Vedi VERNICE NERA, Vasi a dell'anno: 1966 - 1997
VERNICE NERA, Vasi a
Con questo nome s'intende una categoria di vasi interamente verniciati in nero, generalmente senz'altra decorazione che non sia ottenuta a pressione. Anche se gli inizî dei vasi a v. n. risalgono alla fine del V sec. a. C., la loro durata coincide in gran parte con l'età ellenistica, giacché questa ceramica fu sostituita da quella a copertura rossa soltanto - sembra - al tempo della battaglia di Azio. La loro diffusione fu immensa per tutto il bacino del Mediterraneo; i luoghi di produzione più di uno; ed anche se, come manifestazione d'arte, la ceramica a v. n. non può paragonarsi, per qualità intrinseche, con la ceramica figurata, tuttavia presenta notevole interesse.
Com'è naturale in una ceramica che rinuncia alla rappresentazione dipinta del mondo vivente, il suo principale - quasi esclusivo - merito consiste nella sagoma del vaso stesso. Il senso inimitabile dell'armonia delle forme, si mantiene costante nei vasi a v. n., pur attraverso il continuo variare delle sagome nel lungo trascorrere dei secoli; ed i particolari decorativi restano sempre subordinati all'esigenza principale, ossia alla sagoma. Tipologicamente possiamo distinguere fra vasi lisci e vasi strigilati (ossia con la pancia solcata da profonde incisioni, quasi che essa fosse composta di tante piccole verghe; donde il nome greco, documentato per i vasi di metallo, ma che indubbiamente era usato anche per i vasi fittili che li imitavano, di ἀγγεῖα ῥαβδωτά; in francese vases côtelés; in inglese, vases with fluted body; in tedesco, geriefelte Vasen); tra vasi a decorazione impressa e vasi a decorazione a rilievo. Ma a questa differenziazione tipologica non sembra corrispondere sempre una differenziazione cronologica e solo in pochi casi una differenziazione geografica. I vasi lisci, per esempio, pur essendo proporzionalmente più numerosi degli altri nei periodi più tardi, sono presenti in tutti. Per conseguenza, non è possibile basarsi, allo stato attuale degli studî, sui sistemi decorativi per fondare una cronologia assoluta.
Ed in verità, se tutta questa classe ceramica soffre della scarsezza di ricerche particolari e di studî generali, il capitolo più oscuro resta però sempre quello della cronologia relativa ed assoluta. Sino al 280 circa può essere di valido aiuto il confronto delle sagome dei vasi a v. n. con le sagome dei vasi dipinti (sin dove queste sono state datate); in qualche raro caso fortunato può essere di aiuto la presenza di un vaso dipinto nella stessa tomba, quando questa sia stata trovata intatta, sia stata scavata bene, sia stata pubblicata come si deve ed abbia servito ad una sola deposizione; ma, per i periodi posteriori, ci aggiriamo sovente nel frequente circolo vizioso archeologico di basare la data di uno strato sulla data di un avvenimento storico, la cui data incertissima aspetta a sua volta una conferma dall'archeologia. E le monete, che pure talora han costituito un criterio esteriore obiettivo, nei rari casi in cui sono leggibili con sicurezza, sono databili entro limiti terribilmente ampli. Tuttavia, col tempo si arriverà senza dubbio a fissare la cronologia delle forme nelle sue grandi linee, purché si trovi chi voglia sottomettersi all'ingrata fatica di pubblicare il molto che è inedito ed a riassumere il parecchio che è edito, ma disperso in mille rivoli.
Nel fenomeno della rinunzia alla decorazione figurata, non sempre è facile dire - soprattutto nei vasi completamente lisci - quanto sia dovuto ad economia, quanto a prescrizioni religiose e quanto a precisa volontà artistica. In moltissimi casi però - specialmente nei vasi di piccole dimensioni, che troviamo a centinaia nelle stipi votive o nei resti di abitazioni private - non vi può essere dubbio che i vasi a v. n. abbiano costituito la ceramica della gente povera. In Beozia la troviamo nelle tombe già nella seconda metà del VI sec. a. C. con tanta costanza, che dobbiamo pensare ad un costume funerario (ed in ciò la Beozia si allinea con l'Etruria, i cui buccheri [v.] formano, pur con una tecnica diversa, un bel parallelo con i vasi a v. n.); ma, in Attica, già su alcuni vasi del periodo geometrico vediamo che il pittore ha coperto di nero tutta la superficie del vaso, eccetto una strettissima zona con decorazione a meandro, o a denti di lupo. Tocchiamo qui con mano il principio essenziale della ceramica interamente verniciata: abolire la figura, per concentrare lo sguardo sulla sagoma, principio che troviamo in germe già su alcune anfore attiche databili verso il 480, le quali non portano altra decorazione dipinta all'infuori di alcune palmette sulle spalle e sul collo. Non per caso si tratta di anfore del tipo detto convenzionalmente nolano, che è indubbiamente fra tutti i tipi di anfore quello dalla sagoma più elegante.
Come è noto, dopo il 480 comincia il declino della ceramografia attica, il quale si accentua dopo il 440, per precipitare verso il 410. Tra il 450 ed il 425 troviamo, su alcune coppe attiche, l'esterno dipinto con figure assai graziose e l'interno adorno con raggi e palmette impresse. Era la nuova tecnica che si preannunciava. Verso il 425, stando ad una testimonianza scritta, confermata (o, almeno, non contraddetta) dagli scavi americani nell'agorà di Atene, essa entrava trionfalmente nel mondo dell'arte ceramica. Ci dice infatti Ateneo che, al tempo di Aristofane, un certo Therikles da Corinto creò dei vasi in terracotta interamente verniciati, i quali incontrarono talmente il favore del pubblico, che il nome di vasi tericlei divenne un nome generico (un nome scritto con la iniziale minuscola, dice la fonte di Ateneo), il quale ricorre in varie commedie del IV sec., in passi da lui riportati in esteso. Anzi, possiamo aggiungere, Cicerone, in una Verrina, parla di un vaso tericleo in argento: sarebbe questo l'unico caso a noi noto - accanto a numerosi altri del fenomeno opposto - di imitazione, da parte di toreuti, in tecnica metallica, di forme create in tecnica fittile.
Tornando a Therikles da Corinto (certamente un metèco stabilitosi ad Atene) l'indicazione cronologica fornita da Ateneo "ai tempi del poeta Aristofane" è piuttosto vaga; ma non vi è dubbio che non sta ad indicare tutta la vita fisica del commediografo, bensì che i vasi tericlei erano citati in qualcuna delle commedie, particolare che restringe l'indicazione cronologica al periodo fra il 427 ed il 388. I vasi a v. n. che possiamo, sulla base della sagoma, assegnare a quel periodo sono tutti perfetti. La loro sagoma si ritrova talora in bronzo ed è questa la controprova (anche se non abbiamo alcuna firma di Therikles) che le sue sagome ceramiche furono effettivamente imitate in metallo.
Quanto tempo passò prima che l'industria d'arte degenerasse in mestiere? Certo assai poco, giacché ad Olinto - che fu distrutta nel 348 e che importava i suoi vasi da Atene o, che, se li produceva in casa, s'ispirava alla produzione della metropoli - tranne pochissimi esemplari assai belli, gli altri sono tutti assai dozzinali. Molta luce in proposito non ci dànno gli scavi dell'agorà, giacché in trecento anni il terreno troppe volte fu rimaneggiato; tuttavia risulta abbastanza chiaramente che, una volta discesa la ceramica a v. n. al grado di ceramica d'uso, sorsero ad Atene, come ceramica d'arte, tre gruppi affini: la ceramica delle Pendici Occidentali (v.), i vasi megaresi (v.) ed il gruppo dei vasi con rilievi policromi su fondo nero. I vasi delle Pendici Occidentali ravvivano il colore nero del fondo con motivi decorativi quasi esclusivamente geometrici, dati con colore bianco o paonazzo. I vasi megaresi - quasi esclusivamente coppe di una sagoma differente da quella in uso nella ceramica a v. n. - sono bensì completamente verniciati, ma coperti di rilievi per tutta la loro superficie, sì che rappresentano un gruppo completamente distinto. Il gruppo a rilievi policromi è costituito da vasi assai belli ed interessanti (ad esempio, la lèkythos ariballica firmata da Xenophantos col re persiano a caccia; l'idria della Crimea con la disputa fra Atena e Posidone, ispirata al gruppo del frontone occidentale del Partenone; il vaso di Berlino con lo scheletro che incita al godimento del banchetto), caratterizzati dall'uso dei colori sui rilievi, con un contrasto forte ed efficace con il nero nel resto del vaso. Ma si tratta sempre di vasi assai belli, che poco hanno in comune sia fra loro, sia col resto della ceramica coeva. Quindi si usa trattarne a parte. Resta ad ogni modo confermato che nulla è tanto difficile quanto mettere delle barriere rigide in un mondo ricco di sfumature. Infine va ricordato un piccolo gruppo di coppe attiche a tccnica mista - pittura all'esterno e motivi stampigliati all'interno - che ripetono nel IV sec. (probabilmente senza saperlo) quanto era stato fatto ad Atene un secolo prima; ma si tratta di un gruppo poco numeroso e qualitativamente poco importante, che non ebbe seguito, eccetto che a Taranto ed in pochi esemplari isolati.
Dubbia sembra invece l'attribuzione ad Atene di un gruppo di vasi strigilati decorati con rilievi abbastanza alti, applicati sulla spalla e sulla pancia del vaso, in modo piuttosto inorganico. Questa inorganicità è la causa del dubbio. Assai più verosimile appare l'ipotesi che li attribuisce a Taranto. Taranto, infatti è, durante il IV sec., il centro ceramograficamente più importante fuori di Atene, sì che un vaso che qualitativamente appaia uscire dal comune, già con forte presunzione si può attribuire a Taranto, quando sia dimostrata - o almeno sia possibile - una sua non assegnazione ad Atene. Nel caso specifico di questi vasi ad alto rilievo, un forte argomento in favore di Taranto è fornito dalla stilizzazione delle foglioline di edera, che troviamo identica sui vasi di Gnathia, indubbiamente tarantini. I vasi di Gnathia (v.), infatti, stanno ai vasi a v. n. tarantini come i vasi delle Pendici Occidentali stanno ai vasi a v. n. attici: come quelli, infatti, sovrappongono motivi decorativi in bianco ed in rosso al nero della copertura totale. A Taranto va assegnato anche il più bel vaso di questo gruppo, il grande cratere rinvenuto a Cuma ed attualmente al Museo dell'Ermitage a Leningrado, che meritò il nome di regina vasorum (v. vol. iv, fig. 647-648). Gli animali che adornano il fregio sottile nella zona di massima espansione sono stilizzati nello stesso modo di certi rilievi in terracotta rinvenuti a Taranto, che si applicavano ai sarcofagi lignei. Il soggetto della spalla, le divinità eleusine, è bensì attico, ma altresì pannellenico, giacché alla iniziazione eleusina erano amniesse anche persone non nate in Attica.
Similmente vanno attribuite a Taranto due bellissime patere rinvenute al Casone presso Monteriggioni (Siena) e varî altri vasi a v. n. usciti dalla medesima tomba (dei Calinii Sepus) non solo per l'eccellenza del lavoro ma per la somiglianza dello schema figurativo loro con quello di alcune thèkai di specchio di fattura tarantina. A Taranto vanno inoltre assegnati molti piccoli vasi classificati come campani rinvenuti ad Ensérune in Provenza, come lo dimostra la somiglianza con alcuni altri del museo di Lecce; ed infine buona parte dei cosiddetti gutti caleni (v. oltre).
Fuori di Taranto, abbiamo, nella penisola italiana, due altri gruppi di vasi a v. n.: in Campania ed in Etruria (denonimati per qualche tempo etrusco-campani, nome oggi fortunatamente abbandonato). Astraendo da quei prodotti che, per essere privi di ogni carattere specifico, sono bensì locali, ma non si distinguono dalla ceramica d'uso del mondo antico coeva, si distinguono abbastanza nettamente, nella ceramica campana, due gruppi: la ceramica detta di Vibio e la ceramica calena. La prima è costituita da coppe senza anse, col piede bassissimo e la cavità poco profonda, decorata all'interno da disegni geometrici inclusi in piccole cornici quadrate, ovvero in palmette disposte. in varie guise, spesso con una maschera al centro. La provenienza esclusivamente campana degli esemplari noti rende praticamente sicura l'assegnazione del gruppo alla Campania, dubbio restando solo il centro di produzione, che potrebbe essere Cuma, o Capua, o Napoli. Il nome (moderno) è stato preso dal nome del proprietario, graffito su una coppa di questo tipo.
I vasi caleni (v.) sono stati assegnati a Cales sulla base del toponimo che appare talune volte nelle firme dei vasai. L'ipotesi che, ciononostante, l'officina si trovasse a Roma non ha trovato sinora alcun seguito. Il numero abbastanza rilevante di esemplari firmati permette di assegnare alla ceramica calena un gruppo abbastanza omogeneo di prodotti ceramici; ma questa denominazione è stata indebitamente estesa a numerosi vasi certamente àpuli, nonché ad altri, il cui nesso con la ceramica calena non è affatto dimostrato. Uno dei piccoli problenii insoluti della ceramica italiota consiste appunto nel separare quanto è veramente caleno da quello che caleno non è.
In Etruria i vasi a v. n. furono prodotti ed usati non meno che in altre regioni del mondo antico; ma sino a questo momento non è stato identificato alcun gruppo ceramico di particolare risalto, nonostante lo studio accurato, abbondante ed acuto come sempre, che il Beazley vi ha dedicato. Né ciò deve meravigliare, giacché la ceramica etrusca dipinta del IV sec. non eccelle - eccetto il gruppo falisco - per bellezza; ed i prodotti non verniciati del III e II sec. rinvenuti in Etruria nemmeno, giacché i migliori sono quasi certamente importati da Taranto.
L'esistenza di altri centri di produzione di vasi a v. n. è stata supposta per Corinto, Alessandria, Pergamo; ma raramente i prodotti rinvenuti in questi ed in altri luoghi, assurgono a dignità di arte; ed in questi casi occorre prima dimostrare che non si tratti di prodotti importati. Per esempio, alcuni vasi a v. n. rinvenuti in una necropoli alessandrina dalla spedizione Sieglin sono dimostrati tarantini dalla stilizzazione delle foglie di edera. E per la ceramica d'uso il problema è irrilevante, giacché riguarda piuttosto le correnti del commercio antico, o la diffusione dell'industria ceramica nell'antichità, anziché lo svolgimento di questa forma d'arte.
Investe invece direttamente l'arte il problema del nesso fra toreutica e ceramica a rilievi. Il nesso era già parso evidente sin da quando era stato identificato, in un medaglione di una coppa calena, un decadracma di Siracusa; G. M. A. Richter ha dimostrato come anche in numerosi altri casi i rilievi delle coppe calene siano stati ricalcati su rilievi argentei, che per lo stile risalgono a prototipi del V e del IV sec. a. C. Non solo i rilievi ceramici, ma anche quelli metallici sono però quasi sempre centoni di opere del periodo classico (probabilmente già allora ridotte in pezzi): avremmo perciò una produzione di terza mano, evidentemente per una clientela scarsa di denaro e tuttavia desiderosa di una forma, sia pur modestissima, di arte; fenomeno per noi assai interessante, di un nostalgico ritorno, in pieno III o II sec., a forme più antiche. Naturalmente, non è detto che i rilievi argentei calcati dai ceramisti caleni fossero caleni anch'essi; tutt'altro. Probabilmente si tratta di oggetti predati nel saccheggio di Taranto, dopo la fuga di Pirro.
Il nesso fra la ceramica calena e la toreutica ha avuto una splendida conferma nel ritrovamento e nel riconoscimento di quattro patere argentee e due di stagno, che sono assolutamente identiche, anche nei particolari, ad un gruppo di patere calene, di cui si sono enumerate sino ad ora ben cinquanta esemplari. Sulla base delle misure bisognerebbe decidere se le negative dei vasi caleni sono state calcate sui vasi d'argento (in tal caso avremmo la nota riduzione dal 9,4 all'8,5% delle dimensioni sui prodotti fittili rispetto ai prodotti argentei (v. terracotta); o se una stessa matrice ha servito per la negativa degli uni come degli altri (nel qual caso avremmo una riduzione minore). L'interno delle patere è adorno di due fregi: nella zona più ampia abbiamo quattro quadrighe in corsa, guidate ciascuna da una Nike, nella quale han trovato posto rispettivamente Atena, Eracle, Dioniso ed Ares: probabilmente è rappresentata l'ascesa di Eracle all'Olimpo, ossia la sua apoteosi. Nella zona più stretta vediamo dei banchettanti: forse il banchetto per le nozze di Eracle con Ebe, episodio connesso anch'esso con l'apoteosi dell'eroe.
A che servivano i vasi a v. nera? Difficile dirlo caso per caso, giacché gli esemplari integri vengono quasi esclusivamente dalle tombe, mentre le stipi votive ne sono piuttosto avare, eccetto in casi specialissimi, come nel santuario della dèa Manca alle foci del Garigliano, dove gli oggetti erano fatti cadere nella palude. I resti di abitazioni, poi, ne sono avarissimi. Ma possiamo arguire che nella ceramica a v. n. l'uso dei vasi sarà stato all'incirca il medesimo che nella ceramica figurata. I crateri e le anfore a grandi dimensioni avranno avuto una funzione prevalentemente decorativa nei palazzi dei ricchi e, più tardi, nelle loro camere sepolcrali. I recipienti a medie dimensioni avranno avuto una funzione pratica solo nei banchetti e nelle cerimonie solenni; i recipienti piccoli avranno avuto un uso pratico giornaliero: i più belli nelle mense dei ricchi, i più semplici nelle mense dei poveri. Talune piccolissime ciotole senza anse debbono aver servito come lucerne, anche quando queste avevano oramai assunto la forma nota col beccuccio e la copertura. (Infatti sino a pochi decennî or sono in Grecia i contadini poveri ne continuavano l'uso, nonostante l'inconveniente costituito dal fatto che le coppette divenivano in breve un cimitero di falene attirate dalla fiammella). Nel santuario della dèa Manca se ne son trovate a dozzine, associate a piccole brocche; si è fatta l'ipotesi che il fedele consegnasse al sacerdote la brocchetta con l'olio, insieme con le coppette. Ma nulla induce a credere che l'uso delle coppette come lucerne fosse esclusivamente rituale.
Puramente rituale sembra invece che fosse il kàntharos, entro o sopra le tombe, in Beozia. A Mykalessos, infatti, se ne son trovati, in una piccola necropoli, ben novantasei esemplari. Ed in Beozia sembra che il culto funerario di Dioniso si sia mantenuto più a lungo che altrove. Infine, abbiamo delle forme strane, come il vaso a calamaio, irrovesciabile, o i bei vasi plastici, come il vasetto ad astragalo, che probabilmente era una brocchetta per l'olio per i giochi notturni, o finanche uno strano tipo di vasetto, nel quale si è voluto vedere un poppatoio per lattanti.
Un posto a parte lo hanno i cosiddetti ἐκπώματα γραμματικά (l'espressione ci è nota da Ateneo), che sono dei vasi con la scritta di un dio o di un eroe, in genitivo. Servivano per libare agli dèi durante i banchetti. Ne abbiamo con la dedica a Zeus Sotèr, a Pan, alla Hygieia, alla Philia, alla Omonoia, nonché a Nestore e persino una a Platone (v. pocola).
Si è accennato in principio alle difficoltà che si oppongono ad una determinazione cronologica rigorosa dei vasi a v. nera. Gli scavi americani nell'agorà di Atene han dato bellissimi esemplari di questa categoria, ma poco servono per la cronologia assoluta, giacché i pozzi donde provengono furono più volte rimaneggiati nel corso dei secoli. Sembra tuttavia che nelle regioni orientali del Mediterraneo i vasi a v. n. fossero sostituiti da quelli a copertura rossa, assai prima che nelle regioni occidentali, dove la sostituzione avvenne - a quanto sembra - solo verso il 30 a. C. Limitatamente alle zone occidentali, N. Lamboglia ha tentato di stabilire una tipologia ed una cronologia relativa ed assoluta, i cui risultati debbono però essere passati al vaglio di una critica rigorosa. Benché abbia ottenuto di già una certa diffusione, è assolutamente da rifiutare la denominazione di ceramica campana per tutta quanta la ceramica a v. n. ellenistica, qualunque ne sia la provenienza. La denominazione di "campana" si basa esclusivamente su una presunta preminenza della ceramica interamente verniciata prodotta in Campania su quella prodotta in altre regioni e sul nome di campana supellex, che Orazio usa in una delle sue satire. (Il Lamboglia ha proposto persino di chiamare "ceramica precampana" la ceramica attica del V e del IV sec. a. C., ma la proposta fortunatamente non ha trovato alcun seguito). È chiaro che con tale denominazione si crea una confusione inestricabile (per ceramica campana si intende infatti da più di un secolo quella a figure rosse del IV sec.), in una materia già così poco chiara. Tuttavia va riconosciuto al Lamboglia il merito di aver raccolto, servendosi non solo del materiale ligure, provenzale e catalano, ma anche dei ritrovamenti più recenti, come quelli di Cosa, di Spina, di Minturno e di altri luoghi ancora, un gran numero di tipi - anche se non completo - e di aver tentato di procedere ad una divisione tipologica e cronologica, basata sul colore della terra e sulla vernice. Il Lamboglia distingue infatti tre tipi di ceramica a v. n. contraddistinti con le lettere A, B, C. La Campana A sarebbe caratterizzata da un'argilla rossa assai viva, a frattura netta e regolare, con vernice nera dai riflessi metallici assai brillante, iridescente e spesso sfumata di rosso attorno al piede. Perdurerebbe dal IV al II sec. inoltrato. La Campana B sarebbe caratterizzata da un'argilla assai pallida, con vernice molto nera e sensibilmente più opaca ed uniforme, frattura più irregolare. Perdurerebbe dalla metà circa del II sec. sino ad un'età prossima ad Augusto. La Campana C sarebbe caratterizzata da un'argilla grigia ("buccheroide") per effetto di cottura, con vernice nera, od olivastra, più o meno scadente. Perdurerebbe dall'inizio circa del II sec. sino alla metà circa del I a. C. Sarà compito di ulteriori indagini determinare i limiti e la portata della tipologia che questo studioso ha in tal modo definito.
Bibl.: Una bibl. generale non esiste. Sul primo fascicolo del Corpus Vasorum di Ginevra, uscito nel 1962, nella introduzione alle categorie III L, III G, IV B, IV D, IV E, le quali comprendono rispettivamente i vasi a v. nera attici, beoti, etruschi, àpuli, campani è data una bibl. specifica abbastanza estesa, dalla quale si può agevolmente risalire all'articolo più antico, alla voce Thericlea Vasa del Pottier, in Dict. Ant., VI, p. 212-14. Sulla tecnica della stampigliatura: P. E. Corbett, in Hesperia, XXIV, 1955, pp. 172-186. Sui vasi a v. nera rinvenuti in Beozia entro tombe databili nella seconda metà del VI sec.: P. N. Ure, Sixth and fifth Century Pottery from Excavations made at Rhitsona, Oxford 1927, pp. 34-38, tavv. IX, X, XI. Vasi di stile geometrico interamente o prevalentemente dipinti in nero, rinvenuti nella necropoli del Ceramico (cosiddetto Schwarzdipylon): B. Desborough, Protogeometric Pottery, Oxford 1952, tav. 7, n. 914 e 200, tav. 9, n. 2086, tav. 8, n. 2068. Coppe attiche del V sec. a decorazione in tecnica mista, ad impressione e pittura: A. D. Ure, in Jour. Hell. St., LVI, 1936, pp. 205-215. Su Therikles da Corinto ed i suoi vasi: Athen., Deipnosophistae, XI, 470, e f. 471, a, b, c, d. Su un vaso tericleo in argento: Cic., Verrinae, IV, 18. Sugli scavi americani nell'agorà di Atene: H. A. Thompson, in Hesperia, III, 1934, pp. 311-476 (comprese però le altre categorie di oggetti); L. Talcott, ibid., IV, 1935, pp. 476-523; H. A. Thompson, ibid., VI, 1937, pp. 459-53; M. Z. Pease, ibid., pp. 154-155; 259-312; P. E. Corbett, ibid., XVIII, 1949, pp. 318-322; C. Boulter, ibid., XXII, 1953, pp. 72-87; D. B. Thompson, ibid., XXIII, 1954, p. 73. Coppa di bronzo: Jahrbuch, LXV-LXVI, 1950-1951, p. 176, fig. 2. Sugli scavi di Olinto: D. Robinson, Excavations at Olynthos, V, Baltimora 1933, tavv. 148-196. Vaso firmato da Xenophantos: F. Courby, Vases à reliefs, Parigi 1922, p. 129. Vaso con la disputa fra Atena e Posidone: id., ibid., p. 130. Vaso di Berlino: R. Zahn, ΚΤΩ, ΧΡΩ, Berlino 1923. Vasi a tecnica mista, ad impressione e pittura, del IV sec.: attici: A. D. Ure, in Journ. Hell. St., LXIV, 1944, pp. 67-77; àpuli: N. R. Oakeshott, ibid., LXVI, 1946, pp. 125-127. Vasi con rilievi applicati in modo inorganico: J. L. Caskey, in Hesperia, XXIX, 1960, tavv. 54-55; F. Courby, op. cit., p. 202, fig. 32, tav. VI B, VII C; W. Züchner, in Jahrbuch, LXV-LXVI, 1950-51, pp. 185-199. Sull'attribuzione a Corinto o ad altri centri: ibid., p. 203, nota 3; M. Z. Pease, in Hesperia, VI, 1937, p. 272. Sull'attribuzione a Taranto della regina vasorum: P. Mingazzini, in Archeologia Classica, X, pp. 218-220; di altri vasi: Corpus Vasorum, Capua, fascicolo terzo, IV E g, tav. 4 (= Italia 1307), fig. 4. Sui v. a v. n. di Monteriggioni: R. Bianchi Bandinelli, in Studi Etruschi, II, 1929, tav. XXXIII, n. 104; tav. XXX, n. 89; tav. XXXI, nn. 88, 90, 92; i vasi nello stile di Gnathia: ibid., tav. XXXI, nn. 95, 97. Thèkui di specchi, probabilmente italiote: W. Züchner, Griechische Klappspiegel, Berlino 1942, figg. 118, 119, tav. 19. I vasi di Ensérune: Corpus Vasorum, Coll. Mouret, specialmente le tavv. 16, 17. Recensione: J. D. Beazley, in Journ. Hell. Studies, XLVIII, 1928, pp. 126-127. Vasi di Lecce: M. Bernardini, Vasi a vernice nera del museo provinciale di Lecce, Bari 1961, col sottotitolo (assai istruttivo): Vasi dello stile di Gnathia e vasi a vernice nera (manifestamente della medesima fabbrica). Sulla ceramica di Vibio: B. Schweitzer, in Studies Presented to David Robinson, II, S. Louis 1953, pp. 143-156, tavv. 54-55; aggiungi: Corpus Vasorum, Capua, fasc. terzo, IV E g, tavv. 25-28 (= Italia, 1328-1331); ibid., Napoli, fasc. secondo, IV E, tavv. 3-9 (= Italia, 1025-1031). Sulla estensione del concetto di ceramica calena: ibid., Capua, fasc. terzo, introduzione al gruppo IV E, g (v. a. v. n.), soprattutto a p. 17, nella prefazione a tav. 11. Sulle fabbriche dell'Etruria: J. D. Beazley, Etruscan Vase-Painting, cap. XIII, pp. 230-280. Vasi delle necropoli di Alessandria: R. Pagenstecher, Expedition Sieglin, II, 3, Lipsia 1913, pp. 138-142, tavv. 13-26; E. Breccia, La necropoli di Sciatbi, Il Cairo 1912, tav. XLIX-LVI. Riserve sul centro di produzione alessandrina: H. A. Thompson, in Hesperia, III, 1934, p. 315 e soprattutto pp. 446-447. Medaglioni caleni tratti da monete e da rilievi argentei: G. M. A. Richter, in Am. Journ. Arch., LXIII, 1959, pp. 241-249. Patere fittili ed argentee: id., ibid., XLV, 1941, pp. 363-389, 1950, pp. 357-370. Sui rapporti fra ceramica e toreutica: W. Züchner, in Jahrbuch, LXV-LXVI, 1950-1951, pp. 175-205. Patere di stagno: N. Alfieri, in Hommages à Albert Grenier, I, Bruxelles 1962, pp. 89-96. Stipe votiva alle foci del Garigliano: P. Mingazzini, in Mon. Ant., XXXVII, 1938, col. 885-902. Ipotesi sull'accoppiamento delle brocchette con le coppette-lucerne: ibid., col. 891-892. Necropoli di Mykalessos: P. N. Ure, Blackglaze Pottery from Rhitsona in Boeotia, Oxford 1913. Kàntharos funerario beota: Annual of the British School at Athens, XIV, 1907-1908, pp. 293-294, fig. 18 (novantasei esemplari). Vaso a calamaio irrovesciabile: R. Pagenstecher, Expedition Sieglin, Lipsia 1913, vol. II, parte terza, p. 139, fig. 144, lettere d 1, d 2. Vasi plastici: Corpus Vasorum, Capua, fasc. terzo, testo a IV E g, p. 19, col. sin., testo ai vasi plastici. Vaso per l'allattamento indiretto: ibid., testo a IV E g, tav. 11, 2. Εκπώματα γραμματικά: Mélanges de l'école franç. de Rome, XXX, 1910, pp. 105-106, con lista a p. 105, nota i; Ch. Picard, in Revue Arch., XXII, 1913, pp. 174-176; T. L. Shear, in Hesperia, V, 1936, p. 38, fig. 38; XVI, 1947, p. 240; tav. LIX, figg. 13, 14, 15, da Corinto. Dedica a Platone: P. Mingazzini, in Archeologia Classica, X, 1958, pp. 223-224. Tipologia e cronologia dei v. a v. n. nelle zone del Mediterraneo orientale: N. Lamboglia, in Atti del Primo Congresso Internazionale di Studi Liguri, 1952, pp. 139-206; proposta di chiamare precampana la ceramica attica del V e IV sec.: ibid., p. 165. Obiezioni alle proposte di Lamboglia: Corpus Vasorum, Capua, fasc. terzo, testo introduttivo alla categoria IV E g. Risposta di Lamboglia: Rivista di Studi Liguri, XXVI, 1960, pp. 292-304. Rinvenimenti a Cosa: Memoirs of the American Academy at Rome, XXV, 1957, pp. 65-193. A Minturno: A. Lake, in Boll. di Studi Mediterranei, IV-V, 1934-35, pp. 97-104; Mon. Ant., XXXVII, col. 885-902. In Cirenaica: J. H. Holwerda, Laat-grieksche en romeinsche Gebruiksaardewerk uit het mittlelandsche Zee-gebiet, L'Aia 1936, nn. 51-96. In Asia Minore: ibid., nn. 97-113. Ad Isthmia: O. Broneer, in Hesperia, XXVII, 1958, tav. 13. in Campania: J. H. Holwerda, op. cit., nn. 114-169. A Ponticelli presso Napoli: Not. Sc., 1922, pp. 257-286; a Caivano: Not. Sc., 1931, pp. 600-614. A Spina: S. Aurigemma, I Museo Archeologico di Spina a Ferrara, Bologna 1936, tav. LVI; Arias-Alfieri, Il museo archeologico di Ferrara, Bologna 1934, tav. 18. A Samo: W. Technau, in Ath. Mitt., LIV, 1929, pp. 42-48. Per Roma: J. P. Morel, Céramique a vernis noir du Forum romanorum et du Palatin, Parigi 1965. Per la Spagna e la Provenza: numerose citazioni in Lamboglia, op. cit.