a quello di riabilitazione per il cardinale Marcantonio da Mula, anch'egli in disgrazia presso la Repubblica per aver, appunto, accettato il cardinalato pur essendo stato rappresentante veneto a Roma; col che il papa fa pure capire che tiene ben di più a quest'ultimo che al D. - che anchor lui", cioè il D., come il da Mula, "fusse riconciliato. Il che saria ancor molto grato all'imperatore, ad instanza del quale lo facessimo cardinale. La qual instanza - mette in chiaro il pontefice così evidenziando che la porpora al D. gli è stata estorta, che, quanto meno, non poteva negarla, essendogli stata chiesta quando le sorti dell'assise tridentina esigevano il massimo d'accordo con l'Impero - è stata così grande e in tempo di concilio, che non potessimo far di manco". Comunque, soggiunge il papa spostando decisamente il discorso a favore del da Mula, "intendiamo che la Signoria si porta più mitemente" col D. che con quello, dal momento che permette "che suo fratello" (probabilmente quell'Alvise Dolfin provveditore alla Sanità che morrà di peste nell'agosto del 1576) benefici delle rendite del "vescovato" di Lesina. Segno evidente questo che è possibile imboccare la via della "riconciliazione" sia col D. che col da Mula. La "desideriamo" per entrambi, "ma molto più" col secondo "perché è più vecchio e molto vicino al ponteficato" e, addirittura, "potria esser papa". Un'eventualità, quella di Venezia perdonante, che il Soranzo, riguardosamente nel tono, ma fermamente nella sostanza, esclude. Quanto al D., precisa l'ambasciatore, la sua colpa era stata ben più grave di quanto in proposito s'era "divulgato" ché, al di là dell'informazione indebitamente trasmessa all'imperatore, aveva rischiato di peggiorare i rapporti della Repubblica col Turco, "gente barbara e sospettosa". Perciò Venezia ha "bandito" non già il D. uomo di Chiesa, quanto il D. "cittadino" veneziano, sul quale essa detiene "imperio ... maggiore" di quello del "padre" sul "figlio". La revoca del bando, replica il papa, sarebbe, comunque, opportuna specie per "satisfar" Massimiliano, "ad instanza del quale - ripete preoccupato di addossare su questo la responsabilità della sconcertante concessione della porpora - lo facessimo cardinale e, per dir il vero, per forza", controvoglia. "Lo diciamo - spiega Pio IV - perché è più d'altri che nostro", mentre "premiamo più in Amulio", il quale, "replichiamo", potrebbe diventare "papa e forse in nostro luogo".
A Vienna, intanto, il D. (che paventa l'imminente richiamo e, man mano questo pare certo, mostrandosi "molto afflitto"), sin dall'inizio del 1565, arraffa e incamera in tutti i modi e con tutti i pretesti.
"Sotto pretesto di religione - così, il 9 marzo, il rappresentante estense Sigismondo Morano - si è messo ... a dare la caccia a quanti conosce poter cavarne denari". Malcapitati "certi frati ... in disputa tra loro" rivoltisi al D., ché questo non solo ha complicata la lite ma s'è fatto dare "tutte le ... scritture", proclamandosi "padrone delle loro abbatie". Dal nuovo vescovo di salisburgo il D., inoltre, ha preteso, oltre al "pagamento delle bolle", 500 talleri in prestito. Quanto alle "badie", a detta del Ricasoli, il D. n'avrebbe "cavato … qualche centinaia di talleri" e avrebbe messo "mano sopra certi argenti", mentre - come informa da Roma il d'Arco il 31 marzo - un frate d'una "badia di Stiria" è arrivato a Bologna, donde ha scritto una lettera al priore del suo Ordine a Roma piena d'accuse contro l'operato del D., il quale, anziché "difendere le ragioni della Chiesa, per interesse suo aiuta a rovinarle".
Lagnanze che non frenano la spudorata cupidigia del D. forte del favore di Massimiliano a lui gratissimo perché, scivendo a Roma, il D. ha sempre garantito la sua ortodossia, l'ha addirittura presentato come campione della "fede catholica". Sicché, quando latori l'arcivescovo di Lanciano Leonardo Marini e l'auditore di Rota Pietro Guicciardini, giunse il "cappello", l'imperatore non manca d'assistere alla cerimonia dell'imposizione, del 29 giugno, nell'Augustinerkirche. Non senza soddisfazione del rappresentante spagnolo Tommaso Chautenay di Perrenot, sdegnato di come il D., in veste di nunzio, manipoli e disinformi, per il quale - come scrive il 21 luglio - appare "claramente que el cardinal Dolfin hacia muy malos oficios con el emperador", arriva a Vienna, attorno all'8 settembre, la lettera, del 25 agosto, del Borromeo ove s'ingiunge al D. di partire non appena si sarà inseddiato il successore Melchiorre Biglia. Giunto il quale il 20 ottobre, il D., lungi dall'accingersi alla partenza, la procrastina per riscuotere i sollecitati donativi e riconoscimenti.
L'imperatore e gli arciduchi Ferdinando e Carlo gareggiano in "beneficare" il D., fa presente, il 27, il cardinale Tolomeo Galli a Borromeo. L'ultimo gli elergisce "monasterii", gli altri due abbondano col denaro, specie l'imperatore, il quale dapprima dona al D. 10.000 ducati coi quali estingue i debiti connessi colla sua vita dispendiosa, quindi un mensile di 150 Gulden e, infine, un secondo donativo di 5.000 Gulden. E, in più, Massimiliano adopera, a vantaggio del D., quella "grazia" papale che il D. gli ha esibito il 9 agosto comportante l'"autorità" di "per una volta disponer di tutti li beneficii che vacano nell'impero". Suscitando "gravissima controversia" da parte degli "Ungheri" - non a caso Franz Forgách, vescovo di Gran Varadino, membro del Consiglio ungherese dell'imperatore accusa il D. d'ogni nefandezza ("detestanda flagitia, stupra, adulteria, sodomia, sacrilagia, proditiones"), cogliendo nel segno laddove dice che "venalem ad omnia habuit operam." - lo designa "administratorem", con diritto cioè all'"utilitas" sia "in spiritualibus" che "in temporalibus", coll'intento - così il testo (dettato, peraltro, dal D.) della lettera, del 17 novembre, al d'Arco - di nominarlo "quanto citius poterimus episcopum" a pieno titolo di Giavarino (Gyór o Raab). Cosi parzialmente saziato nella sua indomita ingordigia, il D. lascia finalmente, il 19 novembre, Vienna.
Di nuovo a Roma - ove, morto il 9 dicembre Pio IV, partecipa, il 7 genn. 1566, all'elezione di Pio V - vanamente s'arrabatta per riacquistare un minimo di considerazione, ché il nuovo pontefice nutre per lui altrettanta disistima di quello defunto. Chiesta, allora, licenza di ripartire, si porta, all'inizio di ottobre, alle Papozze, nel Ferrarese, dove ha dei beni. Quivi raggiunto dalla madre e dai fratelli (oltre ad Alvise, il D. risulta aver avuto almeno altri tre fratelli: Francesco, Giovanni, Leonardo), ventila alla Serenissima la possibilità di giungere, per suo tramite, "a qualche accordo" - così, il 12, il nunzio a Venezia Giovanni Antonio Facchinetti al segretario di Stato Michele Bonelli - con Massimiliano in una vertenza confinaria in corso, "sperando per questa via di poter essere rimesso in casa". Ma la Serenissima non perdona e lascia cadere la sua goffa proposta. Il D. resta, pel governo veneto, il traditore, da collocarsi per sempre - così, in una lettera da Vienna, del 25 giugno 1574, dell'ambasciatore Vincenzo Tron - tra quanti ignorniniosamente, "per acceleration delle grandezze loro, s'hanno dimenticata la patria" e i "suoi propri". Al D. non resta che proseguire "per dare assetto ... alle cose del vescovato" in Ungheria, mentre da Roma il 19 una lettera del Bonelli gli impone il rientro "quanto prima" a Roma. Ma egli non può obbedire, ché l'ordine non lo raggiunge in tempo. Attorno alla metà di novembre è a Vienna, "cacciato dalla fame (così il 26 il rappresentante lagunare Giovanni Michiel), non possendo questi suoi riscuotere un quattrino delle sue entrate", subito partendone per "Altemburg, diocesi del suo vescovato di Giavarino, per tenervi un sinodo et per procurare, o per via d'affitti anticipati o in altro modo, di cavarne quel più che potrà et passare poi in Stiria alle altre sue chiese" allo stesso scopo, cercando così di mettere insieme la somma per fronteggiare il "grosso debito" da lui "lasciato" a Roma. E, mentre Pio V, sdegnato pel suo mancato tempestivo rientro, nel concistoro dell'11 dicembre, lo priva dell'elettorato attivo e passivo nel futuro conclave, il D. ritarda sino al 10 luglio 1567 il suo ritorno a Roma, accolto con corruccio dal papa, che egli invano cerca, con fare contrito, di mitigare. Né gli giova la notizia - trasmessa il 10 novembre da Facchinetti - dell'arresto, a Venezia, dell'abate Andrea Lippomano per aver consegnato un "piego di sue lettere", anziché al "corriero", ad un "servitore" padovano del rappresentante francese presso la Santa Sede, Giusto Luigi barone di Tournon e conte di Roussillon, ché detto "piego" contiene "lettere" di Lippomano proprio al Dolfin. S'aggiunge, nel febbraio del 1568, il duplice diniego papale alla sua petizione d'ottenere il viceprotettorato della nazione tedesca. Quanto al "negotio", cui accenna il Bonelli in una lettera, dell'11 maggio 1569, al Facchinetti, del conferimento, caldeggiato dal procuratore di S. Marco, Girolamo Zane, del canonicato a Lesina a Vincenzo Brebuida, è evidente che il "poco di difficoltà ... per causa dell'indulto" del D. verrà accantonato pel manifesto desiderio di Pio V d'accontentare il patrizio lagunare.
Tenuto in disparte dal papa, ignorato dai diplomatici veneziani cui è "prohibita" ogni "pratica" con lui, il D., per curare i propri interessi e sottrarsi ad un'atmosfera irrespirabile, raggiunge Giavarino, Praga, Vienna e da qui partito il 20 ag. 1571 si porta a Graz, più vicina alle abbazie di Seiz e Geirach, la cui amministrazione gli era stata affidata, ancora nel 1564, dall'arciduca Carlo. Ritornato a Vienna alla fine di gennaio del 1572, il soggiorno quivi prolungato risulta, anche se turbato da qualche dolore colico, fruttuoso, ché ne parte il 20 maggio forte della promessa d'"assegnamento", da parte di Massimiliano, di 36.000 talleri "da essere pagati in tre anni".
È tutto "allegro" (così, l'11, il nunzio Giovanni Dolfin, come lui nobile veneziano, ma non suo parente, al Commendone), "non sa quello che si faccia né si dice; Iddio li perdoni". Ad ogni modo, commenta il nunzio, "se è vero" che avrà tutto questo denaro, "buon pro le facia".
Rientrato, dunque, a Roma dopo la morte di Pio V e l'elezione - a cui di per sé non poteva partecipare - di Gregorio XIII, questi si rivela con lui meno ostile del predecessore. Dal nuovo papa il D., infatti, ottiene, nel 1573, l'agognato viceprotettorato della nazione tedesca ed ha modo, inoltre, di valorizzare la sua esperienza nella riattivata congregazione "delle cose di Germania" ove si "tratta del modo di ridurre" detta "provincia nella solita obedienza", partecipando anche ai lavori di quella "delle petitioni dei principi" e di quella "de negotii de Stati". Indotto, però, nel 1572 alla "resignatio" della sua diocesi ungherese (a questa risulta preposto, il 15 maggio 1573, Giovanni Listhius), assegnato, il 5 marzo 1574, il vescovato di Lesina all'aquilano Martino de Martini (con riserva, a vantaggio del D., della pensione di 600 ducati e della collazione dei benefici nelle mense apostoliche) e, in compenso, consolato dalla "grandissima quantità di denari" che gli arrivano, colla valigia diplomatica, da Vienna (e perciò sospettato di ricambiare informando la corte cesarea di "tutto ciò che si fa in Roma"), svanisce però la sua aspirazione alla nomina di cardinal legato in Germania, ché, il 3 marzo 1582, Gregorio XIII comunica d'aver scelto il vescovo di Trento LudoVico Madruzzo.
Mutato, il 16 apr. 1578, l'originario (risale ancora al 7 sett. 1565) titolo di S. Maria in Aquiro con quello di S. Stefano in Coelio, a sua volta sostituito, l'11 ag. 1579, da quello di S. Anastasia, anche il D. è oggetto, il 12 dic. 1583, del veemente attacco scagliato in concistoro da Gregorio XIII contro le ambizioni d'un Collegio cardinalizio indotto già a prefigurare, anche se il papa ancora gode di buona salute, schieramenti per la scelta del successore. Sconvolto dal dolore, cade ammalato e muore, il 19 dic. 1583, a Roma, "di un catarro che l'ha soffocato", come scrive l'ambasciatore veneto Lorenzo Priuli (ed è curioso che pure il D., annunciando, il 25 luglio 1564, la scomparsa di Ferdinando, l'uomo da lui più ammirato, abbia anch'egli scritto che l'imperatore è "morto ... soffocato dal catarro"), il quale non s'astiene dall'aggiungere che così il D. "ha reso l'animo" al "signor Dio", augurandogli condiscendente che "si degni tenere l'anima sua nella santa sua gratia", perdonando - è sottinteso - le sue colpe verso Venezia.
Sepolto "sine pompa et sine titulo", nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, "ante gradus arae maximae", un anonimo contemporaneo constata, con salomonica equanimità, che "è mancato un cardinale col rovescio et contrapeso di molte sue virtù et belle qualità".
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