FATTIBONI, Vincenzo
Nacque a Cesena il 14 marzo 1786 da Pietro e Giovanna Collinelli, del ramo cadetto di una famiglia comitale, in un ambiente subito conquistato da entusiasmi napoleonici nei quali non tarderà ad innestarsi un genuino spinto patnottico soprattutto per l'influenza politico-culturale di E. Fabbri, in mezzo al fervore delle fiorenti logge massoniche. Dei suoi fratelli, Giovanni non tornerà dalla campagna di Russia, Giacomo combatterà dapprima agli ordini del principe Eugenio Beauharnais, poi nel 1815 con i Napoletani di re Gioacchino e sarà esiliato nel 1821.
Il F. studiò a Bologna, poi a Modena (dove l'ammissione alla Scuola militare del genio e artiglieria fu respinta avendo egli superato i limiti di età), infine a Padova, dove si laureò ingegnere-architetto nel 1808. Entrato nel corpo dei geometri censuari che realizzavano le mappe del Regno Italico, sull'esempio di quanto si stava facendo per volere di Napoleone in tutto l'Impero, operò prima in Friuli, poi in Emilia e segnatamente a Fusignano. Qui conobbe Anna Armandi, che era stata educata in un collegio fiorentino di gran fama e che anche in patria aveva frequentato ottimi ambienti, come ad esempio la casa di V. Monti: era cugina del colonnello P. D. Armandi, che sarà nel 1821 istitutore dei figli di Luigi Napoleone ex re d'Olanda, dieci anni dopo ministro della Guerra nel governo provvisorio delle Province Unite e nel 1848 presidente del Comitato di guerra di Venezia insorta. Il F. sposò l'Armandi nel 1810 e ne ebbe quattro figlie, la maggiore delle quali, Zellide, pubblicherà a partire dal 1885 tre volumi di memorie familiari.
Sorpreso a Cesena dal disperato tentativo di Gioacchino Murat e nominato capitano della guardia nazionale, il F. seguì le truppe napoletane in ritirata fino ad Ancona, per rientrare in famiglia dopo la caduta della città e la tragica conclusione dell'impresa. Reintegrato nelle funzioni di ingegnere catastale, secondo quanto previsto per i reduci nella capitolazione di Ancona, non poté tuttavia mai sottrarsi alla vigilanza dell'accorta polizia pontificia, cui erano note le sue antiche aderenze massoniche non meno delle sue recenti simpatie carbonare, finché non fu arrestato a Porretta, ove si trovava per lavoro, il 24 nov. 1817- Il conte faentino C. Laderchi (uno dei condannati a quindici anni nella sentenza Rivarola di otto anni dopo) aveva potuto preavvertirlo dei gendarmi che stavano per arrivare e di una banda di amici che teneva pronta per farlo fuggire, ma il F. protestò di non potere accettare per non comprometterli.
Al F., tradotto a Castel Sant'Angelo e rinviato a giudizio, fu contestata "la pertinenza alla setta carbonara", e in particolare di essere stato "l'organo intermediario" tra "la suddetta Società di Ancona" e il Consiglio centrale di Bologna cui avrebbe fatto pervenire" un piano di rivoluzione da estendersi anche oltre i pontifici dominj". La condanna fu il carcere a vita, commutato in dieci anni. Il clima del momento aveva certo appesantito la mano dei magistrati, ma il F. era davvero molto addentro alla cospirazione se e vero che a Cesena la notizia del suo contegno di grande fermezza suscitò non solo aminirazione, ma anche universale sollievo perché nessuno dei molti che avrebbero potuto esserlo ne fu compromesso.
È forse il caso di ricordare che avvocato d'ufficio degli imputati era quel F. Invernizzi, già noto come filologo, destinato a maggiore benché infame notorietà quale presidente della commissione che condusse e concluse ferocemente la repressione scatenata in Romagna da Leone XII dopo l'attentato ravennate al card. A. Rivarola (1826), e che suo compagno di carcere, "per pena correzionale", fu brevemente quell'A. Targhini che, per il tentato ornicidio di un ufficiale di polizia, sarà ghigliottinato a Roma insierne con L. Montanari il 23 novembre del 1825.
Il F. fu presto trasferito nella fortezza di Civita Castellana, dove scontò interamente il decennio di detenzione. La morte di Pio VII (20 ag. 1823) e l'elezione del nuovo pontefice avevano fatto ritenere probabile un provvedimento di clemenza, ma Leone XII non lo concesse e anzi instaurò, a cominciare dal regime carcerario, un clima di maggiore durezza. Rilasciato il 4 ott. 1828, il F. tornò in patria, dove ottenne il permesso occorrente per il libero esercizio della professione e poco più tardi addirittura l'incarico da parte del Municipio di provvedere alla pubblicazione del catasto rustico e urbano. Non aveva peraltro attenuato l'impegno politico, vale a dire l'attività cospirativa e settaria, fino alla esplicita partecipazione ai moti del 1831 che dettero vita all'effimero governo delle Province Unite, presieduto a Bologna dall'avvocato G. Vicini, e alla cui assemblea il F., con T. Fracassi Poggi, rappresentò Cesena. Presto ristabilita (26 marzo 1831) dalle truppe austriache la sovranità di papa Gregorio XVI, con altri compromessi riuscì ad imbarcarsi ad Ancona su un vapore inglese, raggiungendo Corfù, dove rimase fino al perdono generale concesso dal pontefice il 2 ottobre sotto la pressione della Gran Bretagna e delle altre potenze europee.
Fu, malgrado tutto, uno dei periodi più sereni della sua vita. "Non so se sia l'aria o il vitto, o se questo vivere libero sia quello che più mi conferisce - scriveva alla moglie l'11 giugno - ma quello che so di certo si è che sto ottimamente bene di salute, e che sono di umore lietissimo, anche in mezzo ai gravi pensieri che mi occupano".
Rientrato a Cesena con un ritardo causato da una grossa burrasca e dalla quarantena trascorsa nel lazzaretto di Livorno, non risultò implicato nei disordini culminati con lo scontro di Santa Maria del Monte fra la guardia nazionale e i soldati del colonnello pontificio Vincenzo Barbieri (20 genn. 1832). Perciò se non fu reintegrato negli incarichi pubblici, poté almeno proseguire la sua attività liberoprofessionale, anche se non gli mancarono le avversioni e le esclusioni dovute al suo passato politico: una "accezione politica", come egli stesso la chiama, che mantenne sempre la famiglia in precarie condizioni e che non fu mai rimossa nonostante le ripetute istanze dal F. rivolte ai responsabili dell'amnifflistrazione che si succedevano, neppure quando le prime mosse del nuovo papa Pio IX parvero autorizzare le migliori speranze.
Soltanto dopo la proclamazione della Repubblica Romana al F. si pensò addirittura per l'incarico di direttore generale del dicastero del Censo, progetto che sembrò prossimo a concretizzarsi quando fu nominato segretario della commissione sugli impieghi il suo concittadino ed amico avv. E. Allocatelli. Il precipitare degli eventi non consentì di andare oltre un incarico politico, che fu la nomina a consultore governativo presso la presidenza di Forlì: il F. accettò, benché consapevole che tutto era oramai perduto, solo "perché nei momenti supremi non mi sono mai tirato indietro". Rimase in carica dodici giorni.
Lo spettacolo di una ennesima restaurazione, che in quel torno di tempo pareva consacrare in tutta Europa il definitivo fallimento degli ideali per i quali aveva lungamente lottato e penato, ebbe ragione di un animo già duramente provato dalle antiche sofferenze, da recenti avversità anche economiche e dai ripetuti gravi lutti familiari.
Nelle Memorie della figlia è detto che il F. "passava di vita il giorno dodici maggio 1850" proprio mentre si stava per festeggiare come ogni anno "l'anniversario del suo ritorno dalla dura prigionia". Corse subito e trovò credito la voce del suicidio, che recenti ricerche effettuate da A. Angeli (un discendente del F.) nel Registro generale dei sepolti nel cimitero di Cesena (n. 16693/9768) hanno confermato.
Fonti e Bibl.: Principale fonte per la biografia del F. sono i tre voll. della figlia Z. Fattiboni, Memorie storico-biografiche al padre suo dedicate, Cesena 1885-1888, in partic. i voll. I e II. Vedi anche: G. Vicini, La rivoluz. dell'anno 1831 nello Stato romano, Imola 1889, pp. 41, 151; N. Trovanelli, Cesena dal 1796 al 1859, I, Cesena 1906, pp. 120, 132, 142-145, 169 s.; I. Rinieri, Le sette in Italia dopo la Restaurazione del 1815. La congiura di Macerata (1817), in Il Risorgimento ital., s. 3, XIX (1926), p. 63; D. Spadoni, Il tentativo rivoluz. marchigiano-romagnolo nel 1817, in Atti e mem. della R. Deputazione di st. patria per le Marche, s. 4, III (1926), 1, pp. 38, 40, 73, 77, 141; A. Comandini, Memorie giovanili, a cura di P. Zama, Faenza 1959, ad Ind.; A. Angeli, Zellide Fattiboni patriota e scrittrice (1811-1891), in La Piè, XXXIX (1966), pp. 279-282; XI, (1967), p. 206; Diz. del Risorgimento naz., III, pp. 44 s.