CHIALLI, Vincenzo
Nacque a Città di Castello il 27 luglio 1787, primo dei dodici figli di Paolo, fabbro, e di Matilde Moretti. Era pertanto fratello maggiore di Giuseppe, scultore, e di Fortunato, paesista che, divenuto cieco improvvisamente dovette, intorno al 1830, sospendere ogni attività (Gherardi Dragomanni, 1841, p. 85).
Per le disagiate condizioni economiche della famiglia ma anche per lo scarso profitto con cui seguiva gli studi di grammatica, il C., ancora ragazzo, fu avviato al mestiere dell'orologiaio. Assecondò in seguito l'interesse al disegno iniziando l'apprendistato con Giuseppe Crosti, un pittore e decoratore suo concittadino. Mentre era aiuto del Crosti nel decorare un quartiere del palazzo vescovile, sempre a Città di Castello, conobbe il vescovo Domenico Bartoli, che ne apprezzò l'impegno nel lavoro, l'indole mite e l'accentuata religiosità e lo prese a benvolere. In seguito il Bartoli, per garantire al suo protetto una migliore prosecuzione nel tirocinio artistico, lo raccomandò a Belisario Cristaldi, camerlengo di Pio VII. Grazie all'interessamento del potente cardinale Cristaldi, il C. nel 1804 si trasferì a Roma per studiare con V. Camuccini. E in ottemperanza alle direttive del nuovo maestro, privilegiò la grafica nelle cui tecniche raggiunse presto una discreta padronanza a furia di copiare Raffaello e i Carracci, di esercitarsi nell'anatomia sui reperti dell'ospedale di S. Spirito e di praticare con solerzia il disegno dal vero, eseguendo studi di figura e paesaggi.
Si ha notizia che durante gli anni trascorsi a Roma (1804-1809) il C. attraversò una profonda crisi mistica, imputabile, forse, all'influenza che esercitava su di lui il Cristaldi, a cui il giovane era legato da profonda riconoscenza e da un rapporto di dipendenza economica. Sembra, inoltre, che si fosse lasciato suggestionare dalla più forte personalità dell'amico e coetaneo Adriano Giampetri, insieme con il quale aveva deciso di farsi frate cappuccino (Gherardi Drago 1841, p. 23).
Al primo soggiorno romano del C., risalgono anche i suoi inizi pittorici. Dedicò, infatti, il suo primo quadro a Suor Veronica Giuliani,di Città di Castello,che riceve le stimmate e la raffigurò con tale correttezza nel disegno e nell'impianto della composizione e mettendo così in risalto gli elementi prospettici da ricevere gli elogi del Camuccini e le lodi del Cristaldi, il quale, constatati i suoi progressi, gli affidò l'incarico di eseguire alcune pitture per la propria villa e di ritrarre la sorella. Appartengono alla formazione giovanile altre opere andate disperse come le precedenti: l'Autoritratto davanti al cavalletto il Ritratto di una guardia nobile pontificia, un secondo dipinto ispirato alla futura (1839) Beata Giuliani, alla quale il C. era molto devoto (ibid., pp. 26-28).
L'esilio di Pio VII e della sua corte da Roma e l'occupazione da parte delle truppe napoleoniche indussero nel 1809 il C. a rientrare a Città di Castello dove, per qualche tempo, riprese a lavorare alle dipendenze del Crosti. Presto, tuttavia, per eseguire ritratti e tele di soggetto religioso che gli venivano ordinati da committenti che risiedevano in altri centri, si spostò ovunque la sua opera veniva richiesta. Così tra il 1809 e il 1815 fu attivo a Perugia, Sansepolcro, Urbino, Pesaro, Ancona, Senigallia e Rimini. Particolare importanza acquistano, secondo il biografo, i soggiorni del C. a Urbino e a Pesaro.
A Urbino, infatti, il C. ritrasse l'arcivescovo Spiridione Berioli in un quadro, grande al vero, "d'inarrivabile somiglianza e di squisita intelligenza e finitezza anche ne' più minuti particolari" (ibid., p. 32), che lo impose all'attenzione del pubblico e ne rivelò le doti di ritrattista assai abile nella resa della somiglianza e nella descrizione minuziosa degli ambienti e degli accessori. Da Urbino il C. raggiunse a Pesaro il marchese Antaldi per ritrarne la famiglia e per copiare in miniatura, tecnica ch'egli usava con la stessa perizia dell'olio, due tele di "genere" appartenenti alla collezione dell'avvocato Giacomo Mancini.
Con ogni probabilità prolungò la permanenza a Pesaro più che negli altri centri dell'Emilia Romagna e delle Marche ove lavorò in questi anni. A Pesaro, ospite dell'Antaldi, il C. conobbe il Monti, sua figlia Costanza e G. Perticari nonché gli intellettuali e gli aristocratici che attorniavano il poeta. Frequentò, dunque, con assiduità un ambiente culturale tanto stimolante per lui da influenzarne il linguaggio pittorico. Purtroppo la perdita delle opere pesaresi (oli e miniature), come di quelle eseguite in precedenza, non consente di verificare l'entità di un tale mutamento. Le testimonianze dei contemporanei (dal Gherardi Dragomanni al Mancini, al Pancrazi) permettono, tuttavia, di individuare le direttrici seguite dal pittore nell'adeguare i propri mezzi espressivi alle esigenze dei nuovi clienti, le cui predilezioni in fatto di pittura differivano notevolmente dal gusto degli ecclesiastici, al quale soprattutto il C. sino ad allora si era uniformato.
I contemporanei concordano, inoltre, nell'ascrivere al Monti una funzione catalizzatrice, in quanto sembra che il poeta non si limitasse a suggerire al C. letture appropriate: consigli che, del resto, l'artista seguì con il massimo zelo pur di ovviare alla sua preparazione letteraria e "specifica" alquanto approssimativa. Sembra, invece, che il Monti intervenisse nella progettazione e persino nella stesura dei dipinti che il C. stava realizzando per lui (i "vari" ritratti di Costanza), per il genero (Ritratto di Costanza Monti Perticari come Euterpe con la cetra in mano)e per la comune amica, la principessa di Galles. Apprendiamo, al riguardo, dalla biografia che il pittore si "esercitava a fare quadri storici" e non solo seguiva le indicazioni del Monti su "come dovessero collocarsi le figure, come aggrupparsi, perché formassero un insieme armonico", ma sottoponeva al severo giudizio del poeta quanto andava eseguendo (Gherardi Dragomanni, 1841, p. 35). Il biografo finisce per concludere che le lezioni del Monti avvantaggiarono assai il C. "in fatto di composizione" (ibid., p. 39), quasi a limitarne l'apprendistato con il Camuccini solamente all'acquisizione delle tecniche del mestiere. Si direbbe, cioè, che sulla formazione del C. non avesse affatto influito l'attenta disamina, che egli attuò nello studio del pittore romano, dei tanti bozzetti, cartoni e disegni approntati in quegli anni dal suo maestro per la stesura finale di quel gruppo di tele storiche dove alla tematica inedita facevano da supporto proprio soluzioni compositive del tutto nuove (cfr. G. Piantoni, Mostra V. Camuccini [catal.], Roma 1978). Pare, invece, più attendibile la ipotesi che con la guida del Monti, interprete d'eccezione del contemporaneo movimento neoclassico e profondo conoscitore delle multiformi valenze con cui esso si imponeva in ogni campo del fare artistico, il C. abbia completato la propria educazione e abbia acquisito soprattutto la consapevolezza di quanto fosse indispensabile a un artista davvero moderno mettere in pratica quei criteri che ne finalizzavano l'opera alla lettura agevole e immediata del "concetto filosofico" e dei presupposti etico-politici insiti nel tema prescelto (Gherardi Dragomanni, 1841, p. 35).
Il processo di sensibilizzazione culturale e politica cui il Monti sottopose il giovane artista avvenne con eccezionale tempismo se è databile al 1809-1813 quel Ritratto di Napoleone I (Città di Castello, Pinacoteca) che ne testimonia la sollecita risposta alle richieste celebrative del suo tempo. A Pesaro il C. perfezionò, inoltre, la tecnica della "miniatura su marmo" adottando, al posto del supporto in avorio, troppo fragile e soggetto a ingiallirsi, lastre sottilissime di marmo bianco che avevano il duplice vantaggio di conservare inalterate la pastosità e la vivacità delle tinte e di essere più resistenti agli urti (ibid., p. 36).
In compagnia dell'Antaldi egli si recò poi a Venezia dove si trattenne alcuni mesi per ritrarre le figlie dell'amico che vi risiedevano e per studiare Tiziano e i grandi maestri veneti, Sembra, infatti, che i dipinti mitologici (perduti) realizzati poi, a Pesaro, per la principessa di Galles (Ebe che disseta Giove sotto forma di aquila)risentissero nelle gamme cromatiche dello studio compiuto a Venezia.
Nel 1815 il C. rifiutò l'incarico di insegnare disegno nelle pubbliche scuole pesaresi per tornare a Roma. Prima di decidersi ad abbandonare una clientela che oltre ad apprezzarlo gli garantiva cospicui guadagni, senza dubbio soppesò con "montiana" oculatezza le promesse del Cristaldi, di nuovo in auge con la Restaurazione, che lo richiamava presso di sé. A Roma, dove giunse forse all'inizio dell'autunno del 1815, aprì uno studio e si affrettò a completare l'apprendistato con il Camuccini. Nel marzo 1816 partecipò al concorso della scuola libera del nudo dell'Accademia di S. Luca classificandosi secondo (Roma, Arch. dell'Accad. di S. Luca). Tre anni più tardi (1819) guadagnava tanto da farsi raggiungere dalla numerosa famiglia. S'inserì nell'ambiente artistico legandosi d'amicizia a T. Minardi, A. Canova, J. B. Wicar, B. Pinelli e L. Cochetti. Era pure in buoni rapporti con i paesaggisti e vedutisti italiani (G. B. Bassi) e stranieri (Verstappen e Voigt) e con gli artisti di altre città italiane in viaggio d'istruzione a Roma (F. Sabatelli, G. B. Biscarra, G. Berti, F. Nenci), alcuni dei quali lo ritrassero in tele oggi perdute (Gherardi Dragomanni, 1841, p. 67).
Appartengono al secondo periodo trascorso dal C. a Roma (1815-1822) ritratti di personaggi influenti (Pio VII, il Cristaldi,Canova nello studio,M. Missirini), numerose Sacre Famiglie che tra l'altro valsero al suo studio l'ironico appellativo di "sagrestia", diverse pale d'altare per chiese romane (Visita di s. Elisabetta per la chiesa, ora demolita, di S. Romualdo nel rione Trevi), di Tivoli, di Assisi e di Città di Castello (per la descrizione di queste opere, attualmente irreperibili, si rimanda alla biografia di Gherardi Dragomanni, 1841, p. 42-64).
La produzione, ufficiale non assorbì interamente l'attività del Chialli. Tra la fine del 1819 e l'inizio del 1820 egli "scopriva" un nuovo genere pittorico, il "quadro storico prospettico", nel quale trattava soggetti ancora non sfruttati, desunti dall'attenta osservazione della vita quotidiana di preti e monache, e descriveva con grande abilità gli "interni" di conventi, chiese, monasteri.
È probabile che preliminari al "quadro storico prospettico" siano state le sue numerose vedute, disegnate dal vero ogni giorno, dove con pochi tratti di matita erano messe in risalto le varianti prospettiche, riprese da diversi punti di vista, dei resti della Roma imperiale e paleocristiana (ibid., p. 49). Sembra, inoltre, che la "scoperta" di un tale genere pittorico possa essere messa in connessione con il successo che nell'anno 1819 ebbe a Roma un quadretto, Coro dei cappuccini, dipinto di memoria da F. M. Granet. Incoraggiato dal Minardi e dal Canova, il C. tra il dicembre 1819 e il gennaio 1820 si dedicava all'esecuzione del Coro dei cappuccini (perduto) impostando la composizione in maniera assai diversa dal "modello" francese e realizzando il dipinto "interamente presso il vero" e in grandi dimensioni, addirittura alto "palmi dieci romani largo otto" (Pinto, 1972, p. 188). Il Coro dei cappuccini del C. ebbe enorme risonanza (Diario di Roma, 23 marzo 1820). Per accontentare le richieste dei numerosi ammiratori, tra cui il Canova, il C. dovette replicarlo ben sei volte. Ne vennero tratte anche incisioni e traduzioni in mosaico (Gherardi Dragomanni, 1841, p. 51).
Con il genere "storico prospettico" il C. proponeva una tematica nuova che, pur traendo spunto dalle sue trascorse esperienze mistiche, risultava assai gradevole e verosimile grazie al ricorso a effetti di luce "speciali" ripresi dal vero e alla descrizione particolareggiata degli ambienti. Il favore con cui i contemporanei accolsero i quadri "storico prospettici" del C. si accordava con l'ideologia della Restaurazione in atto.
Oltre ai dipinti "storico prospettici" di ambiente "fratesco" eseguiti per il conte Pianciani e il principe Demidoff, il C., sempre tra il 1815 e il 1822, lavorò alle decorazioni per la villa del duca Torlonia a Grottaferrata e per la villa di Manuel Godoy, principe della Pace, dipinse l'Esercito straniero [austriaco] accampato a ponte Milvio (1821), acquistatogli dall'ambasciatore austriaco Apponyi, eseguì la Famiglia indigente al rientro da un breve soggiorno ad Albano che gli dette modo di ritrarre la Famiglia Doria e di dipingere e disegnare numerosi paesaggi delle campagne circostanti (Ariccia, Castelgandolfo, Genzano), realizzò una tela su un Episodio dibrigantaggio accondiscendendo, nella scelta del tema, ai desideri della committente, una signora inglese, e infine raffigurò il proprio studio con tale "squisita verità che sembrava vederlo rimpicciolito allo specchio" (ibid., p. 68).
Per la precarietà del suo stato di salute, il C. si risolse ad affidare a L. Cochetti i propri lavori e il 15 ag. 1822 partì per Città di Castello ove rimase, nonostante i frequenti viaggi a Firenze e a Roma, sino al 1825, A Città di Castello il C. realizzò opere oggi perdute (ibid., pp. 69-78). E molto probabilmente, nel 1823 e nel 1824, tornò a Roma per allestire, in collaborazione con lo scultore Gioacchino Mortola, le "macchine" sceniche per le sacre rappresentazioni che si tennero all'oratorio del Caravita per l'esposizione del SS. Sacramento durante gli ultimi giorni del carnevale.
Una delle "macchine", riprodotta in incisione da L. Cochetti, raffigurava S. Pietro in mare (ibid., p. 60). L'altra, approntata nel 1824, rappresentava la Visione di s. Giovanni Evangelista. Diessa resta l'incisione eseguita da B. Pinelli (B. Pinelli, catal. della mostra, Roma 1956, n. 181, p. 118) per illustrare la spiegazione dell'episodio da distribuirsi ai fedeli. L'incisione documenta la complessità della scena ideata dal C. e realizzata con le statue in cera dal Mortola (A. Bevignani, Le rappresentazioni sacre per l'Ottaviano dei Morti..., Roma 1912, pp. 340 s., fig. 71).
Al 1823 e al 1824 risalgono pure due incarichi prestigiosi dati al C. dai granduchi di Toscana, Ferdinando II e Leopoldo II rispettivamente.
Si trattava di dipingere due tele, la Messa cantata, altrimenti detta Coro dei cappuccini, dispersa con l'ultima guerra (Pinto, 1972, p. 57), e le Esequie di un cappuccino (Firenze, Pitti: ibid., pp. 57 s.) da destinarsi alla galleria di palazzo Pitti. Un valido pretesto, dunque, per il pittore per recarsi sovente a Firenze a studiare Masaccio, Andrea del Sarto e Michelangelo, a incontrarvi gli amici artisti, già conosciuti a Roma, e presentare agli "amatori" le opere recenti della sua produzione storico-prospettica. Si ha notizia, infatti, che nel 1824 il C. espose a Firenze il S. Martino delle monache benedettine e la Beata Giuliani che fa la Via Crucis con le sue monache (attualmente dispersi) che gli furono subito acquistati dal principe Demidoff e dal marchese G. B. Bourbon del Monte (Gherardi Dragomanni, 1841, pp. 73-74).
Nel 1824 il C. andò a Sansepolcro per dipingere nel salotto di L. Gherardi tempere di soggetto storico-letterario. Si trattenne nella cittadina toscana per un anno e vi conobbe Anna Picchi che egli sposò il 1º nov. 1825. In seguito al matrimonio decise di fissare la propria residenza a Sansepolcro dove gli nacquero i figli (Margherita, Teresa e Giovanni) e aprì uno studio di disegno frequentato, tra altri allievi, anche da A. Tricca, il futuro caricaturista amico dei macchiaioli. Durante gli anni trascorsi a Sansepolcro (1825-1836) il C. eseguì parecchi ritratti, alcune tele per la cattedrale e il seminario, decorò il salotto di L. Marini con Episodi della vita di Piero della Francesca, si recò anche a Firenze per ritrarre la contessina Elisabetta Baldelli (novembre 1826) promessa sposa del marchese Bourbon del Monte, ad Aquapendente per realizzarvi tra il 1827 e il 1828 alcuni dipinti, e, infine, a Marsciano per eseguirvi tele di soggetto sacro per la chiesa parrocchiale (Gherardi Dragomanni, 1841, pp. 80-101; Id., Intorno a quattro dipinti del sig. prof. V. C., in Antologia, agosto 1828, pp. 154-156).
Dall'11 maggio 1836 il C. si trasferì con la famiglia a Cortona dove dal 20 giugno divenne direttore dell'appena istituita Accademia di disegno.
L'attività didattica non interruppe la sempre intensa produzione di tele di soggetto sacro (Gherardi Dragomanni, 1841, pp. 101-127), anche se con maggiore frequenza l'artista rivolgeva la propria attenzione ai temi del repertorio storico-letterario. Oltre ai dipinti, oggi perduti ma descritti dal Gherardi Dragomanni con la consueta ampiezza (pp. 124-129), a Dante Alighieri che viene accolto nel monastero di Monte Avellana (G. B. Brilli, Sopra un dipinto... esprimente Dante..., Pistoia 1838) a Raffaello che va a trovare fra' Bartolomeo (V.Marchese, Memorie de' più insigni pittori... domenicani, II, Bologna 1879, p. 52) e ai tanti disegni conservati alla Biblioteca Marucelliana di Firenze, il C. progettava di realizzare un ciclo di tele sul Petrarca, Tasso e Ariosto (Gherardi Dragomanni, 1841, pp. 125-126). Dal disegno esposto nel 1968 a Firenze (C. Del Bravo, Ingres e Firenze, catal., Firenze 1968, pp. 145 s., 159) Raffaello che sta osservando un quadro di fra' Bartolomeo, siha un'ulteriore prova di come il C. risolvesse anche il soggetto storico-letterario con la consueta abilità di prospettico e di indagatore di caratteri. Lo studio ch'egli eseguì per un quadro raffigurante Raffaello a Città di Castello, rimasto incompiuto alla sua morte (oggi disperso), suscitò un'accesa polemica tra G. Mancini e G. Andreocci sull'attendibilità dell'episodio (Giornale arcadico, XC[1842], pp. 357-370; XCII [1842], pp. 374-378; G. Mancini, Intorno a un quadro..., Roma 1842). Polemica che sembra confermare l'interesse con cui i contemporanei del C. seguivano la sua produzione storico-letteraria.
L'adesione del pittore a questa tematica potrebbe imputarsi al gusto dei committenti, il conte Mellerio di Milano e Vincenzo Sermolli, anch'egli milanese, i quali appartenendo, appunto, a un ambiente culturale ove il repertorio storico-letterario era diffusissimo già con l'opera degli artisti neoclassici, in specie di G. Bossi, è probabile richiedessero al C. quadri con tali soggetti. Potrebbe, però, dimostrare come il C. condividesse le ricerche che proprio in questo periodo (1830-1840) stavano attuando i pittori fiorentini (F. Mussini, G. Sabatelli, G. Fattori, G. Moricci) i quali, stimolati dalle richieste della borghesia, riducevano il quadro storico, generalmente di vaste dimensioni e con impianto compositivo assai complesso, a formato bozzetto, adatto, cioè, ad adornare salotti e sale da pranzo (Pinto, 1972, pp. 93 s.).
Nel maggio 1839 il C. tornò a Roma per assistere alla canonizzazione della beata Giuliani e si incontrò con il Minardi, il Cochetti, il Podesti e il Thorvaldsen (Gherardi Dragomanni, 1841, pp. 129-134). Rientrato a Cortona, egli riprese a lavorare. Purtroppo l'incendio che ne devastò lo studio distrusse una serie di opere appena terminate (ibid., pp. 134-138). Fu l'inizio di una serie di disgrazie: il 1º nov. 1839 moriva a Roma la sorella Caterina, moglie di Saverio Allegri, nel dicembre il fratello Giuseppe, poi, sempre nel 1839, si ammalavano la moglie e i figli. Provato dai lutti e dalle disgrazie familiari, affaticato dal troppo lavoro, il 21 luglio 1840 il C. si ammalò. Morì a Cortona pochi mesi più tardi, il 4 sett. 1840, senza poter ultimare la Morte di s. Veronica per il conte Larderel di Livorno (ibid., pp. 143-146).
Il Gherardi Dragomanni (p. 91) c'informa che l'Accademia di S. Luca, quella di Firenze e quella di Siena avevano deciso di associare, l'anno stesso in cui moriva, il C., che nel 1830 era stato già nominato socio dell'Accademia di Torino e di quella di Perugia.
Fonti e Bibl.: G. Mancini, Istruz. storico pittorica per visitare... Città di Castello..., I, Perugia 1832, pp. 86, 315-317; Il Giornale del Commercio, 25 apr. 1838, p. 68 (S. Isidoro Agricolo a Castiglion Fiorentino); 9 maggio 1838, p. 74 (Dante all'Avellana per Milano); 29 ag. 1838, p. 138 (S. Benedetto e santi a Pratovecchio); 3 luglio 1839, p. 106 (Lo studio di fra' Bartolomeo visitato da Raffaello per Cortona), F. Gherardi Dragomanni, V. C., in L'Album, 22 maggio 1841, pp. 89-92, 101 s.; Id., Della vita e delle opere del pittore V. C. ..., Firenze 1841; N. Pancrazi, Elogio di V. C., Pistoia 1842; Catal. ufficiale d'esposizione italiana, Firenze 1861, p. 210, n. 4696 (Catal. illustrato..., p. 47, n. 688: Esequie di un cappuccino);G. E.Saltini, Le arti belle in Toscana..., Firenze 1862, p. 52; A. Tossani, V. C., Firenze 1905; A. Rosini, V. C., Città di Castello 1942; S. Pinto, in Cultura neoclassica e romantica nella Toscana granducale (catal.), Firenze 1972, pp. 57s., 188 s. (con bibl.); U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, pp. 31 s. (con bibl.).