FEDELI, Vincenzo
Nacque a Venezia., nel sestiere di S. Marco, tra lo scorcio del XV secolo e gli inizi del successivo, da Alessandro, dottore, appartenente ad una famiglia cittadina di agiata condizione, nella quale erano tradizionali l'esercizio delle professioni civili e l'amore per la cultura.
"Eruditissimo", per concorde giudizio dei genealogisti, il nonno paterno Angelo, e celebre letterata la zia Cassandra (nota col cognome Fedele); quanto ai fratelli del F., Fedele sarebbe diventato il principale storico della guerra di Cipro, Matteo avrebbe esercitato con successo l'avvocatura, Giovan Battista la medicina, mentre al medesimo F. sarebbe toccato di intraprendere la carriera amministrativo-diplomatica al servizio dello Stato, nell'ambito della Cancelleria ducale, i cui impieghi erano riservati appunto agli esponenti delle casate iscritte al Libro d'argento.
Sappiamo da una lettera di Girolamo Muzio (1551, c. 2r), il quale gli fu compagno negli studi, che il F. frequentò le lezioni di filologia di Raffaele Regio (insegnante nella scuola di S. Marco a partire dal 1512), poi dell'Egnazio (G. B. Cipelli) ed infine di Vettor Fausto, cui vennero affidati i giovani aspiranti ad entrare nella Cancelleria tra il 1518 ed il 1525. Il F. venne chiamato a farvi parte il 13 genn. 1520, in qualità di segretario straordinario e, forse di lì a poco, sposò Altadonna Scaramella, che gli diede Romana, maritata nel 1542 con Bernardo Sandei di Girolamo, e Gasparo, con il quale, nel 1581, si sarebbe estinta la famiglia; fuori del matrimonio ebbe anche un figlio naturale, Antonio.
La tappa successiva della carriera consisteva nella nomina a segretario ordinario, che egli conseguì una volta terminato il quinquennio previsto dalla legge, il 25 genn. 1525, ad opera del Consiglio dei dieci, cui era delegato il controllo della Cancelleria ducale. Ma il tirocinio del F. non trascorse quietamente all'ombra del palazzo, giacché il 4 luglio del 1522 dovette imbarcarsi nella flotta come coadiutore di Gian Giacomo Caroldo, segretario dei capitano generale da Mar, Domenico Trevisan, cui era stato affidato il duplice compito di prevenire, nello Ionio, le iniziative degli Spagnoli e dei Turchi, i quali con l'annessione dell'Egitto e la conquista di Rodi stavano pericolosamente chiudendo ogni sbocco commerciale con gli scali del Levante. Rimpatriato dopo i trattati conclusi tra la Repubblica e l'Impero nell'estate del 1523, quattro anni più tardi il F. doveva riprendere il mare, come segretario del capitano generale.
Stavolta nella decisione è forse possibile intravvedere una componente punitiva, ove si consideri che il 15 sett. 1525 egli era incorso nelle ire di due autorevoli senatori: sotto tale data, infatti, riferisce il Sanuto, "veneno, in Colegio sier Gasparo Malipiero e sier Marin Morexini censori dicendo non haver autorità al suo officio, perché voleano condanar Vincenzo Fedel secretario e non fo lassato" (XXXIX, col. 431).Nell'ambito della strategia militare concordata tra gli aderenti alla Lega di Cognac, la squadra veneziana, comandata da Pietro Lando, avrebbe dovuto fiancheggiare la spedizione del maresciallo di Francia Odet de Foix visconte di Lautrec nel Napoletano, lungo le coste romagnole e pugliesi, ed unirsi poi.in Sicilia a quella di Andrea Doria. Il F. però non si spinse così lontano e mentre, agli inizi del 1528, il comandante da Mar giungeva a Messina, egli si trovava ancora a Zante, da dove poi, nel maggio, si spostò a Brindisi, in seguito alla conquista dei porti pugliesi operata dalla flotta veneta. Due mesi più tardi lo troviamo con gli stradiotti della Repubblica presso il campo del Lautrec, che assediava Napoli: era il momento cruciale della sfortunata avventura dei collegati nel Meridione, giacché la mancata conquista della città si sarebbe rivelata la tomba di ogni speranza di successo. Compito del F. era di fungere da segretario di Pietro Pesaro, destinato ambasciatore appunto presso il Lautrec.
Nei dispacci del F. - puntualmente riassunti dal Sanuto - assistiamo all'incalzare negativo degli eventi: ecco, tra l'infuriare della peste, il Pesaro ammalarsi gravemente (26 luglio), e di lì a qualche giorno il maresciallo di Francia morire e l'assedio fallire ("el campo retrato, et in Napoli ussiva et andava chi voleva"), e ben presto gli assalitori subire il contrattacco del nemico e cimentarsi con le durezze della fame.
Il F. tornò a Venezia con la flotta che, se non altro, aveva conservato alla Serenissima le coste pugliesi, e il 29 dicembre venne lodato dal Lando in Senato. Non rimase a lungo in patria: in fondo, nonostante l'insuccesso napoletano, il confronto con l'Impero era ancora aperto, ed il suo epicentro si era ora spostato a Firenze, che aveva nuovamente alzato le insegne repubblicane. Qui appunto fu inviato il F., nell'aprile del 1529, come segretario dell'ambasciatore Carlo Cappello, il cui compito era di rassicurare i governanti toscani della volontà veneziana di condurre con determinazione la guerra contro gli Ispano-Pontifici.
Nei suoi termini cronologici la missione coincise con il memorabile assedio che avrebbe fatto di Firenze il simbolo e l'anima della libertà d'Italia, e costituì per il F. un'esperienza intensa ed appassionante: l'ancor giovane segretario, a contatto con l'ambiente e con gli uomini che ad un altro segretario, Machiavelli, avevano consentito folgoranti intuizioni e suggerito pagine di straordinaria icasticità, fu portato dagli eventi ad assistere in prima linea, dal privilegiato osservatorio fiorentino, alla sintesi di una evoluzione politica destinata ad estendersi a tutta la penisola, con la sola eccezione dello Stato marciano: a Firenze, insomma, si svolse nel giro di pochi mesi ciò che le repubbliche ed i principati italiani avrebbero recepito, con minor violenza ma con pari ineluttabilità, nei decenni a venire. Ancora, il F. poté toccare con mano il funzionamento e la validità delle istituzioni repubblicane una volta poste di fronte ad una terribile prova, e confrontarle - lui, esponente di una classe certamente privilegiata, ma non libera, perché sottoposta ad un'altra, che deteneva il monopolio del potere - con quelle della propria patria, il cui sistema politico sommava in sé forme democratiche, aristocratiche ed oligarchiche. Affidò il suo pensiero, o meglio i suoi sentimenti, ad una serie di lettere indirizzate al fratello Giovan Battista, quasi tutte riportate dal Sanuto; nonostante il carattere privato del documento, la vibrante esaltazione della libertà repubblicana che ampiamente le informa sarebbe stata impensabile in un politico veneziano; sennonché, nella circostanza, difendere Firenze (e ciò che essa rappresentava) significava anche sostenere Venezia, sua alleata.
"Stante le cose come stanno - cosi scriveva il 24 sett. 1529 - qui è reduta la libertà de Italia"; quanto ai nemici, "è pubblica voce che di questa città voleno far peggio che ferono di Roma... Noi facemo quello fanno gli altri, cavalcamo ogni giorno su repari, ai bastioni e per tutto, et volemo intravenir a tutte le batterie et battaglie, mostrando valorosamente a ciascuno che quelli che ensceno di quella città non sanno se non generosamente o viver o morir"; il coraggio e la fiducia non gli vennero meno neppure quando ebbe inizio il congresso di Bologna; Così il 26 dicembre: "L'artellaria lavora di bello a tutte l'hore; et per concluder, questo sarà il più grande assedio che fosse mai da che mondo è mondo... lo per me... mi glorio di ritrovarmi a veder quello ch'io veggio". Solo sul finire dell'inverno, agli inizi di marzo del 1530, muta il tono del F., ed il rarefarsi delle lettere, ed i silenzi prendono il posto dei fervori di un tempo.
Rimpatriato alla fine di ottobre, due anni dopo (6 dic. 1532) il F. mancava di poco l'elezione a cancelliere di Cipro, e il 27 sett. 1533 entrava a far parte dei segretari del Senato; quindi l'incarico più lungo e più prestigioso, destinato a svolgersi nell'arco di un decennio: residente a Milano, dagli inizi del 1536 a quelli del 1546. Il F., mandato nel vicino Ducato dopo la morte di Francesco II Sforza e l'annessione a propri domini che Carlo V ne aveva compiuto, vi giunse proprio quando il re di Francia iniziava l'occupazione del Piemonte e le truppe imperiali invadevano la Provenza.
I riflessi degli avvenimenti europei e mediterranei, che si susseguirono talora con ritmo incalzante e con esiti clamorosi e imprevedibili, furono puntualmente registrati dal F. e consegnati al Consiglio dei dieci attraverso una robusta corrispondenza: ecco dunque nel 1536-37 il fallimento delle opposte offensive francese e spagnola, e poi nel 1538 la tregua di Nizza e la costruzione della lega tra il papa, Carlo V e Venezia contro i Turchi, che già erano sbarcati a Corfù (e nell'ambito della preparazione della "crociata", il F. dovette recarsi a Genova per sollecitare Andrea Doria ad un celere imbarco, che tuttavia non valse ad evitare ai collegati, nell'ottobre dello stesso 1538, la miserabile esperienza di Prevesa), quindi la carestia del 1539, l'intensificarsi della paura ottomana nel 1542-41 in seguito alla disastrosa spedizione spagnolo-genovese ad Algeri, e poi, nell'estate del 1545, le aspirazioni dell'imperatore su Genova, facilitate dall'impopolarità di Giannettino Doria. Gli avvenimenti, e accanto ad essi e tra di essi, gli uomini: Antonio de Leyva, e poi il cardinale M. A. Caracciolo, e Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, di cui il F. godette la stima e la confidenza; e presso i politici, i letterati, a conferma della "liumanità" e "degnità" ampiamente riconosciute al cancelliere: ecco le lodi dell'Aretino, frammiste a discussioni di stilistica, nel febbraio del 1540; le informazioni di P. Ramusio, nel 1543; le gradevolissime osservazioni di G. B. Giovio sui velenosi venti "spiranti giù da Spira" (gennaio), ove stava per radunarsi la Dieta dell'Impero.
Tuttavia l'elemento più interessante che si può cogliere nella lunga permanenza lombarda del F. è probabilmente costituito da una sorta di progetto politico intitolato Discorso primo, datato Milano, 10 nov. 1538, ed inviato qualche settimana più tardi al Consiglio dei dieci. P questo l'uffico documento inoltrato dal F. alla prestigiosa magistratura nel corso dell'intero anno; la pace di Nizza - con le speranza che aveva suscitato e le debolezze che si erano prontamente manifestate - era una realtà acquisita; poi egli era reduce dalla missione genovese presso il Doria, e la sua patria aveva saputo difendere Corfù dall'aggressione ottomana, ma non era riuscita a sconfiggere l'avversario sul mare: tutti questi elementi presuppongono e sottendono il piano elaborato dal F. e sottoposto, pur fra le rituali proteste di indegnità e le anticipate suppliche di scuse, al giudizio dei Dieci. Si tratta di un progetto di lega contro il Turco, che comprendeva l'imperatore, il re di Francia, il papa e Venezia.
Le manchevolezze della precedente alleanza risultano ovviate dalla presenza francese e dal maggior impegno offensivo risultante dalla partecipazione diretta dei principi all'impresa, "come saria - scrive il F. ai Dieci, il 30 nov. 1538 - che Cesare passasse a Brandizzo, il Re a Malta, il papa in Ancona, ch'essendo li Signori Venetiani etiani propinqui vi sarà più facile la comodità in dar di momento essecutione a ogni consulta et deliberation fatta". Il problema era quello di conciliare gli interessi particolari con quelli generali, superando - ad esempio - la viscerale riottosità francese ad un impegno antiturco. "Cesare pensa con la guerra di questa natura unir l'Impero d'oriente con quel d'occidente, et farsi talmente grando chel resti arbitro et solo monarca. Il Re iudica col porger aiuto et esser un de' confederati, acquistar el stato de Milano, farsi l'addito nel regno di Napoli, et con l'occasione impatronirse d'Italia. Il Papa come capo della Chiesia, per star nei termini sui, per non far muttatione, per non perder il temporale, per fugir il Concilio, et havendo a esser il primo tocco, per proveder de tegnir il nemico lontano; la Signoria di Venetia per la sua particular deffensione, per oprimere il potente vicino, per viver in libertà, et per acquistar le cose perdute et accrescer l'imperio".
Sennonché, nella seconda parte dello scritto (sei dense carte), è lo stesso F. a sollevare alcune obiezioni, specie sul punto dell'effettiva convenienza, da parte veneziana, di intraprendere una tal guerra, per cui non risultano ben chiari né la natura né lo scopo di questo progetto, più simile ad una esercitazione di abilità politica (e stilistica: molte espressioni ricalcano da vicino risonanze machiavelliane) che ad una concreta proposta operativa.
A Venezia il F. riprese la sua attività nella Cancelleria, e le notizie sul suo conto si fanno più sporadiche: il i q dic. 1546 è fra i testimoni dell'acquisto, da parte della Signoria, di alcuni mulini presso Chioggia; nell'ottobre del 1548 è ancora a Milano, per una breve missione presso il nuovo residente Febo Capella, e di lì collabora con G. Muzio al tentativo di riportare P.P. Vergerio all'ortodossia: dell'amicizia tra i due è testimone un libro di Lettere dedicatogli appunto dal Muzio nel 1551. Quindi, il 24 settembre di quest'ultimo anno, il F. era eletto cancelliere a Cipro, carica che aveva fallito diciannove anni prima; rimase nell'isola fino al 6 nov. 1557, a dirigervi l'apparato burocratico e a cimentarsi con il ricorrente flagello delle cavallette e con i molteplici problemi legati alla produzione del sale. Quando venne sostituito dal successore, Ingegnere Ingegneri, non tornò subito in patria: si recò a visitare la Terrasanta, e a Gerusalemme riúsc! ad ottenere dal guardiano del Monte Sion, fra Bonifacio da Ragusa, parte della colonna alla quale era stato legato il Cristo per la fiagellazione, che portò a Venezia, assieme ad altre reliquie, per farne dono alla basilica marciana.
Infine, l'ultimo incarico: nel marzo 1560 veniva nominato residente presso il duca di Firenze, Cosimo I. Era il primo diplomatico veneziano che si recava in Toscana dopo la restaurazione medicea e la realtà che egli vi trovava era ben diversa da quella di un trentennio avanti; per di più non era venuto meno del tutto il clima di reciproca diffidenza instauratosi tra le due corti, e questo condusse ad un prematuro rimpatrio del F., a motivo di una questione di precedenza rispetto ad altre rappresentanze diplomatiche (4 genn. 1561). La missione, dunque, durò pochi mesi e fu un insuccesso; la sua importanza consiste soprattutto nella relazione stesa dal F. dopo il ritorno a Venezia, e che fu tra le più famose, celebrate e diffuse, nonostante appaia sicuro - come ha dimostrato A. Ventura - che il documento fosse destinato ad una circolazione privata, e non alla sfera pubblica, dato il "parlare forte e libero" che anima lo scritto, quale mai un segretario si sarebbe permesso di fronte alla Signoria.
Nella relazione il F. prendeva atto della nuova realtà politica, e riconosceva la giustificazione e la razionalità storica di un sistema tirannico cui pure la sua coscienza ripugnava: se i Fiorentini, un tempo "soliti a viver liberi ed a governare un sì bel Stato", ora erano sottoposti a servitù, questo era successo "per giudizio manifesto del signor Iddio, che non ha voluto più tollerare in quella città le ingiurie e le tirannie, che crudelmente si usavano verso il popolo, verso la plebe, verso i sudditi", avendo così Iddio "cavato da tanti detestandi mali questo bene: che ciascuno sta sicurissimo nello stato suo, purché stia ne' termini dell'obbedienza".
Anche nell'animo del F., insomma - scrive il Ventura (I, p. LVI) - si può cogliere "una profonda ambivalenza, simile a quella del Machiavelli, che dall'esaltazione del vivere libero poteva trascorrere con apparente contraddizione all'apprezzamento d'un governo tirannico, ma efficiente e ordinato. Tipica sofferta oscillazione di tanti intellettuali dei ceti subalterni, appartenenti ad una generazione che aveva vissuto l'ultima luminosa stagione delle libertà cittadine e il dramma del loro definitivo tramonto".
Il F., come già detto, lasciò Firenze, adducendo motivi di salute. Morì, prima del 1565, a Venezia nella parrocchia di S. Fantino.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci. Lettere di ambasciatori, b. 16, nn. 95- 174; Miscell. codici, I, Storia veneta, II: T. Toderini, Genealogie delle famiglie venete, p. 810; ibid., VII: G. Tassini, Cittadini veneziani, p. 835; Segretario alle Voci. Elezione dei Pregadi, reg. B, c. 58r; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 341 (= 8623): Cronaca di famiglie cittadinesche venete, cc. 176v-177r; M. Sanuto, I diarii, XXVIII, XXXIII, XXXVII, XXXIX, XLVI-XLIX, LI-LIV, LVII-LVIII, Venezia 1890-1903, ad Indices; V. Fedeli, Lettere scritte a G. B. Fedel suo fratello... [trascritte dal Sanuto], Venezia 1886; ILibri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 256, 287, 299; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, 1, Firenze 1839, pp. 321-400 (ristampata da E. Segarizzi, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, III, 1, Firenze, Bari 1916, pp. 123-174, 229 s., e infine da A. Ventura, di cui è da vedersi Introduzione, Bari 1976, I, pp. XXVI, XXX, LVI ss., LXIII, LXXIV, LXXVII s., XCIXCIV [la relazione è nel volume II, pp. 209-261]); G. Muzio, Le Vergeriane, Vinegia 1550, cc. 118v-120v, 141v-144v, 166v-169v; Id., Lettere del Mutio Iustinopolitano, Vinegia 1551, cc. 2r-3v, 130r-133v; P. Aretino, Il secondo libro delle lettere. Parte prima, a cura di F. Nicolini, Bari 1916, pp. 207 s.; A. Morosini, Historia veneta..., in Degl'istorici delle cose veneziane, V, Venezia 1719, pp. 495, 569; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani..., II, Venezia 1754, p. 557; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane..., Venezia 1842-1853, V, p. 468; VI, p. 309; F. Stefani, P. Giovio, in Archivio veneto, I (1871), pp. 371-376; F. Chabod, Storia di Milano nell'epoca di Carlo V, Torino 1961, pp. 7 s., 418; Id., Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell'epoca di Carlo V, Torino 1971, pp. 49, 71, 203, 215: W. J. Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà repubblicana..., Bologna 1977, p. 114; G. Aquilecchia, P. Aretino e altri poligrafi a Venezia, in Storia della cultura veneta, 3, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, II, Vicenza 1980, p. 78; A. Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, ibid., 3, ibid. 1981, pp. 556, 558 s.; A. J. Schutte, P. P. Vergerio e la Riforma a Venezia, Roma 1988, p. 357; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-eccles. ..., LXVI, p. 49; XCII, pp. 690, 692; Diz. biogr. degli Ital., XVIII, Roma 1975, pp. 769 s., s. v. Cappello, Carlo.