RIVERA, Vincenzo
RIVERA, Vincenzo. – Nacque a L’Aquila il 6 aprile 1890, nel palazzo di famiglia di metà Settecento, nella centrale piazza S. Maria di Roio.
Penultimo dei numerosi figli del duca Francesco Rivera, patrizio aquilano, e della marchesa Margherita Del Bufalo della Valle del patriziato romano, fu il raffinato esponente di un’influente e colta élite urbana per la quale la ricerca scientifica, gli studi storici, filosofici e giuridici, l’occupazione di cariche di prestigio, le accorte strategie matrimoniali furono secolari modalità di affermazione sociale ed economica. Tuttavia, durante gli anni della costruzione della sua identità compì delle scelte di orgogliosa autonomia, scientifica, politica e personale; fu perciò, sempre, un esempio di connubio originale e complesso tra vita politica e intellettuale.
Nel 1913, all’età di 23 anni, si laureò in scienze naturali presso la Regia Università di Roma, dove ebbe inizio la sua carriera scientifica; lavorò con il gruppo dei naturalisti che si occuparono dei problemi di biologia vegetale presso la Stazione di patologia vegetale, diretta da Giuseppe Cuboni; conseguì la libera docenza in patologia vegetale nel 1922. Questi primi anni furono anche contraddistinti da una scelta di vita importante: contro la prepotente volontà del fratello primogenito, il duca Cesare, e della stessa madre, sposò la borghese Giulia Campanile Grieco, sua collaboratrice scientifica (anche lei titolare di libera docenza in patologia vegetale), dalla quale non ebbe figli.
Esaurita la partecipazione alla prima guerra mondiale (fu ufficiale di artiglieria) militò, da subito (1919), nel Partito popolare, la nuova formazione di Luigi Sturzo. Qui iniziò la sua carriera politica con la direzione del Popolo d’Abruzzo e con la candidatura alle elezioni politiche del 1921 e del 1924, risultando in entrambe il primo dei non eletti.
Quando il fascismo prese il potere (1922) non si iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF) e, anzi, fu tra i firmatari del noto Manifesto degli intellettuali antifascisti (1925). L’iniziale, aperta opposizione politica e intellettuale al regime comportò, inevitabilmente, dei costi. Non ebbe la cattedra di fisiologia vegetale presso la facoltà di scienze dell’Università di Roma quale successore di Romualdo Pirotta; gli fu tolta la carica di presidente della commissione censuaria provinciale dell’Aquila; dovette optare per l’Università di Bari, facoltà di medicina, dove fu il primo direttore dell’Istituto di botanica, insegnando tale disciplina. Nel frattempo fu ‘ternato’ in tre concorsi a cattedra banditi dalle università di Pisa, Torino e Perugia; scelse quest’ultima e, presso la facoltà di agraria, fondò l’Istituto di patologia vegetale, materia che insegnò fino al 1945.
Le sue ricerche si svolsero lungo due complementari filoni disciplinari: quello riconducibile alla sua funzione di docente e ricercatore in qualità di biologo, patologo e fisiologo vegetale e l’altro, espressione della sua passione più forte e impegnativa, che ebbe al centro lo studio delle possibilità di crescita del settore primario, nel Mezzogiorno in particolare.
Esordì, dunque, in un Paese segnato, dopo la crisi del primo dopoguerra e fino alla caduta del fascismo, da diffusi elementi di arretratezza, da forte disagio sociale, dalla marcata difformità di sviluppo tra il Nord e il Sud, da una politica economica improntata dapprima a un ‘neoliberismo autoritario’ e poi, nei difficili anni Trenta della prolungata recessione mondiale, a un marcato interventismo in ogni settore. Fu allora varata una serie di misure, in particolare per il settore agricolo: tra queste la ‘battaglia del grano’ dell’agosto del 1925 (con l’obiettivo di aumentare la produzione e alleggerire così il deficit della bilancia commerciale) e la bonifica integrale degli anni 1928-35 (rilanciata nel biennio 1938-40), entrambe di grande effetto propagandistico.
Nel contesto sociale e politico del primo dopoguerra e degli esordi del fascismo, il contributo scientifico di Vincenzo Rivera fu di indubbio interesse e suscitò forti polemiche. Pose l’accento sugli aspetti tecnici dei singoli problemi, ritenendo preliminarmente necessaria la conoscenza della natura dei terreni, della qualità delle piante e del clima. In linea con quanto già espresso dal suo maestro Giuseppe Cuboni e da Giustino Fortunato, affermò che il nocciolo della ‘questione meridionale’ risiedeva soprattutto nelle peculiarità fisiche e ambientali del Sud. Entrò così a far parte del qualificato gruppo dei ‘realisti meridionali’, ovvero di coloro che si occuparono del nodale tema del miglioramento dell’agricoltura muovendo da tali presupposti.
I numerosi studi che allora realizzò ebbero ampia diffusione presso riviste specializzate e confluirono, in un primo e organico lavoro: Il problema agronomico nel Mezzogiorno d’Italia (Roma 1924). Poco meno di un anno dopo pubblicò un secondo libro dal significativo titolo Battaglie per il grano (L’Aquila 1925), una pronta risposta alle misure varate dal regime e a quella parte influente del mondo scientifico-accademico schierata a favore dell’autarchia granaria.
Qui, con il puntiglio che gli era proprio e con nuovi dati scientifici, ribadì come occorresse ridurre, piuttosto che aumentare, la superficie coltivata a grano (principalmente nelle zone aride dell’Italia meridionale) per fare posto al prato artificiale e all’allevamento bovino; dimostrò come il grano fosse in molti casi «la coltura della miseria e dello spopolamento» (Il problema, cit., p. 44).
Nel 1927 il direttore della «Collezione di studi meridionali», Umberto Zanotti-Bianco, chiese a Rivera di collaborare con un proprio studio. Fu così subito accolto e pubblicato, nel 1928 a Firenze, Oro di Puglia.
Si tratta di un corposo libro nel quale, sulle vie maestre dell’oro, quelle delle colture pregiate pugliesi (e meridionali), egli ebbe modo di attenuare i toni polemici verso il ministero dell’Agricoltura, di confermare comunque le sue idee sulla coltura del grano e di affrontare la spinosa questione del Tavoliere. A proposito di quest’ultima, tornò sull’altro tema a lui caro, il ‘sistema economico della montagna’ (appenninica) da preservare nelle sue secolari forme di utilizzo: transumanza ovina abbinata, nelle pianure destinate da sempre al pascolo invernale (Tavoliere e Campagna romana), alla coltura cerealicola.
Con gli anni Trenta si aprì per Rivera un periodo di parziale acquiescenza al regime, dichiarandosi convinto ed entusiasta colonizzatore (ma non si iscrisse al PNF) e affermando che il bagaglio di idee sul miglioramento acquisite con la pratica della realtà meridionale erano un naturale modello per studiare l’Africa orientale italiana. Così, a pochi mesi dalla proclamazione dell’Impero pubblicò, nel 1936, un primo, denso volume (Prospettive agricole dell’Impero etiopico, Roma) cui seguì un altro (Prospettive di colonizzazione dell’Africa orientale italiana, Roma), nel 1939, e diversi saggi. In questi lavori ribadì tesi e conclusioni oggetto delle sue note ‘sfide’, ma non risparmiò dure critiche alla gestione delle ricadute economiche e sociali di quella grande risorsa che fu ‘l’affare’ coloniale (contestando la validità scientifica dei programmi del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e dell’Accademia d’Italia. Il risultato fu l’espulsione (16 dicembre 1938) dal CNR, del quale aveva fatto parte quasi dalla sua fondazione.
Terminata la seconda guerra mondiale Rivera tornò a insegnare presso l’Università di Roma, dove ricoprì la cattedra di botanica (già di Enrico Carano) e diresse l’Istituto e l’orto botanico fino al 1960, anno del collocamento fuori ruolo; fu riammesso presso alcune importanti istituzioni scientifiche, tra le quali il CNR; fece parte dei Comitati di liberazione dell’Aquila e di Roma; fu deputato della Democrazia cristiana (DC) alla Costituente, nel 1946, e ancora al Parlamento, dal 1948, dove svolse il suo lavoro presso la commissione Agricoltura e Foreste.
Proprio durante questa prima esperienza parlamentare si consumò l’insanabile contrasto con il suo Partito: alle elezioni politiche del 1953 non fu candidato dalla DC (da cui peraltro si era dimesso il 2 marzo) e restò fuori dal Parlamento fino alle successive elezioni, del 1958, quando fu eletto come indipendente nel Partito monarchico che, nella sua città, raggiunse il 19,2%. Ebbe un peso decisivo il prestigio morale e intellettuale del personaggio, l’essersi battuto perché L’Aquila restasse capoluogo di regione e, soprattutto, perché divenisse un centro culturale.
In tale prospettiva realizzò importanti istituzioni scientifiche (Campo Imperatore, l’Osservatorio astronomico di alta montagna, il Giardino alpino, l’Istituto di ricerche della flora di altitudine); fondò l’Istituto superiore di magistero (dicembre 1952), trasformato in Istituto universitario di magistero (a.a. 1956-57) e ancora altri corsi di laurea e facoltà dal 1961 in poi.
Con le elezioni politiche del 1963, e con il crollo del Partito monarchico, terminò anche la sua esperienza parlamentare, che si svolse lungo un’intensa fase della storia italiana, quella della ricostruzione e, poi, del ‘miracolo economico’. Ma gli anni della riforma fondiaria (1950); dell’ingresso dell’Italia nell’area del Mercato comune europeo (1957); e ancora, dopo il 1963, del mutamento di segno della positiva congiuntura economica; dell’accentuazione degli squilibri territoriali; dell’avvento dei governi di centrosinistra; dell’affermazione del criterio di efficienza alla base delle scelte di politica economica furono il banco di prova più compiuto del suo conservatorismo e della sua incrollabile fede liberista. Attraverso i numerosissimi interventi alla Costituente e in Parlamento (proposte di legge, interrogazioni, discorsi), egli si oppose a ogni svolta riformatrice, circostanza che lo mise in duro contrasto con il suo Partito, la DC, peraltro accusata di essere in combutta con i ‘socialcomunisti’. Contrastò così la revisione dei patti agrari e la riforma fondiaria (che a suo parere avrebbero addirittura impedito lo sviluppo dell’agricoltura e minato gli equilibri sociali); propose una ‘vera’ riforma agraria, attenta cioè ai problemi della produzione, alla salvaguardia della piccola e media proprietà, al mantenimento della storica transumanza ovina.
Dai banchi della destra, dopo il 1958, avversò ovviamente la programmazione economica ‘statalista e dirigista’ (considerò i Piani verdi, varati dal 1961, niente più che ricostituenti dati a un malato grave quale l’agricoltura italiana e fu contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica). Fu però al tempo stesso il paladino di una politica per l’ambiente che coniugasse sempre gli equilibri naturali di ogni essere vivente con gli assetti paesaggistici: la distruzione dei boschi, la degradazione dei pascoli di altitudine, l’alterazione funzionale del Parco nazionale d’Abruzzo, i danni prodotti dal prosciugamento del lago Fucino, l’utilizzo indiscriminato dei concimi chimici e degli antiparassitari furono perciò al centro delle sue appassionate denunce.
Morì a Roma il 19 febbraio 1967.
Fonti e Bibl.: A. De Matteis, Un ‘realista meridionale’. V. R. tra agronomia e politica, Pisa 2006 (cui si rinvia per la ricchissima produzione scientifica e parlamentare, interamente edita, e per la letteratura).