GUSSONI, Vincenzo
, Nacque a Bergamo, dove il padre si trovava come podestà, il 18 maggio 1588, dal cavaliere Andrea e da Elisabetta Barbarigo di Agostino.
A Venezia la famiglia risiedeva a S. Fosca (sestiere di Cannaregio), nel grande palazzo del Sanmicheli al ponte di Noal sul Canal Grande, affrescato nella facciata da Jacopo Tintoretto con due figure michelangiolesche, L'Aurora e Il Crepuscolo. Fra il quinto e il settimo decennio del XVII secolo questa abitazione avrebbe ospitato un celebre ritrovo artistico e letterario: il padre del G., infatti, si era dilettato di poesia e un fratello, Francesco (morto nel 1663), vi avrebbe dato vita alla rinomata Accademia Delfica, o Gussonia, che annoverò tra i suoi membri il poligrafo ed esperto d'arte Marco Boschini. Dopo il 1663 l'edificio sarebbe passato in eredità all'altra linea dei Gussoni (la famiglia si componeva di due rami, separatisi sin dalla seconda metà del XV secolo), che disponeva di un'abitazione meno prestigiosa, ma ricca di una eccezionale raccolta di quadri.
La presenza di antichi beni e capitali comuni spiega come un omonimo e quasi coetaneo del G., Vincenzo di Francesco - appartenente al ramo che dall'originaria parrocchia di S. Vidal si era recentemente trasferito in quella di S. Giovanni Decollato, nel sestiere di S. Croce -, fosse poi sepolto nel chiostro del monastero di S. Stefano, con iscrizione, ad appena due metri di distanza da analoga tomba del G. (morirono nello stesso anno dopo una prestigiosa carriera politica, entrambi cavalieri di S. Marco, ma il G. da qualche tempo anche procuratore), benché in realtà essi non fossero che lontani cugini, privi - a quanto consta - di abituali contatti e frequentazioni, legati nel patrimonio da una complicata rete di fidecommessi.
Tra l'estate del 1610 e il gennaio 1611 il G. accompagnò a Parigi il padre, che era stato inviato dalla Repubblica in occasione dell'incoronazione di Luigi XIII; quindi intraprese la carriera politica come savio agli Ordini per il primo semestre del 1614 e nel semestre aprile-settembre dell'anno seguente; a questo punto il cursus honorum così bene avviato si interruppe; probabilmente la ragione è da ricercarsi nella morte del genitore, avvenuta nell'agosto 1615, che costrinse il G. a ridimensionare le sue ambizioni, commisurandole ai desideri e ai progetti dei numerosi fratelli. Donde un quadriennio di latitanza dalla politica, seguito da un rientro in tono minore, come nobile in Armata, sostenuto dal 19 febbraio al 22 luglio 1619, mentre erano in corso di attuazione le clausole conclusive della guerra con gli Arciducali, che prevedevano lo smantellamento delle basi degli Uscocchi: a questo proposito, è forse ipotizzabile un collegamento tra questo incarico sulla flotta e l'allestimento di una squadra di nuove galere, da impiegare appunto contro i temibili pirati di Segna, che era stata affidata al padre del G. giusto qualche anno prima. Dopo la breve esperienza sul mare, il G. fu eletto provveditore sopra Banchi (22 luglio 1619), ma qualche giorno dopo optava per la carica di ufficiale alle Rason vecchie, che sostenne dal 4 agosto al 30 dicembre di quello stesso anno; poi divenne savio di Terraferma per il primo semestre del 1620 e ancora dal 1° gennaio al 9 marzo 1621, quando fu eletto provveditore straordinario alla Canea, nell'isola di Creta: magistratura eccezionale votata dal Senato quello stesso giorno, col compito di rafforzare il dispositivo militare della città.
Fu una misura precauzionale, suggerita dalle crescenti tensioni che andavano accumulandosi con gli Ottomani a causa dei corsari barbareschi, nominalmente sudditi del Gran Signore, che infliggevano gravi danni alla navigazione veneta. Il G. arrivò nell'isola alla fine di novembre 1621, e nella primavera del 1622 la crisi giunse all'apice in seguito alla cattura di due vascelli turchi, per opera del capitano delle galeazze veneziane, proprio nelle acque di Canea. A complicare la vertenza si aggiunsero le mene di un avventuriero che si faceva chiamare visconte di Lormes; si trattava in realtà di un mercante di pelli che cercò di aizzare i barbareschi a liberare con un colpo di mano le navi catturate dai veneziani, "mettendo me Provveditore - così il G. in un dispaccio al Consiglio dei dieci del 17 luglio 1622 - in travaglio tale, che a gran fatica potei sgannarli dalle mendacie sue". La vicenda ebbe termine di lì a poco con l'arresto del Lormes e un compromesso che consentì la restituzione dei vascelli confiscati.
Il G. spese i due anni che seguirono a portare a termine il compito affidatogli, giovandosi della collaborazione del rettore Nicolò Venier: maggior disciplina della guarnigione, ammodernamento dell'artiglieria, potenziamento della cinta muraria della fortezza costituirono l'oggetto delle sue principali attenzioni.
Tornò in patria nell'estate del 1624, dopo tre anni di lontananza, e subito si vide riconfermato il posto nel Collegio, essendo stato nominato savio di Terraferma per il primo semestre del 1625, carica che ricoprì nuovamente nell'anno successivo per l'arco di tempo 1° gennaio - 30 marzo e 1° luglio - 31 dicembre; in tale veste, nel dicembre 1626 sottoscrisse, congiuntamente al savio del Consiglio e futuro doge Nicolò Contarini, una relazione sulle condizioni dell'Arsenale e sulle possibili migliorie da introdurvi. Avrebbe potuto aspirare all'ingresso tra i "savi grandi", o del Consiglio, ma glielo impediva la contemporanea presenza dell'omonimo lontano cugino, Vincenzo di Francesco, di qualche anno più anziano. Ad altre cariche evidentemente non era interessato e, dal momento che aveva ben meritato, non gliene furono addossate di nuove, sicché per un anno e mezzo il nome del G. non figura più nei registri del Segretario alle Voci; questa latitanza dalla politica ebbe termine il 25 ag. 1628, allorché il G. fu eletto ambasciatore nella Repubblica delle Province Unite.
È possibile che alla base di tale elezione vi sia stato il convergere di un duplice interesse: quello del Senato, desideroso di rinnovare l'alleanza con gli Olandesi e di ottenere competenti informazioni sulla loro marineria, e quello dello stesso G., la cui famiglia aveva investito cospicui capitali nel settore del credito marittimo non solo veneto, ma internazionale.
All'Aja, dove giunse nel maggio 1629, il G. si trovò proiettato in uno dei centri della politica europea, forse quello cui allora Venezia guardava con più vivo interesse; la Repubblica, infatti, mirava alla prosecuzione del conflitto ispano-olandese, che rendeva più difficili le mire delle corti asburgiche sull'Italia; donde gli aiuti finanziari concessi alla Serenissima, congiuntamente alla Francia, anch'essa tradizionalmente ostile sia a Madrid sia a Vienna. A tal fine il Senato aveva affiancato all'ambasciatore ordinario a Parigi, Alvise Contarini, un collega col titolo di straordinario, Girolamo Soranzo: all'uno e all'altro era addossato il compito di caldeggiare la discesa in Italia di Luigi XIII, per la questione del Monferrato, e la continuazione dell'alleanza con l'Olanda, la quale comportava l'annuo versamento, da parte della Corona francese, di un milione di fiorini a titolo di contributo per la guerra contro gli Spagnoli. Anche Venezia aveva sovvenzionato gli Olandesi, ma ora i nuovi aggravi causati dalla seconda guerra di Mantova sconsigliavano ulteriori sacrifici finanziari, per cui il 9 ott. 1629 il Senato scriveva al G., impegnato nei colloqui col principe di Orange, Federico Enrico: "Se nella trattazione sarà inserta qualche instanza di nostre contributioni, già sete molto ben instrutto delle risposte; la diversione grandissima, che con infinita spesa facemo a questa parte con notabile benefficio de' Signori Stati […] porta senza dubbio frutto maggiore che le contributioni. Se l'armi che sono calate in questa Provincia, fossero cadute sopra le braccia di quei Signori, non sarebbero stati così felici i loro progressi". Naturalmente il G. auspicava un più diretto impegno della Serenissima, la qual cosa avrebbe facilitato la sua azione e accresciuto il prestigio personale; donde il tono allarmato dei dispacci inviati: "Ogni mezzo, ogni industria opera per far passare al cuore di queste Provincie il veleno delle tregue; sono già tutte l'insidie per allettamento et per esca preparate, et tese offerte speciose; partiti di vantaggio, aperture di comercio […] formano la prospettiva non meno apparente che ingannevole a questo cibo mortale. L'universale di questi popoli, per ragione et per genio abborrisse ogni accomodamento con la Spagna, ma li più reputati et auttorevoli del governo vi si dimostrano hormai apertamente inclinati" (20 ott. 1629).
L'opposizione dei mercanti della Compagnia delle Indie risultò tuttavia decisiva e i tentativi di composizione avanzati da Madrid caddero nel vuoto; testimone dell'intensa attività del G. rimane il fitto carteggio intercorso non solo con il Senato, ma con i colleghi alla corte parigina; una sorta di partita a tre che però non valse a scongiurare l'intervento asburgico in Italia in occasione della guerra di successione di Mantova, culminata nella presa della città da parte delle milizie imperiali. L'insuccesso sul fronte italiano fu però fortunatamente compensato, almeno in parte, dallo splendido successo riportato dagli Olandesi, il 12 sett. 1631, sugli Spagnoli nelle acque di Steenbergen. Di fronte a questo ennesimo scacco, Madrid cercò di percorrere altre vie, inviando all'Aja un singolare diplomatico; il 22 dicembre di quell'anno, il G. informava il Senato che "è capitato ultimamente incognito a questa corte il Rubens, pittor famoso et […] molto domestico et assai favorito dell'Infanta. Questo soggetto, da accorto et destro maneggio impiegatosi già nell'accomodamento della Spagna con l'Inghilterra, si è reso qui, appresso quelli del buon partito, tanto più osservabile et sospetto […] con più di una secreta audienza appresso questo sig. principe d'Oranges".
Ma la missione olandese del G. si avviava ormai al termine: venti giorni dopo, infatti, egli lasciava il paese per dirigersi alla volta dell'Inghilterra, dove era stato nominato ambasciatore sin dal 18 luglio 1631; della legazione nei Paesi Bassi possediamo la relazione, letta in Senato il 3 apr. 1635, congiuntamente a quella d'Inghilterra.
Il testo, di grande bellezza ed efficacia, è quantomeno all'altezza della tradizione di consimili documenti, spesso più simili a veri e propri trattati storico-antropologici che a semplici rendiconti informativi. Dopo l'ineludibile condanna del calvinismo la struttura della relazione si può suddividere in due parti: la prima tocca l'origine e la forma costituzionale del governo, la seconda tratta delle forze militari e delle risorse economiche dei Paesi Bassi. Alla descrizione politico-amministrativa segue un lusinghiero ritratto del principe d'Orange "di bellissimo aspetto", di "sembiante […] grave et accompagnato da maestosa venustà, ben disposto et vigoroso per la resistenza a qual si voglia patimento di guerra"; sicché, continua il G., "se a tante e così risplendenti conditioni egli aggiungesse […] alcun più vivo lume di liberalità, l'amore di quei popoli verso di lui passarebbe, per così dire, all'adoratione". Più importante, naturalmente, l'analisi delle cause del decollo politico-economico di una Repubblica nata "da disperata unione di sette picciole provincie", ma ben presto pervenuta a "robusto et poderoso corpo di stato", grazie alla "constanza et virtù guerriera della […] natione". Nella sua analisi il G. sottolinea particolarmente la capacità degli Olandesi di sfruttare il "vantaggio non solo del sito […], in cui si concentrano mari e fiumi di corso et allagamento variabile et declinante a beneplacito de gli habitanti", ma anche il "commodo et benefficio pur anco dell'Oceano, del quale sono, si può dir, patroni per la quantità immensa de vasselli et marinari loro". Donde la fortuna di Amsterdam, sede delle compagnie di navigazione "che si chiamano Orientale et Occidentale; come le prime hanno fondamento di negotio incaminato et ricco, così le seconde sono fondate in piraterie sopra spagnoli"; sconcertante, agli occhi del G., la convivenza nello stesso popolo di coraggio militare e imbelle pacifismo: moltissimi infatti "vivono nella relligione anabattista, che li obliga a non far male al prossimo con così pazza superstitione che, per non offendere alcuno, privano se stessi di difesa et si lasciano volontariamente far schiavi senza alcuna resistenza, dicendo che sarebbe resistere alla volontà di Dio; onde per non haver occasione né di offendere, né di difendersi, navigano disarmati". In definitiva è l'ammirazione per il coraggio, l'onestà, l'attivismo imprenditoriale degli Olandesi a permeare lo scritto del G., che si conclude lasciando chiaramente intendere la convinta adesione a una continuazione dell'alleanza tra i Paesi Bassi e Venezia.
Lasciata l'Olanda nel gennaio 1632, il 10 febbraio il G. presentava le credenziali al re Carlo I Stuart; la sua permanenza in Inghilterra sarebbe durata poco più di due anni (l'ultimo dispaccio da Londra reca la data del 12 marzo 1634). Anche di questa seconda missione diplomatica possediamo la relazione, di gran lunga più stringata e scialba di quella olandese: trapela in essa la convinzione del G. che l'Inghilterra non possa e non voglia concretamente incidere nelle questioni del continente.
"Quel gran regno, con troppa confidenza per avventura del sito, poco s'interessa nelle correnti turbolenze dell'Europa e meno nella diversione di quelle che potrebbero sopravvenire"; a ciò si sommano leggi e costumi singolari, che rappresentano anzi una vera e propria "stravaganza", tale da apparire al G. "forse senza esempio tra tutte le altre nazioni del mondo". Molte di queste leggi, infatti, "in gran parte riuscirebbero intollerabili a tutti quei popoli che non fossero di così sofferente temperamento, quale è quello che sotto il britannico clima pare prodotto dal cielo". Ricca peraltro l'Inghilterra, retta da una "felice e floridissima monarchia", ma tante dovizie e potenza sono pur sempre riconducibili alla specificità geografica di questa "parte del mondo che appartata e recisa dalla rimanente, forma si può dire in se stessa, quasi a gara del nostro, un altro mondo insulare". Donde la particolare forma di un governo che "si può nominar propriamente una aristo-democratica monarchia", una singolare struttura costituzionale la quale concede ai popoli dell'isola "prerogative di gran libertà", che tuttavia possono renderli, come era successo quattro anni prima in occasione delle richieste avanzate dalla Camera dei Comuni, "tumultuanti e sediziosi". Questa latente minaccia incombe sul paese e lambisce anche il trono del trentaquattrenne sovrano, benché non si scorga "dalle sue azioni alcun predominio in lui di immoderati appetiti o disordinati affetti", e che per di più "ama la moglie", Enrichetta Maria di Borbone. La parte centrale della relazione è, ovviamente, dedicata alla marina, che può contare su una grande quantità di vascelli, i quali "in ogni caso possono allestirsi ad uso di guerra"; anche "li galeoni della Compagnia delle Indie, quasi fortezze mobili marittime, servono a doppio uso, cioè di guerra e di mercanzia". Quanto alla politica estera, al presente risulta lusinghiera per la Serenissima, dal momento che "le corrispondenze di quella corona con tutti gli altri principi dell'Europa sono assai freddamente sostenute, non tenendo al presente l'Inghilterra ambasciatore ordinario in luoco alcuno, eccettuato Costantinopoli e Venezia". Nonostante questa positiva realtà, serpeggia nello scritto del G. un senso di freddezza e di distacco che lo rende ben distante dalla cordiale partecipazione che aveva animato la precedente relazione dei Paesi Bassi; a prescindere da eventuali umori personali, la spiegazione può essere data dalla politica di buoni rapporti intrattenuti dalla corte di Londra con la Spagna dopo l'ingloriosa pace del 1630, e dal concomitante emergere di motivi di contrasto tra gli Inglesi e gli Olandesi da lui tanto apprezzati.
Il G. avrebbe dovuto terminare la sua legazione londinese alla fine di maggio del 1634, ma sin dal 1° gennaio di quell'anno chiese e ottenne il rimpatrio a causa di una precaria situazione familiare: rivolgendosi al Senato, infatti, egli accenna ai "lacrimevoli accidenti di morte e disastri occorsi alla mia casa, in tempo di questa mia lontananza"; si tratta della precoce scomparsa del fratello Agostino e della ormai manifesta pazzia di un altro, Giovanni; quanto ai rimanenti fratelli, Marco era gesuita e il matrimonio di un quarto, Nicolò, era rimasto sterile, per cui non restavano che Francesco e lo stesso G. in grado di assicurare la continuità del casato. Tornato da Londra per la via di Lione, il G. giunse a Venezia col titolo di cavaliere, concessogli da Carlo I, nel giugno 1634 e fu subito nominato aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova, carica che tenne dal 4 luglio al 3 luglio 1635, unitamente a quella di consigliere di Cannaregio per il periodo ottobre 1634 - settembre 1635; il 4 luglio 1635 fu eletto ambasciatore a Roma, ma differì la partenza per aver modo di procurare il matrimonio del fratello Francesco con Elena Navagero di Bartolomeo (1636), vedova di Marco Loredan di Paolo. Un anno dopo ancora non aveva intrapreso questa terza legazione, che cercò di evitare facendosi eleggere (5 luglio 1636) provveditore alla Sanità nel Vicentino, ma il Senato non concesse la nomina, in quanto doveva anzitutto espletare l'ambasceria romana. Invece non partì pur sapendo, con tale scelta, di dover rinunciare per vari anni alla politica e porre una grave ipoteca sulla sua carriera; il motivo di questo comportamento va ricercato nei perduranti problemi domestici; anche il matrimonio di Francesco, infatti, si era rivelato sterile, per cui il G. dovette a sua volta piegarsi alla ragion familiare, e il 30 ott. 1638 sposava, ormai cinquantenne, Fiorenza Trevisan di Domenico del ramo a S. Marcuola, contrada assai vicina a quella di S. Fosca; da questa unione sarebbero nati due figli: Elisabetta nel maggio 1641, e Andrea nel marzo 1643, vissuti entrambi pochi giorni, sicché con la generazione del G. si sarebbe estinto questo ramo del casato.
Terminato il periodo di contumacia conseguente al rifiuto di assumere l'ambasceria presso la S. Sede, il G. riprese il suo posto in Senato, dove nel 1641 si batté con successo contro Francesco Pesaro, che caldeggiava una decisa presa di posizione della Repubblica a favore del duca di Parma Odoardo Farnese, minacciato dai Barberini. Nuovamente aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova dal 2 febbr. 1643 al 1° febbr. 1644, il 4 luglio 1644 risultò eletto ambasciatore a Roma. Rifiutò ancora una volta: non era più che un ricco, colto, raffinato gentiluomo, senza figli né discendenti ai quali affidare un patrimonio economico e un'eredità morale, sostanzialmente demotivato e desideroso di tranquillità: dopo la morte del figlio superstite, Andrea, avvenuta nel 1643, aveva lasciato il palazzo a S. Fosca e si era trasferito a S. Luca, in una zona più centrale, tra Rialto e S. Marco; per di più non godeva di buone condizioni fisiche ed era anche un po' sordo (nella supplica al Senato per ottenere la dispensa dall'ambasceria romana, il G. accusava una "salute notabilmente pregiudicata, le gravi malattie patite restando in particolare privo dell'udito d'una orecchia, con pericolo del medesimo dell'altra").
Era disposto ad accettare incarichi non troppo impegnativi, dopo i quasi tre anni trascorsi a Creta e i sei nell'Europa del Nord; perciò, dopo esser stato ancora una volta, per breve tempo, consigliere di Cannaregio (13 aprile - 25 luglio 1645), essendo risultato eletto, il 26 luglio dello stesso anno, ambasciatore a Vienna, oppose nuovamente rifiuto, preferendo pagare l'ammenda di rito e incorrere nel conseguente biennio di latitanza dalla politica, al termine del quale dovette però accettare la nomina a capitano di Padova. Il senso della deliberazione del Maggior Consiglio - che lo colpiva giusto allo scadere della contumacia prevista dalla legge - suonava in qualche modo punitivo, ma l'afflizione del G. era temperata dal fatto che in quella provincia egli possedeva le sue maggiori proprietà e poteva seguire da vicino la gestione dell'università, e particolarmente del mondo accademico, proseguendo in tal modo - sia pure in ambito e con competenze diverse - il lavoro già intrapreso nella veste di aggiunto ai Riformatori dello Studio. A Padova il G. rimase dal novembre 1647 al marzo 1649; non possediamo la relazione di questo rettorato, ma sappiamo che già il 3 dic. 1647 il Senato gli manifestava apprezzamento per il rapido avvio da lui promosso all'appalto dei dazi ancor privi di assegnazione o malleveria.
Nella relazione del collega podestà uscente, Alvise Mocenigo, datata 17 nov. 1648, si sottolineava di nuovo il positivo apporto conferito dal G. alla regolamentazione daziaria, con particolare riguardo alle esenzioni delle quali godeva il corpo studentesco e che troppo spesso diventavano pretesto di abusi e contrabbandi.
Al termine del reggimento, il G. riprese il suo posto in Senato, dove intervenne più volte nei dibattiti suscitati dalla logorante guerra di Candia; analogamente al comportamento tenuto in occasione della guerra di Castro, si schierò sempre per la pace, da lui caldeggiata anche a prezzo della cessione dell'isola al Turco. Terminata la guerra dei Trent'anni, il 19 nov. 1649 il Senato gli rinnovò l'elezione ad ambasciatore presso l'imperatore, incarico che aveva rifiutato quattro anni prima; ma di nuovo il G. chiese dispensa e stavolta la sua richiesta fu accolta, in considerazione del fatto che proveniva da personaggio "abbattuto e dall'età avanzata e dalle cariche sostenute".
Per evitare il pericolo di nuove nomine a incarichi che lo avrebbero portato lontano da Venezia, il 15 maggio 1650 il G. acquistò il titolo di procuratore di S. Marco de ultra, con l'esborso di 20.500 ducati da impiegarsi nelle emergenze della guerra contro gli Ottomani; dopo di che divenne savio all'Eresia dal 19 luglio al 30 dicembre di quello stesso anno, lasciando anticipatamente la carica per assumere quella, ben più importante e da lui ambita, di savio del Consiglio, che tenne nel corso del primo semestre del 1651. Per ricoprire tale magistratura, il G. aveva rinunciato a quella, pur prestigiosa e in altre circostanze desiderata e sollecitata, di riformatore dello Studio di Padova, cui era stato chiamato il 4 nov. 1650. Né lasciò più il Collegio; fu confermato savio del Consiglio ancora per la prima metà degli anni 1652 e 1653, affiancando tale incombenza con altre di minore importanza e ricoperte per brevi spezzoni di mandato: fu così riformatore dello Studio di Padova dal 10 marzo al 3 luglio 1651; provveditore all'Armar dal 4 luglio al 29 dicembre dello stesso anno; provveditore all'Arsenale dal 20 luglio al 30 dic. 1652. Dopo il mese di giugno del 1653 non ricevette più alcuna nomina: evidentemente le sue condizioni di salute si erano aggravate, costringendolo a disertare l'attività politica; morì il 4 luglio 1654 nella casa veneziana di S. Luca, dove si era trasferito da qualche anno e fu sepolto, con busto in marmo e iscrizione latina, nel chiostro del monastero di S. Stefano.
Nel testamento, dettato il 6 febbr. 1654, lasciava erede l'unico fratello superstite, Francesco, anch'egli vedovo e senza figli, che nell'avito palazzo di S. Fosca ospitava l'Accademia Delfica, di cui era stato promotore; il G. disponeva inoltre che in seguito tutti i suoi beni dovessero passare a Giovanni Gussoni di Francesco, esponente del ramo della famiglia allora residente nella parrocchia di San Giovanni Decollato: questo perché, nonostante la separazione fra i due nuclei familiari fosse una realtà acquisita ormai da secoli, "tutto viene - così il testamento del G. - dai capitali antichi di cà Gussoni"; si spiega in tal modo - unitamente alla presenza di precedenti fidecommessi - la successiva riunione in un unico corpo delle opere d'arte appartenute alle due linee della famiglia, destinata a estinguersi del tutto nella prima metà del XVIII secolo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, IV, cc. 200, 205; Segretario alle Voci, Elezioni in Pregadi, regg. 9, cc. 20-21, 172; 10, c. 12; 11, cc. 12, 14, 66; 12, cc. 12, 131, 156; 13, c. 60; 13, c. 67; 14, cc. 1, 60; 15, cc. 66, 68; 16, cc. 2-3, 30, 60, 67, 105; 17, c. 1; Ibid., Elezioni del Maggior Consiglio, regg. 11, c. 44; 12, cc. 24, 120; 15, c. 3; 16, cc. 1-2; 18, cc. 3, 138; 19, c. 188; Senato, Terra, regg. 114, c. 160r; 129, c. 476; 135, c. 560v; 140, c. 40v; Senato, Dispacci, Signori Stati (Olanda), ff. 24-27; Ibid., Inghilterra, ff. 36-38; Capi del Consiglio di Dieci, Lettere di rettori, bb. 286, nn. 299, 303, 304 (Canea, 1621-22); 92, nn. 46-55, 62-68, 71-79 (Padova, 1647-48); Ibid., Lettere di ambasciatori, b. 14, nn. 8-9 (Haya, 1629); Collegio relazioni, b. 57 (dicembre 1626, sull'Arsenale); Notarile, Testamenti, b. 433/428; Ibid., Atti, regg. 11714, cc. 180v-181r; 11715, cc. 120-121; Provveditori alla Sanità, Anagrafi, b. 570, sub S. Fosca; per la morte del figlio Andrea, Ibid., Necrologi, reg. 872 (12 marzo 1643); Venezia, Arch. stor. del Patriarcato, Chiesa di S. Fosca, Libri dei morti, reg. 2 (30 maggio 1641); Biblioteca del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, c. 127r; 2022/8: Iscrizioni nella chiesa di S. Stefano protomartire e chiostro, c. 8v, n. 103; Relazioni veneziane. Venetiaansche Berichten over de Vereenidge Nederlanden van 1600-1795, a cura di P.J. Blok, 's.-Gravenhage 1909, pp. 240-256, 258 ss.; Capita selecta Veneto-Belgica, I, a cura di J.J. Poelhekke (relazioni diplomatiche veneziane con i Paesi Bassi), I, 1629-1631, 's.-Gravenhage 1964; Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. IV, Venezia 1863, pp. 297-316 (ristampa in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, I, Torino 1965, pp. 771-790, con cenni sulla cronologia della missione, p. XXVI); Calendar of State papers… of Venice, a cura di A.B. Hinds, XXII-XXIII, London 1919-21, ad indices; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IV, Podestaria e capitanato di Padova, Milano 1975, pp. 346, 349; B. Nani, Dell'historia veneta…, in Degl'istorici delle cose veneziane, VIII, 1, Venezia 1720, pp. 684 s.; R. Quazza, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631), Mantova 1926, I, p. 135; II, p. 17; F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secoli XVI-XVII), Venezia 1982, p. 241.