GAYDA, Virginio
Nacque a Roma, il 12 ag. 1885, da Stefano e Clotilde Stratta. Si laureò a Torino in scienze economiche e in seguito frequentò il laboratorio di economia politica Cognetti De Martiis dell'Università di Torino, pubblicando saggi su La Riforma sociale e sulla Revue d'economie politique.
Nel 1908 entrò a La Stampa e venne inviato, come corrispondente estero, prima a Costantinopoli, durante la rivoluzione dei Giovani Turchi, poi in Grecia e quindi, nel 1911, a Vienna, dove visse fino alla vigilia della guerra.
Il lungo soggiorno in un importante osservatorio della politica internazionale, qual era allora la capitale dell'Impero austro-ungarico, consentì al giovane G. di entrare in relazione, e talvolta stringere amicizia, con alcuni dei più noti ed affermati redattori europei di politica internazionale: tra questi W. Steed, allora corrispondente da Vienna del londinese Times, alla cui frequentazione il G. dovette molto del suo rapido apprendistato sulle questioni che agitavano la vita politica dei paesi dell'Europa orientale. Dal soggiorno viennese e dai lunghi viaggi nei paesi dell'Europa centrale, orientale e balcanica, il G. ricavò il materiale per il volume La crisi di un impero (Torino 1913), la cui lettura conserva ancor oggi una sua utilità per comprendere i gravi contrasti e le spinte centrifughe che lacerarono l'Austria-Ungheria negli ultimi anni di regno dell'imperatore Francesco Giuseppe; l'opera, dopo un viaggio del G. in Galizia e Bucovina, ebbe una nuova edizione ampliata, con il titolo L'Austria di Francesco Giuseppe (ibid. 1915). Ai problemi dell'Impero austro-ungarico è pure dedicato L'Italia d'oltre confine (ibid. 1914).
Il G. fu tra gli ultimi italiani a lasciare Vienna, quando fu chiaro che la crisi tra i due paesi stava ormai precipitando verso la guerra. Durante il periodo della neutralità italiana, egli si manifestò prudente assertore di un nazionalismo a sfondo imperialistico che finì per metterlo in conflitto con la linea redazionale della Stampa, neutralista e giolittiana, ma tale era la stima di cui godeva presso il suo direttore, A. Frassati, che questi non pensò mai di liberarsene. Tuttavia il medesimo Frassati non si trattenne dall'intervenire più volte sugli articoli che il G. gli inviava da Roma, dove si era stabilito dopo il lungo soggiorno a Vienna, e, a giudicare dalle lettere note del loro carteggio, non dovettero essere pochi i contributi che, in quella lunga vigilia di guerra, gli furono censurati.
L'interventismo del G., comunque, presenta, almeno inizialmente, aspetti contraddittori, e non del tutto chiari, posti in evidenza dalla collaborazione a giornali quali La Concordia - monarchico ma anche decisamente neutralista e filotriplicista - e L'Unità di G. Salvemini, organo dell'interventismo democratico, che si batteva però per il rispetto delle nazionalità, ed era, quindi, contrario ad annessioni territoriali etnicamente ingiustificate. In ogni caso, questi tentennamenti del G., se mai ci furono, ebbero brevissima durata, come testimoniano le successive collaborazioni alla Rassegna italiana di T. Sillani, acceso sostenitore dell'italianità dell'Adriatico, e, più tardi, a Il Tempo di F. Naldi.
Negli ultimi mesi della neutralità italiana i contrasti con Frassati si acuirono, aggravati da una più decisa partecipazione del G. alle iniziative in favore dell'intervento (come, ad esempio, la conferenza nazionalista, tenuta il 21 nov. 1914 all'albergo Europa di Torino). Per questo, quando il G. venne destinato corrispondente in Russia, L'Idea nazionale ritenne di dover prendere le sue difese, sostenendo trattarsi di una decisione a carattere punitivo per la divergenza di opinioni che da tempo lo opponeva a Frassati. In Russia - dove lo colse la dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria - il G. di fatto ricoprì contemporaneamente anche la carica di addetto presso l'ambasciata italiana a Pietroburgo, con non ben chiari incarichi di carattere politico-militare; per esempio, organizzò il primo concentramento di prigionieri, di nazionalità austriaca ma di etnia italiana, estradati in Italia. Fu in Russia, dove rimase sino agli inizi del 1918, che il G. si affermò definitivamente come uno dei migliori corrispondenti di politica estera.
Profondo conoscitore della realtà russa e testimone degli eventi che condussero al potere i bolscevichi, il G. fu in grado di inviare alla Stampa interessanti contributi sugli sviluppi rivoluzionari, i quali spiegavano efficacemente i caratteri della crisi politico-sociale che doveva portare Lenin al potere. Particolarmente apprezzabili risultano gli articoli relativi al periodo intercorso tra la rivoluzione del marzo 1917 e la svolta bolscevica del novembre successivo, nei quali, a differenza di altri suoi colleghi, riuscì a valutare con molto realismo l'ascendente che andavano progressivamente acquisendo i dirigenti bolscevichi sulle masse russe e sui soldati, e quindi ad anticipare ampiamente gli sviluppi più radicali della crisi. Dall'esperienza ricavò gli elementi per un nuovo volume, Il crollo russo (Torino 1919).
Lasciata la Russia nel maggio del 1918 e rientrato in Italia, gli vennero affidate dal ministero degli Esteri altre missioni, di cui di fatto si conosce assai poco, e che lo portarono in Svezia, sino al gennaio del 1919, e a Londra sino all'estate successiva. Tornato in Italia, divenne responsabile per la politica estera presso Il Messaggero. Nella nuova veste trascorse buona parte del 1920 percorrendo in lungo e in largo l'Europa, con lunghi viaggi che lo condussero di volta in volta in Francia, Belgio, Olanda, Danimarca e Germania.
Il tentato colpo di Stato di W. Kapp del marzo 1920 lo portò in Germania e in Francia, allo scopo di analizzare le insidie che la crisi politica tedesca poteva rappresentare per i fragili equilibri europei, e, soprattutto, di indagare i caratteri della nuova Destra oltranzista tedesca, cui la crisi aveva dato improvvisa notorietà, e di cui il G. evidenziò non solo gli inquietanti caratteri nazionalistici, ma, quasi profeticamente, riuscì a cogliere i latenti umori antisemiti. Inoltre, egli individuava nel ritrovato dinamismo della produzione industriale tedesca, nella contemporanea chiusura a essa dei mercati mondiali, e nella pervicace e rancorosa ostinazione delle potenze vincitrici europee nell'esigere il pagamento dei danni di guerra, un viluppo contraddittorio e drammatico da cui l'aggressiva Destra tedesca attingeva crescente energia. Riunì poi tali considerazioni nell'opuscolo La Germania contro la Francia (Firenze 1922).
Nel febbraio 1921 il G. era stato nominato dai fratelli Perrone direttore del Messaggero. In tale veste, contribuì in modo decisivo a condurre a termine la già avviata trasformazione del quotidiano romano da testata liberal-democratica di ispirazione nittiana, quale era stato, in giornale filofascista.
Essendo note le sue simpatie per le correnti politiche nazionaliste, l'approdo del G. alla direzione del Messaggero portò alle dimissioni dei principali collaboratori di area democratica: A. Cianca, A. Giannini, G. Celli e lo stesso direttore, di cui prendeva il posto, I.C. Falbo; in breve tempo, quindi, completò l'opera eliminando le residue voci democratiche e liberali. Quando B. Mussolini giunse al potere, i suoi rapporti con il G., già amichevoli, si rinsaldarono, tanto che egli fu tra i non molti giornalisti regolarmente ricevuti dal nuovo capo del governo.
Ad uno di questi incontri alludeva G. Emanuel, del Corriere della sera, in una lettera a L. Albertini, nella quale senza mezzi termini sosteneva non poterci essere "un giornalista onesto il quale oggi non senta rossore per la bassezza a cui il giornalismo è stato umiliato da quel lanzichenecco di Gayda". Il passaggio al fascismo del giornale romano avvenne, comunque, senza scosse e senza ripensamenti e non fu toccato né dalla crisi Matteotti né dal discorso del 3 genn. 1925, che sanciva l'assunzione della dittatura da parte di Mussolini.
Nel novembre del 1925 il G. s'iscrisse al Partito nazionale fascista e fu poi lo stesso Mussolini a volerlo alla direzione del Giornale d'Italia, assunta il 30 marzo 1926. Nel suo primo editoriale il G. si affrettava ad assicurare al regime che Il Giornale d'Italia sarebbe stato "un giornale incondizionatamente fascista e incondizionatamente disciplinato": egli, quindi, era chiamato a ripetere l'operazione in precedenza felicemente condotta in porto al Messaggero, e cioè "ridurre l'antico organo sonniniano a fedele portavoce della propaganda fascista". Mussolini ripagò l'incondizionata fedeltà del G. mostrando di tenere in gran conto il quotidiano romano, al quale volentieri concesse interviste, e dal quale pretese, anche dopo la fascistizzazione, un "tono più elevato di quello dei giornali del suo partito".
I rapporti tra i due dovettero essere davvero amichevoli se, nel maggio del 1925, il G. poteva permettersi di scrivere una singolare lettera a Mussolini, con la quale gli annunciava l'invio in dono di due suoi volumi, poiché, come ricordava in quella circostanza al capo del fascismo, quest'ultimo in un recente discorso al Senato aveva "avuto l'imprudenza di dire che legge molti libri". Un'impertinenza che il G. evidentemente si poteva permettere.
A partire dal 1926 l'adesione del G. al regime e al "mussolinismo" si accentuò ulteriormente con le collaborazioni a Bibliografia fascista - un periodico voluto da Mussolini con specifici intenti di propaganda all'interno e all'estero - e a Gerarchia. Nel 1929, venne quindi chiamato a far parte della Commissione superiore per la stampa che, insieme con altri e vari organi e forme di controllo, svolgeva un importante ruolo nell'opera di allineamento del giornalismo italiano alle direttive fasciste, per cui la nomina del G. può essere considerata un segno tangibile di indiscussa fiducia da parte del regime e insieme un riconoscimento alla fedeltà dimostrata. Nel corso degli anni Trenta, il suo ruolo di zelante propagandista e di ascoltato consigliere di Mussolini e di G. Ciano per la politica estera si fece sempre più evidente.
Nel 1939 D. Grandi scriveva che il G. era ormai considerato negli ambienti politici romani "il portavoce ufficioso di Mussolini" e questo ruolo era tanto universalmente riconosciuto che i suoi editoriali erano ritenuti dai diplomatici stranieri una lettura indispensabile per comprendere la posizione del governo italiano. Quando Ciano voleva esprimere pubblicamente il punto di vista del governo fascista, anche in momenti particolarmente delicati, si rivolgeva al G., che docilmente poneva la sua efficace penna al servizio dei tortuosi percorsi della politica estera fascista. Questo ruolo fu indirettamente riconosciuto dallo stesso Ciano, ad esempio quando, nel periodo della neutralità italiana precedente la seconda guerra mondiale (settembre 1939 - giugno 1940), nel commentare le insistenze dell'incaricato d'affari inglese, ansioso di conoscere le imminenti decisioni italiane circa il conflitto in atto, scrisse che non era intenzione dell'Italia, almeno "fino a nuovo ordine", rendere più concreta la sua solidarietà nei confronti della Germania in guerra, "il che vuol dire che non intende far tuonare i cannoni (pochi) di Badoglio invece dei cannoni di carta di Gayda".
Anche sui temi della questione razziale, gli interventi del G. furono di notevole rilevanza: già nel dicembre 1935, un suo articolo sul Giornale d'Italia - in cui definiva l'ebraismo "una di quelle oscure forze che, colla massoneria e col bolscevismo russo, congiurano all'estero ai danni dell'Italia" - aveva destato la preoccupazione dei dirigenti dell'Unione delle comunità israelitiche italiane, i quali avevano inoltrato a Ciano una protesta scritta. Tuttavia, negli anni, immediatamente successivi, della conquista dell'Etiopia il G. preferì indirizzare la sua attenzione, più che sulla questione ebraica, sui problemi che la nuova colonia poneva agli Italiani circa i rapporti con le popolazioni indigene.
Egli sostenne la necessità per il fascismo di combattere il meticciato; accolse pertanto con entusiasmo la decisione del governo, deliberata col decreto legge del 9 genn. 1937, di perseguire con sanzioni penali qualsiasi rapporto tra "i cittadini italiani e i sudditi dell'Africa Orientale Italiana", avventurandosi in alcune grossolane considerazioni circa i danni che avrebbe potuto provocare nei territori dell'Impero una massiccia presenza di meticci, da lui definiti "prodotti bastardi che sono una spaventosa peste per la civiltà spirituale e politica non meno che per quella economica e sociale". Riteneva, quindi, che compito del fascismo fosse quello di conservare agli Italiani il "fiero senso della superiorità della loro razza che non deve essere contaminata e avvilita".
In seguito il G. fu indubbiamente una delle personalità di maggior spicco fra quante il regime riuscì a reclutare nella campagna di propaganda per imporre alla coscienza del paese la discriminazione razziale. Le sue discutibili e sconnesse considerazioni in tema di razza non apparvero solo sulle colonne del suo giornale, ispirate quindi alle esigenze della propaganda spicciola, ma vennero affidate alle pagine di un opuscolo, La donna e la razza, compreso nell'opera collettanea Inchiesta sulla razza, a cura di P. Orano (Roma 1939); e, soprattutto, alle pagine più autorevoli e durature della Enciclopedia Italiana, per la quale egli compilò, nell'Appendice I del 1938, l'aggiornamento della voce Razza: La politica fascista della razza.
Per il G. il passaggio dal razzismo nei confronti delle popolazioni delle colonie all'antisemitismo non presentò difficoltà. Anzi, nel citato contributo dell'EnciclopediaItaliana, egli tratta i due fenomeni come due aspetti di una stessa attitudine. Nell'analisi delle origini e delle cause dell'antisemitismo, il G. sulle prime indirizza la sua attenzione alle conseguenze economiche e sociali derivate al nostro paese, a suo dire, dalla presenza di quegli immigrati ebrei tedeschi e austriaci che nel corso degli anni Trenta erano riparati in Italia a causa dalle persecuzioni naziste: essi, secondo il G., avevano contribuito a produrre "uno stato di disagio economico e sociale" e avevano rappresentato "un improvviso e pesante elemento nuovo di concorrenza, soprattutto nelle attività delle libere professioni e in quelle dei commerci e degli affari". Per di più la mentalità degli ebrei non era assolutamente in grado di "armonizzarsi con quella della razza italiana", ed era pertanto da apprezzare il governo fascista che con grande coerenza e tempestività aveva avviato "un'azione statale rivolta alla difesa della purità della razza italiana e dell'esaltazione dei suoi più essenziali valori".
Il ruolo di propagandista del regime arrivò nel G. a forme di assoluta piaggeria con l'approssimarsi della guerra e perdurò anche nel corso del conflitto, ormai quasi controcorrente, se si considera la contemporanea e progressiva disaffezione verso il duce che, di fronte alle evidenti difficoltà belliche, avevano iniziato a mostrare intellettuali e giornalisti, come il G., di origine nazionalista.
L'indubbia fedeltà non gli consentì, tuttavia, di sfuggire del tutto alla sospettosità di Mussolini provocata, in particolare, da due articoli scritti in circostanze diverse. Il primo, dal titolo Che farà l'Italia?, era stato dal G. pubblicato in occasione dell'invasione tedesca della Polonia nel settembre 1939. Il pezzo che, secondo G. Bottai, era stato dettato da Ciano, e in cui veniva adombrata la possibilità di un cambiamento di rotta rispetto alla linea politica fin lì seguita dall'Italia, era stato vivamente deplorato da Mussolini. Il secondo incidente si verificò qualche anno dopo, a pochi mesi dalla caduta del duce, per l'articolo Resistenza, del 17 febbr. 1943 sempre sul Giornale d'Italia, in cui il G. ammetteva le difficoltà militari dell'Asse ed indicava nella capacità di resistenza delle nazioni in guerra l'elemento decisivo per la vittoria: era questa una indiretta ammissione della probabile sconfitta delle forze dell'Asse, in quanto era ormai evidente come il primato della produzione bellica, decisivo ai fini della prosecuzione della guerra, fosse passato nelle mani degli Anglo-Americani. Da quel momento, fino al successivo 23 marzo, pur continuando a scrivere sul Giornale d'Italia, il G. non poté più firmare i suoi articoli.
A questa data il G. tornò a godere della particolare considerazione di Mussolini, che riprese a riceverlo con la consueta regolarità in udienza a palazzo Venezia dove egli andava soprattutto per raccogliere "le alte e generali direttive che di tanto in tanto [il duce] si compiace di impartirmi". Il G. continuò a dirigere Il Giornale d'Italia fino alla caduta del fascismo: l'ultimo numero con la sua firma come direttore e gerente è datato 25 luglio 1943, quando gli successe A. Bergamini.
Il G. morì a Roma il 14 marzo 1944.
Oltre a quelle citate nel testo si ricordano del G. le seguenti opere: La Dalmazia, Torino 1915; Gli Slavi della Venezia Giulia, Milano 1915; La piccola proprietà rurale negli Stati Uniti ed in Russia, Torino 1915; La costruzione dell'Impero, Roma 1936; Italia, Inghilterra, Etiopia, ibid. 1936; Gli accordi di Roma tra l'Italia l'Austria e l'Ungheria come direttive per la soluzione del problema danubiano. Relaz. al Primo Convegno nazionale per gli studi di politica estera, Milano 15-16-17 ottobre XIV, Milano 1936; Problemi siciliani, Roma 1937; I "Quattro anni" del Terzo Reich (L'autarchia in Germania), ibid. 1938; Sulle vie dell'autarchia, in Italia e Germania, ibid. 1938; La politica italiana nei Balcani: suoi sviluppi e sue prospettive. Relazione generaleal Secondo Convegno nazionale per gli studi di politica estera, Milano 2-3-4 giugno XVI, Milano 1938; Italia e Francia. Problemi aperti, Roma 1939; Che cosa vuole l'Italia?, ibid. 1940; L'economia di domani (Profili della nuova Europa), ibid. 1940; La Jugoslavia contro l'Italia (Documenti e rivelazioni), ibid. 1941; Italia e Inghilterra. L'inevitabile conflitto, ibid. 1941; Profili della nuova Europa. L'economia di domani, ibid. 1941; Roosevelt a trompé son peuple, ibid. 1941; Perché l'Italia è entrata in guerra, ibid. 1943; Gli Stati Uniti nella guerra mondiale, ibid. 1943. Per l'Enciclopedia Italiana, oltre alla già ricordata voce sulla razza, scrisse: Italia: storia (1929-37), sempre nell'Appendice I.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Segret. particolare del duce, Carteggio riservato, b. 9; Carteggio ordinario, ff. 518.329, 539.767; Ibid., Ministero della Cultura popolare, Fascicoli personali, b. 26, f. 27. Per le collaborazioni del G. ai diversi giornali, cfr. O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dal 1900 al 1926, I, Roma 1977, ad ind.; in particolare per il periodo della Stampa e i rapporti con Frassati: L. Frassati, Un uomo un giornale. A. Frassati, Roma 1978, ad ind.; sull'attività del G. in Russia: L. Giacheri Fossati - N. Tranfaglia, La stampa quotidiana dalla grande guerra al fascismo (1914-1922), in La stampa italiana nell'età liberale, Roma-Bari 1979, ad ind.; sul periodo alla direzione del Messaggero: G. Talamo, Il Messaggero. Un giornale durante il fascismo (1919-1946), II, Firenze 1984, ad ind.; per alcuni caustici giudizi sul G. dell'ambiente giornalistico antifascista: L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a cura di O. Bariè, III-IV, Milano 1968, ad ind.; sul passaggio alla direzione del Giornale d'Italia: E. Decleva, Il Giornale d'Italia (1918-1926), in Dopoguerra e fascismo 1919-1925, Bari 1965, ad ind.; per il ruolo di fiancheggiatore della politica estera fascista: D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, Bologna 1985, p. 554; G. Bottai, Diario 1935-1944, Milano 1989, ad ind.; G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano 1990, ad ind.; R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino 1981, ad indicem.