CIAN, Vittorio
Nato a San Donà di Piave (Venezia), da Alberto e da Maria Plenario, il 19 dicembre 1862, studiò a Venezia nel convitto nazionale "Marco Foscarini", ove ebbe tra gli insegnanti R. Giovagnoli e tra i condiscepoli A. Panzini, P. Molmenti ed A. Fradeletto. Il primo scritto del C. fu la relazione sul Viaggio d'istruzione alla mostra nazionale di Milano, intrapreso dai convittori nell'agosto del 1881 (Venezia 1881).
Veneziano, massime dopo gli studi bembiani, il C. amò sempre chiamarsi e riconoscersi (cfr., per es., Scritti minori, Torino 1936, I, pp. 171, 198). Nonostante però i ricordi e raccordi domestici, nonostante gli assidui studi di cose veneziane, non si può tuttavia avvertire nell'opera e nella persona del C. il segno della cultura veneta dell'Ottocento. La quale fu, al suo meglio, vigorosamente fecondata da "uomini di frontiera" (come l'Ascoli e il Malfatti, l'Occioni e l'Inama), eredi e continuatori d'una cultura asburgico-mitteleuropea, in senso, appunto, germanico-nordico (di cui si scorgono le tracce frequenti anche nello Zanella, nel Fogazzaro, nell'Aganoor, ecc.): e fu, sul piano politico, essenzialmente "liberale", o addirittura di sinistra, come insegnano, oltre il non veneto Giovagnoli, i veneziani Fradeletto, E. Castelnuovo, L. Luzzatti e, in minor misura, Molmenti.
Il C., invece, fu costantemente "uomo d'ordine", impervio e ostile, anzi, al verbo della Sinistra, in ispecie all'incipiente e tosto vigoreggiante socialismo, pur vivendo, massime a Torino e a Messina, in assiduo contatto con uomini di Sinistra, o aderenti addirittura al socialismo, quali (rispettivamente) il Graf e il Pascoli. Simile, in questo, al suo condiscepolo Panzini.
Altrimenti dal Panzini, però, scelse la facoltà di lettere, anziché nella Bologna carducciana o nella Padova dell'Ardigò, nella Torino del "metodo storico", dove, negli anni medesimi del suo studentato, sarebbe sorto, ad opera oltre che del lombardo F. Novati, di due suoi maestri subalpini (ma nessuno di essi piemontese d'origine o di cultura), il Giornale storico della letteratura italiana.
La scelta dell'università fu, consapevolmente o inconsapevolmente, una scelta di vita. Ebbe conseguenze essenziali, ma forse esiziali, per tutta la sua esistenza. Come si conveniva forse a un adepto del Giornale storico, molto duramente criticato dal Carducci nella prosa del Ça ira (cfr. Opere [ed. naz.], XXIV, p. 442), ma altrimenti dalla maggioranza dei giovani italiani di allora, facessero o non facessero professione di studi letterari, il C. non fu mai "carducciano": nel senso, almeno, che poco o punto delle idealità carducciane (fascisticamente adulterate o fraintese in un discorso centenario del 1935, cfr. Scritti minori, II, pp. 249 ss.; e peggio negli scritti anteriori, ma sempre "era fascista": L'ora della Romagna, Bologna 1928, e la prefazione alla ristampa di D. Zanichelli, Le poesie politiche di G. Carducci, Bologna 1931), e nulla poi dello stile del Carducci si ritrova nell'opera e nella prosa del C., che al Carducci dedicò unicamente osservazioni od annotazioni marginali fra biografiche, ed erudite, massime sul dottor Michele, ma non ne sentì, né si preoccupò mai di far sentire ai suoi allievi, la poesia, e soprattutto la lezione.
Benché serbasse costante, riverente ricordo del Cipolla, del Graf e del Renier, solo a quest'ultimo (che non senz'orgoglio, associando al nome del C. quello di V. Rossi, "all'uno e all'altro Vittorio", discepoli e quindi colleghi, dedicò Svaghi critici, Bari 1910) il C. si apparenta, per il gusto comune dell'erudizione, per la comune fedeltà al Giornale storico (fors'anche per certa comune fedeltà al natio Veneto), sebbene il Renier avesse molto più del C. gusto e pratica della chose littéraire e assai maggiori conoscenze di lingue e letterature forestiere.
Molto in quest'ambito il C. avrebbe potuto imparare dal Graf, il quale fu anche spirito problematico e aperto ai problemi della politica e della scuola. Ancor prima che emergessero Farinelli e De Lollis, ancor prima che fruttassero le ricerche dei "comparatisti" e degli italianisti esperti di cose straniere (dallo Zumbini al Neri e al Galletti), il Graf poteva suggerire un avviamento europeistico-nordico, a cui non furono certo insensibili suoi allievi "novecenteschi" quali A. Momigliano e C. Calcaterra. Ma per il C. le letterature straniere sempre sostanzialmente restarono "terra incognita", a prescindere da qualche lettura del Taine, forse con l'unica eccezione dell'assai lodato, e in verità piuttosto mediocre, e comunque "esterno" ed "allotrio", contributo del 1892, Per la storia del sentimento e della poesia sepolcrale in Italia e in Francia prima dei "Sepolcri" del Foscolo (in Giorn. stor. ..., XX, pp. 205 ss.), dove la non poi troppo peregrina erudizione, carente per quanto riguarda gli "influssi inglesi, massime Thomas Gray, e sulla poesia "sepolcrale" francese e, direttamente ancor più che indirettamente, sulla coeva poesia italiana, certo non aiuta a cogliere il salto di qualità da una comune tematica di sensiblerie variamente europea al diverso, composito e personalissimo accento poetico del carme foscoliano.
In ultima analisi è, forse, da ritenere che dei tre suoi maestri torinesi il C. si trovò ad essere più vicino, anche per certo moralismo e sterile patriottismo da "uomo d'ordine", al veronese conte Carlo Cipolla, alle cui nozze il C. bene augurò con una pubblicazione confessatamente suggeritagli dalla "carità del natio loco", l'opuscolo che stampa e illustra Due documenti storici sull'antica gastaldia di San Donà di Piave (San Donà 1890), e al quale successivamente dedicò il "medaglione" su Cola Bruno messinese (Firenze 1901).
Nell'opera giovanile del C. il clima del tempo si riscontra, perciò, oltre che nell'indefessa energia di lavoro, nello scavo erudito, nella ricerca e pubblicazione del materiale, nell'impressionante e ordinatissima raccolta delle schede, anche nelle industri e pazienti indagini sulla poesia popolare, proseguendo, senza tuttavia il loro impegno, in alto e lato senso, "politico", nel solco del Nigra e del D'Ancona. Perché, quand'anche il "codino" e prenazionalistico, e poi nazional-fascistico, C. continuasse per qualche modo, e sostituendo in ultima analisi la propaganda, l'accademismo e il partito preso al generoso errore degli studiosi risorgimentali, il loro proposito d'indagare, e sperabilmente di scovare, le tracce d'un patriottismo nazionale italiano, dal Petrarca al Machiavelli, dall'Ariosto al Castiglione, ai celebratori antispagnoli di Carlo Emanuele I, nulla, in verità, se non analogia di temi e mera similarità esterna d'indagini, raccorda l'opera del C. all'opera, per es., d'un D'Ancona, il quale pur suggerì ai colleghi pisani il nome del C. come suo successore sulla cattedra. Sono, pertanto, meri propositi e attestazioni di pietas, non confermati dall'attività scrittoria, e tanto meno "politica", le asseveranze del C., nella prolusione pisana appunto (1900), d'una "piena concordanza della mia modesta opera e dei criteri ai quali essa è ispirata con la tradizione che s'impersona nell'insigne Maestro" (Scritti minori, I, p. 137).
Di qui la sostanziale estraneità, od alterità e solitudine, del C. pur frammezzo alla generazione del "metodo storico" (e ovviamente tanto più quando, varcata la soglia del Novecento, il "metodo storico" fu gradatamente superato dall'idealismo e dallo storicismo assoluto). Diverso dai "carducciani" per una forse minor esperienza linguistica e certo per un minor impegno di lettura dei classici, onde, a prescindere dall'unicum del commento castiglionesco, il C. (altrimenti dai Casini, Albini, Ferrari, Mazzoni, Bertoldi, ecc.) non provvide ad apprestare alcun commento, né di carattere storico-erudito, né di carattere filologico-linguistico, né di carattere "estetico". Diverso, altresì, da quegli studiosi che, pur condividendo col C. l'iniziale educazione filologica, quest'ultima volsero tanto a cure editoriali (Rossi, Novati, Sabbadini, ecc., per tacere, naturalmente, del Barbi; laddove la sola, o maggior, prova del C. in tal campo, l'edizione, rimasta in tronco al terzo volume, delle Prose foscoliane per i laterziani "Scrittori d'Italia", Bari 1912-1920, riuscì parecchio infelice) quanto all'esegesi di testi, danteschi in ispecie (Rossi, Torraca, ecc.), mentre lo stesso "dantismo" del C., a prescindere da occasionali discorsi accademici o da interventi polemici, come la stroncatura del libro di Croce, s'incentrò quasi esclusivamente sul problema dell'identificazione del Veltro: e scarse deduzioni, del resto, ne trasse per la storia dell'ideologia dantesca e della Kaisermystik medievale.
Perciò il C. fu sempre, e soltanto, uomo di schede, autore cioè di articoli, note, recensioni, ecc., ma non, propriamente, di libri - e questi, del resto, caratterizzano l'inizio e la fine d'una più che sessantennale operosità, proseguita incessante, ma immutabile, senza progresso d'incrementi ideali, di approfondimenti o rinnovamenti metodici, senza cangiamenti stilistici, senza un corso e una storia, se non si riduca la storia d'un uomo a un regesto bibliografico di "contributi", praticamente per ogni ambito e secolo della letteratura italiana. Il suo primo libro, la tesi di laurea, tosto edita (Torino 1885) col titolo Un decennio della vita di m. Pietro Bembo (1521-1531), e la dedica alla sua mamma, è, quindi, rimasto paradigmatico dell'immediata maturità e della sua intera attività erudita. Segna la ripresa o l'inizio degli studi bembiani, come non mancò di avvertire, allievo del C. e nostro bembista principe, C. Dionisotti (in Diz. biogr. degli Ital., VIII, p. 147). Anche segna, però, non pur la rivelazione, ma il ritratto fedele del C., qual era poco più che ventenne e quale rimase fin quasi ai novanta. Inarrivabile l'acribia dell'erudizione di prima mano, lo scrupolo nel restringere la ricerca non solamente a un decennio della vita del Bembo, ma a quel decennio per cui meglio potevano aiutar l'autore gli archivi e le biblioteche, soli da lui potuti sfruttare, dell'Italia centrosettentrionale e di Roma. Encomiabili, infine, in un giovanissimo, la modestia, la misura, la consapevolezza di non essere, né lui né altri, ancora in grado di scrivere una vita del Bembo e di dovere pertanto limitarsi a "un primo contributo": benché non manchi già qui la tendenza, se non a strafare, quanto meno a sommergere la trattazione critica frammezzo all'"erudizione ostentata" e ad una "sproporzione eccessiva nelle note", rimpinguate nelle "aggiunte", e cui si affianca una ricca "appendice di documenti".
Ma, in questo come nei migliori lavori del genere, non soltanto gli alberi tendono ad oscurare la visione della foresta, sì anche, e peggio, debolissimi si rivelano i criteri interpretativi, la caratterizzazione storica del Rinascimento, fra una svalutazione propria d'un meschino moralismo tardo-neoguelfo (per es., nelle pagine sulla famiglia e il concubinato del Bembo) ed un'esaltazione pseudo-patriottica, sulla quale, e sull'italianità linguistica del letterato veneziano, stingono i ricordi e gli echi dell'italianità linguistica ottocentistica, dalla Crusca al manzonismo. È significativo, d'altronde, che una ripresa e un'integrazione, ma non una revisione critica né un approfondimento storico, della monografia bembiana resti, quindici anni dopo, il ricordato "medaglione" su Cola Bruno, anch'esso, quale raccolta di materiali, esemplare e definitivo (se come un riassunto od una parafrasi del C. si legge, ad es., l'articolo sul Bruno nel Diz. biogr. degli Ital., XIV, pp. 650 s.).
Con questo bagaglio scientifico, che il C. tosto provvide ad accrescere mercé l'assidua collaborazione al Giornale storico e ad altri periodici, atti accademici e quotidiani (Fanfulla della Domenica, Nuova Antologia, ecc.), iniziò la carriera d'insegnante medio, massime al liceo "Cavour" di Torino, la città in cui mise radici, pur senza partecipare in realtà mai alla vera vita politico-culturale piemontese né al tempo del "metodo storico" né da quando, ancor professore a Pavia, il C. scelse Torino per sua stabile dimora. Conseguita ben tosto la libera docenza, l'esercitò all'università di Torino, dove l'anno accademico 1892-93 ebbe "l'onore arduo di sostituire il Graf, impedito di attendere al suo corso dall'ufficio di rettore" (Scritti minori, I, p. 384 n. 2; cfr. p. 364): il Graf che il 23 ott. 1892, nella chiesa torinese del Corpus Domini, era stato testimone delle nozze del C. con Maria Sappa Flandinet (cfr. V. Cian, Scritti di erudizione e di storia letteraria, Siena 1951, pp. 95 s.). Mentre la dotta italianistica nostrale bene augurava alle nozze con una importante miscellanea erudita (Bergamo 1894), il C. entrava così in relazioni di parentela con una colta famiglia piemontese, in cui spiccano lo zio M. Sappa e il nipote-scolaro B. Soldati, editore del Pontano e studioso del Foscolo, la cui morte per postumi di guerra il C. celebrò e pianse in pagine di alta umanità (cfr. B. Soldati, Lettere e ricordi, Saluzzo 1919, pp. 288-291). Contemporaneamente, il C. completava, per invito del Carducci e pubblicazione appunto nella "carducciana" del Sansoni (Firenze 1894), la prima edizione del suo indubbio, sicuro e durevole capolavoro, il commento al Cortegiano del Castiglione, la cui quarta ed ultima edizione è, fuori collana, del 1947.
"Egli è conoscitore filologicamente perfetto del Cortegiano e bisognerà procurarsi la sua edizione del libro", scriveva un discepolo avverso nei propri quaderni carcerari (cfr. A. Gramsci, Il Risorgimento, Torino 1949, p. 33 n. 1), e così esattamente coglieva il merito intramontabile del lavoro. Qui ancora, infatti, l'acribia filologica, pur senza permettergli di redigere un testo critico del Cortegiano, la conoscenza mirabile dell'ambiente, degli interlocutori, dei personaggi, delle costumanze, delle allusioni, la misura e sobrietà nelle annotazioni (che, a dritto o a torto, non sono mai di carattere linguistico-estetico), la dottrina squisita nel ritrovare (e sovente riprodurre in versioni cinquecentesche) i luoghi dei classici greci e latini cui s'ispira il Castiglione, cospirano all'interpretazione, ricreano nella sua interezza e nella sua genesi un'opera emblematica del Rinascimento europeo (senza, tuttavia, che la visuale meramente italica del C. gli permetta di render giustizia all'efficace funzione universalmente europea ch'ebbe fra Cinque e Seicento il libro del Cortegiano; quale affigurò, con tanto minor competenza specifica, per es. sir E. Barker, Traditions of Civility, Cambridge 1948, pp. 124 ss.). Significativo e rivelatore dell'uomo, e del suo scarso "storicismo", è, d'altronde, che, spesa pressoché tutta una vita in analisi e ricerche castiglionesche (se ne vegga l'elenco, redatto dallo stesso C., a p. 338 della sua sottocitata monografia), il volume conclusivo, a prescindere dalla completezza e integralità di rassegna dell'attività letteraria e politica del Castiglione, non offra né alcun approfondimento ulteriore né alcun diverso punto di vista da cui giudicarne e ricostruirne unitariamente la figura, né mostri alcuna effettiva capacità d'immergerlo nella realtà italo-europea del primo Cinquecento: come pur seppero fare, appunto in virtù del loro "storicismo", critici e prosecutori del C. (quali C. Dionisotti, in Giorn. stor. ..., CXXIX [1952], pp. 31-57, a rec. di V. Cian, Un illustre nunzio pontificio dei Rinascimento: Baldassar Castiglione, Città dei Vaticano 1951; e C. Cordiè, nella sua ed. "ricciardiana" del Castiglione, Milano-Napoli 1960, pp. XL-XLII).
Ben si meritava il C. una cattedra universitaria e l'ebbe, vincitore di regolare concorso, a Messina, per l'anno accademico 1896-97. Iniziò con la prolusione (letta il 16 genn. 1897) L'estetica della storia (rist. in Scritti minori. I, pp. 3 ss.). E di qui disgraziatamente anche incomincia l'attività del C. minore o peggiore. Consapevole, per un verso, dell'ormai incipiente, e anzi, rapida, crisi del "metodo storico" e non ignaro degli studi di storiografia e di estetica intrapresi "dall'egregio amico B. Croce" (ibid., I, p. 40 n. 28), il C. si diede, infatti, all'impossibile tentativo di consertare le nuove esperienze "idealistiche" col suo radicato anti-filosofare, cioè col suo intrinseco antistoricismo. Donde l'inutilità dei problemi di metodo e delle proposte critiche, vuoi (nella prolusione messinese) il rapporto fra storia e poesia interpretato meramente come la possibilità di trasformarla storia in poesia (o di far poesia della storia: che sono, nel primo caso, un assurdo; nel secondo, una banalità od un truismo), vuoi (nella prolusione torinese del 1914; ibid., I, pp. 363 ss.) il programma d'una "critica integrale o totalitaria" (p. 381), "per la buona intesa" fra metodo "storico" e metodo "estetico", trasformando in funzioni fra pratiche e didattiche, di armonica "unità e divisione nel campo letterario", un'attività dialettica ed eminentemente individuale (se davvero si vuole assurgere dal piano della mera filologia al piano della critica e della storia).
Perciò tutte le scritture del C. che non trattino questioni di pura informazione od erudizione risultano viziate in radice da questa presunta polemica anticrociana (che dalla prima guerra mondiale in poi si colorì di polemica politica). Lo stesso miglior frutto del suo soggiorno messinese, il volumetto Sulle orme del Veltro (Messina 1897), ripresentato molti anni di poi col nuovo titolo (e l'impostazione immutata) Oltre l'enigma dantesco del Veltro (Torino 1945; felicemente accresciuto, però, d'una sorta di regesto o historique delle moderne interpretazioni del Veltro dantesco; e qui son particolarmente notevoli gli accenni al Pascoli, pp. 78 s., 106 s.), resta unicamente valido per la ricostruzione d'un abito e d'un programma di profezia politica che il C. analizza nell'arco storico-cronologico dalla quarta ecloga virgiliana alla pubblicistica e alla corte di Federico Il (senz'avvertire, però, l'esistenza o almeno la possibilità d'un filone greco dall'età ellenistica alla fine del sec. XIII, tramiti e mediatori i Bizantini e gli Arabi).
Il tratto più durevole del C. "messinese" resta, perciò, la sua amicizia col Pascoli, coronata e confermata in perpetuo da quel saggio su G. Pascoli poeta (nella Nuova Antologia del 1° nov. 1900, rist. in Scritti minori, I, pp. 293 ss.), disteso "quasi sono gli occhi" del poeta e certo d'intesa con lui (o, quanto meno, frutto delle conversazioni e discussioni dei due colleghi), sebbene il Pascoli, pur professandosi gratissimo d'un articolo su cui aveva pianto "spesso, e dirottamente, leggendolo: ti basti questo, se vuoi sapere che cosa ne penso" (cfr. V. Cian, in Convivium, n. s., 1 [1949], p. 29), sembra non si astenesse, tuttavia, dal coniare contro il C. un sapido quanto ingeneroso epigramma: "il contrario dell'Etna". Al Pascoli il C. rimase legatissimo sempre e, trasferitosi nel 1900 all'università di Pisa, divenne, da nuovo preside della facoltà letteraria, strumento efficacissimo del proceduralmente assai complicato passaggio del poeta dalla cattedra messinese di letteratura latina alla cattedra pisana di grammatica greca e latina.
Ebbe anche il merito, o il coraggio, di sconsigliar energicamente il Pascoli dal voler raccogliere la successione del Carducci sulla cattedra di Bologna, suscitando nell'amico quella quasi allucinata reazione o rivelazione che resta uno dei documenti capitali della psicologia del poeta (cfr. V. Cian, in Giorn. stor. della lett. ital., CX [1937], 328 s., pp. 172 s., e Convivium, 1949, pp. 49 s.).
I brevi anni pisani del C. (1900-1908) furono, essenzialmente, anni di scuola ed è un'assai onorevole professione di gratitudine al severo e operoso maestro il volume, pur stroncato ferocemente da Renato Serra (cfr. E. Raimondi, Il lettore di provincia, Firenze 1964, pp.158 ss.), che per il suo commiato gli dedicarono i discepoli (insigni fra essi G. Fatini ed E. Clerici, L. Cambini e P. Carli), non senza la rammaricante adesione di G. Gronchi (cfr. A V. C. i suoi scolari dell'Università di Pisa, Pisa 1909, specie pp. 203 ss., 289); mentre, né solo per la casualità occasionale del centenario dell'orazione, furono essenzialmente "foscoliani" gli anni pavesi (1908-1913). Alla morte del Graf gli successe sulla cattedra di Torino e da Torino non si mosse più. Divenne tosto uno dei maggiorenti nazionalisti (dond'era poi breve il passo al fascismo, che lo volle suo deputato dal 1924 al 1929 e successivamente senatore), mentre dal 1918 esercitò per un ventennio la direzione del Giornale storico.
Le testimonianze concordi, su e contro il "cianismo", di G. De Sanctis (Ricordi della mia vita, Firenze 1970, pp. 107 ss.), che accusa il C. di aver organizzato i tumulti universitari del "maggio radioso", e di A. Gramsci (Scritti 1915-1921, a cura di S. Caprioglio, Torino 1968, pp. 4 s.), che analogamente accusava il C. di voler la destituzione dei colleghi antilibici, stranieri e neutralisti, nonché la denunzia che il C. sporse per "disfattismo" contro un giornalista e insegnante integerrimo, il dantista e francescanista U. Cosmo (vittoriosamente difeso da G. De Sanctis e B. Croce), comprovano come il C. nel suo livore di vecchio "codino" (già il 1900 nella commemorazione di Umberto I, con sorpresa e risentimento del Pascoli, non si era peritato di asserire una sorta di complicità morale dei socialisti col regicida di Monza) non esitasse a compiere bassezze e bricconate.
Sempre, però, e più sotto il fascismo, il C. rimase un docente esemplare, imparzialissimo e liberalissimo anche nei confronti di allievi dichiaratamente o notoriamente antifascisti; come, nonostante la diuturna e miserevole polemica anticrociana, ricercò la collaborazione, ed esaltò i meriti, di studiosi lato sensu gobettiani e crociani, quali N. Sapegno e M. Fubini, E. Rho, F. Antonicelli, C. Dionisotti, ecc. Negli anni del suo impegno parlamentare volle, anzi, che L. Di Francia non sostituisse, ma integrasse con i propri, i suoi corsi, imponendo quindi agli studenti un esame obbligatorio biennale che si articolava in quattro corsi monografici (più Dante e la conoscenza larghissima dei maggiori fra i nostri classici).
Il meglio del C. "torinese" è nei due volumi (I, Milano 1923; II, 2 ed., ibid. 1945) de La satira, nella vallardiana "Storia dei generi letterari italiani", un'opera, od una cronistoria, rimasta in tronco al Chiabrera. Il C. negò di aver voluto scrivere la storia d'un "genere" (perché non insensibile alla liquidazione crociana del concetto di "genere" letterario) e asserì d'aver tentato "di ricostruire, senza artifici e senza preconcetti, né retorici, né estetici, né filosofici", una "storia, nient'altro che storia" (I, p. XI), sostituendo al criterio di genere letterario il problema e "la storia dello spirito satirico italiano, svolgentesi attraverso i secoli, nella sua continuità ininterrotta, cioè nella sua unità e insieme nelle sue più libere e svariate manifestazioni, di arte individuale" (I, pp. VIII s.).
Lo spirito satirico italiano, però, non è, nell'ipotesi migliore e nella sua miglior trattazione, se non un aspetto, concreto sì, ma anche parziale, dell'attività di un poeta o di un letterato (tranne quei rari casi nei quali l'intera, o l'essenziale, operosità d'un letterato si assommi e concluda tutta quanta nell'esercizio di questo presunto "spirito satirico"). Perciò, se possono soddisfare, indipendentemente dal concetto o preconcetto o pseudoconcetto di "spirito satirico", le pagine sull'Angiolieri e su altri scrittori analoghi, la trattazione sullo "spirito satirico" in Dante, massime il Dante della Commedia, o nell'Ariosto, in quanto autore appunto di Satire, non può non riuscire monca e contraddittoria, difettando la ricostruzione dialettica dell'unità dello spirito d'un poeta; e di questo, soltanto, si può scriver la storia. Qui pure il merito del C. si restringe, pertanto, ad aver accumulato diligentissime schede, ampi sussidi bibliografici, materiali per uno studio della tradizione letteraria o dei mezzi espressivi di scrittori italiani: dunque, solo un indiretto, e parecchio limitato, "contributo" alla storia della nostra letteratura. Torino, d'altronde, anche significava, per il C., il Risorgimento e la cultura dell'Ottocento, che egli esplorò nelle carte del Grassi e del Gioberti, del Breme e di P. A. Paravia, con risultati tanto più apprezzabili quanto più provvide a pubblicar materiale inedito o poco noto, come il volumetto Gli alfieriani-foscoliani piemontesi ed il romanticismo lombardo-piemontese del primo Risorgimento (Roma 1934).
Non senza qualche infortunio dalle semicomiche conseguenze, ad es., l'infelice edizione delle Lettere di P. D. Pinelli a V. Gioberti (Roma 1935) la cui stroncatura ad opera di A. Omodeo (in La Critica, XXXIV [1936], pp. 210 s.) indusse il C. a troncare dopo trent'anni l'abbonamento alla rivista (cfr. Carteggio Croce-Omodeo, a cura di M. Gigante, Napoli 1978, pp. 105 s.). Croce, e dal carcere Gramsci (cfr. Note sul Machiavelli, Torino 1966, p. 212), non mancarono di protestare contro "la retorica stopposa del Cian", il suo anacronistico "precursorismo". Tanto più che poi il C., il successore di A. D'Ancona (ben diversamente in questo da G. Gentile) non esitò ad imbragarsi nell'antisemitismo gli anni della seconda guerra mondiale.
L'età e il crollo cruento dei suoi ideali politici non l'indussero, tuttavia, a disarmare. Continuò, anzi, a scrivere (ed eventualmente a macchiare con allusioni "attuali" i propri volumi eruditi, come il libriccino Umanesimo e Rinascimento, Firenze 1941, mediocre ribadimento d'una lunga serie di "contributi" elencati alle pp. 149 s. e pretesto per osannare alla conciliazione del febbraio 1929, p. 92 [cfr. Scritti minori, II, p. 377]; o per asserire, pp. 140 s., "che il sentimento della romanità... riuscì a formare negli italiani colti una sempre più chiara coscienza politica di carattere nazionale unitario"). Felicemente riprese fra mano il suo Castiglione, preparando la monografia e l'edizione "definitiva" del Cortegiano, fra l'altro col volumetto La lingua di B. Castiglione (Firenze 1942).
Sfollato e poi ritiratosi a Procaria, comune di Ceres, in Val di Lanzo (Torino), vi morì il 26 dic. 1951, legando all'Accademia delle scienze (della quale era socio dal 1917 e fu commissario e presidente dal 1934 al 1938) una raccolta di circa ventimila opuscoli ed un carteggio che sarà, per suo volere, accessibile agli studiosi dal 1980 (così P. Jannaccone, in Atti d. Acc. d. scienze di Torino, cl. di sc. mor., LXXXVII [1952-53], p. 403)
Bibl.: La bibl. del C. (con qualche lacuna, per es. la lettera aperta ad E. Corradini, del 1928, contro la Storia d'Italia del Croce) è in append. ai due volumi degli Scritti minori (Torino 1936), II, pp. 409 ss. Si veda il necrol. di G. Vidossi, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXIX (1952), pp. 136 s. (che elenca altresì "i suoi contributi al Giornale" dopo il 1936: ibid., pp. 137 ss.); C. Dionisotti, ibid., p. 57 ed E. Santini, ibid., p.97. Ritratti critici e ricordi: P. Carli, Saggi danteschi, Firenze 1954, pp. 294 ss.; F. Tateo, in I critici, III, Milano 1969, pp. 1839-1868 (con ulteriori indicazioni biogr. e bibliogr.); G. Getto, Poeti del Novecento e altre cose, Milano 1977, pp. 159-69. Per la polemica di B. Croce, cfr. in ispecie Pagine sparse, Bari 1960, I, pp. 158-162; II, pp. 204 ss.; III, pp. 262 ss.; Nuove Pagine sparse, Bari 1966, I, pp. 398 s. (la riconciliazione, o rappacificazione, col Croce, attestata da una sua lettera al filosofo in data 22 ott. 1950, favoritami da Alda Croce, ricorda P. Carli, op. cit., pp. 304 s.). Per la critica dantesca del C., cfr. S. Breglia, Poesia e strutt. nella Divina Commedia, Genova 1934, pp. 17 ss. Per le relazioni col Pascoli (oltre agli scritti "pascoliani" del C. già ricordati) cfr. G. Resta, Pascoli a Messina, Messina 1955, pp. 56-59, 128; M. Pascoli, Lungo la vita di G. Pascoli, Milano 1961, passim, in Specie, pp. 798 ss., e G. Pascoli, Prose, II, 2, Milano 1952, pp. 1466 s. Contro L'ora della Romagna, il giudizio (ex eventu ... ) di M. Valgimigli, Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze 1965, p. 303. Sul C. "foscolista" l'acuto, ma severo, giudizio di S. Tirripanaro, in Giorn. stor. della lett. ital., CXLVIII (1971), pp. 464, 522 s.