UNGER (Ungher), Carolina Maria (Karoline, Caroline, Carlotta)
Nacque a Vienna (non nella ungherese Székesfehérvár, come spesso si legge: cfr. Kopitz, 2012) il 28 ottobre 1803, unica figlia della baronessa polacca Anna Karwinska di Karwin e di Johann Karl, ungherese trapiantato nella capitale asburgica, insegnante al Collegium Theresianum, precettore e amministratore presso casate nobiliari, prolifico letterato e compositore dilettante. Ben inseriti nel tessuto intellettuale e aristocratico cittadino, gli Unger contavano nella propria cerchia artisti quali la poetessa Caroline Pichler (madrina di Carolina) e Franz Schubert.
Allieva al Zivil-Pensionat imperiale di Vienna, dove studiò tedesco, francese e italiano, Unger fu presto introdotta all’arte musicale. I biografi citano fra i suoi insegnanti celebrità quali Antonio Salieri, Franz Xaver Wolfgang Mozart per il pianoforte, il soprano Aloysia Weber-Lange (la cognata di Wolfgang Amadé Mozart), il baritono Johann Michael Vogl e il tenore Domenico Ronconi per il canto; ella indicò però Giuseppe Mozatti, rinomato maestro veneziano attivo a Vienna, come primo responsabile della sua formazione vocale (Allgemeine Wiener Musik-Zeitung, 21 settembre 1843, p. 476). In gioventù fece parte di varie società musicali, il che le permise di avvicinare il repertorio sacro e profano del Settecento italiano e tedesco; nel biennio 1819-1820 si esibì da solista in accademie, cimentandosi specialmente in brani d’opera italiani.
All’inizio del 1821 entrò nella compagnia della Hofoper di Vienna, e il 24 febbraio esordì al teatro di Porta Carinzia in una versione tedesca di Così fan tutte di Mozart (nella parte di Dorabella, preparata da Schubert). La sua presenza in quel teatro diventò stabile nel successivo triennio, sotto l’impresa di Domenico Barbaja: cantò in una quarantina di opere italiane e tedesche, perlopiù in parti di comprimaria nel registro di contralto o mezzosoprano. Oltre che nei debutti di Libussa di Konradin Kreutzer (1822), Abufar di Michele Carafa (1823), e Il podestà di Burgos di Saverio Mercadante (1824), fu coinvolta nella cosiddetta “febbre” dei melomani viennesi per Gioachino Rossini, del quale cantò una quindicina di titoli: fra gli altri, in maggio-luglio 1822, presente l’autore, Corradino (ossia Matilde di Shabran), Elisabetta, regina d’Inghilterra e La gazza ladra come comprimaria; ma in agosto fu applaudita nel ruolo eponimo del Tancredi (in versione tedesca), per la capacità di conciliare proprietà vocale e intelligenza scenica (al periodo viennese risalgono studi di mimica e declamazione con l’attore Adolph Duprée). Da allora le opere di Rossini occuparono sempre un posto di rilievo nel suo repertorio.
A riprova di una precoce maturità artistica, appena ventenne fu scelta da Ludwig van Beethoven come prima interprete delle parti di contralto nella Nona sinfonia e di estratti della Missa solemnis (Porta Carinzia, 7 maggio 1824).
La reputazione guadagnata in patria le spianò la strada alla carriera italiana, agli inizi della quale risale l’aggiunta della h nel cognome. Nella primavera 1825 Barbaja la ingaggiò per i teatri reali di Napoli. Fino all’estate 1827 si esibì con fortuna crescente in oltre trenta titoli: al San Carlo cantò perlopiù da seconda donna in opere serie (fu accanto a Giuditta Pasta in Medea in Corinto di Johann Simon Mayr e nella prima di Niobe di Giovanni Pacini); al Fondo, da prima donna in un repertorio buffo e semiserio farcito di primizie (fra di esse Il borgomastro di Saardam di Gaetano Donizetti, 1827). Ancora con Barbaja, dal successivo dicembre a febbraio 1829 fu alla Scala di Milano. Nel genere serio, oltre a tenere ruoli primari en travesti scritti per lei nel 1828 da Carlo Coccia (L’orfano della selva) e Pacini (I cavalieri di Valenza), partecipò al varo della Straniera di Vincenzo Bellini nella parte di Isoletta (1829); ma primeggiò soprattutto nel genere buffo, tanto da essere giudicata «più che alla tragedia, alla commedia […] destinata dalla natura» (Il censore universale dei teatri, 4 marzo 1829, p. 69).
Nel corso del successivo biennio, fitto di ingaggi stagionali (a Milano, Roma, Torino, Trieste), Unger maturò un’evoluzione decisiva per la carriera, orientandosi man mano, nel genere serio, verso ruoli di prima donna. Apprezzata per mordente drammatico come protagonista nella lacrimevole Agnese di Ferdinando Paer (Torino, teatro d’Angennes, 1829) e nelle rossiniane L’assedio di Corinto (Trieste, Grande, 1829) e Bianca e Falliero (Roma, Valle, 1830), a sancire il suo nuovo status di eroina tragica furono i ruoli belliniani di Alaide nella Straniera e di Imogene nel Pirata, impersonati per la prima volta al Grande di Trieste nel 1831 e presto divenuti suoi cavalli di battaglia.
Secondo i commentatori coevi, la sua voce di «mezzo-soprano» (L’eco, 14 aprile 1828, p. 180) «partecipa del soprano e del contralto» (I teatri. Giornale drammatico, musicale e coreografico, I/1, 1827, p. 212); eccellente nelle tessiture medie, risultava spesso aspra in quelle più elevate: nei passaggi che richiedevano emissioni energiche gli acuti avevano «quelque chose de forcé, d’étranglé» (Revue musicale, 12 ottobre 1833, p. 292). Nel 1827 Nicola Vaccaj definì la sua voce «piccolissima» (Il carteggio personale, 2008, I, p. 686); Stendhal, che la sentì a Trieste, trovò che «elle manque de douceur et de velouté. Par conséquent, le plaisir manque à l’appel» (lettera del 24 febbraio 1831 ad Adolphe de Mareste; in Correspondance générale, IV, Paris 1999, p. 43). Secondo prassi, per domare parti che le erano disagevoli fece spesso ricorso a trasposizioni di tono, a puntature (ossia a piccoli, mirati ritocchi melodici) e al rimpiazzo d’interi brani con pezzi vuoi tratti dal repertorio, vuoi confezionati su misura dagli autori. A dispetto dei limiti naturali della voce, pare fosse dotata di un’inusitata espressività interpretativa, sia musicale sia scenica, che le permetteva di restituire con naturalezza una ricca gamma di sfumature drammatiche (agevolata in questo dalla perfetta dizione italiana), dimostrandosi soprattutto «inarrivabile» nella manifestazione di «passioni esagerate» (lettera di Girolamo Viezzoli a Vaccaj, 24 ottobre 1838, in Il carteggio personale, I, p. 957). «Souverainement intelligente, elle comprend et joue ses rôles, non pas tels qu’elle les trouve tracés, mais tels qu’ils devraient l’être»: così Franz Liszt, che la definì «une des plus grandes actrices, une des plus parfaites cantatrices qui aient jamais paru au théâtre» (L’artiste, 11 agosto 1839, p. 256). Fra i maggiori autori italiani che scrissero per lei, Bellini si disse convinto che ella non potesse «cantare il soprano affatto affatto» ed equiparò le sue note acute a «stilettate» (Bellini. Carteggi, 2017, pp. 408, 379); di contro, chi perseguiva una drammaturgia patetica costruita su contrasti accesi, come Donizetti e Mercadante, trovò in lei un’interprete d’eccezione, promotrice – con sodali quali i tenori Domenico Cosselli e Napoleone Moriani e il baritono Giorgio Ronconi – di uno stile improntato a un veemente realismo di matrice romantica.
In breve Unger ascese nel pantheon delle prime donne più rinomate e meglio remunerate d’Italia, agevolata dalla collaborazione con Alessandro Lanari, il “Napoleone degli impresari”, che fino al termine della carriera le procurò ingaggi in teatri di prima sfera accanto ai migliori cantanti del momento. Fra il 1831 e il 1833 fu a Bologna, Firenze, Genova, Lucca, Padova, Roma, Senigallia e Torino, debuttando con successo in opere di Mercadante (I normanni a Parigi, Gabriella di Vergi), Pacini (L’ultimo giorno di Pompei) e soprattutto Donizetti, del quale, oltre a cantare Anna Bolena, Gli esiliati in Siberia (revisionata ad hoc dall’autore; Roma, Valle, 1832) e I pazzi per progetto, tenne a battesimo Parisina (Firenze, Pergola, 1833), che le valse poi ripetuti trionfi. Secondo Lanari, proprio nei ruoli donizettiani di Bolena e Parisina si trovava incarnato il tipo di vocalità ideale di Unger (lettera a Vaccaj, 26 ottobre 1838, in Il carteggio personale, II, p. 622).
Dall’ottobre 1833 al marzo 1834 fu al Théâtre-Italien di Parigi, di cui era allora ufficiosamente direttore artistico Rossini: si distinse in allestimenti (curati da Bellini stesso) del Pirata, della Straniera e dei Capuleti e i Montecchi, nel debutto locale di Gianni di Calais di Donizetti (rinfrescata dall’autore), nel Don Giovanni di Mozart (come Zerlina), e tornò di quando in quando a ruoli en travesti (fu Malcolm nella Donna del lago di Rossini e Romeo nei citati Capuleti di Bellini). Incensate dalla stampa, le sue interpretazioni impetuose lasciarono però fredda la frangia più tradizionalista del pubblico locale.
Dalla primavera 1834 riprese il fortunato pellegrinaggio artistico nei teatri d’Italia; nell’arco di cinque anni si esibì ad Ancona, Firenze, Livorno, Lucca, Modena, Napoli, Palermo, Parma, Reggio nell’Emilia, Roma, Senigallia, Trieste, Venezia. In quel periodo aggiunse al proprio ‘baule’ di prima donna titoli, fra gli altri, di Bellini (Norma e Beatrice di Tenda), Pacini (Alessandro nelle Indie), Giuseppe Persiani (Ines de Castro), Rossini (Otello), Vaccaj (prima della Sposa di Messina, Venezia, Fenice, 1839) e Mercadante: di quest’ultimo, oltre a cantare Uggero il danese e Il giuramento, tenne trionfalmente a battesimo, assieme a Eugenia Tadolini, Le due illustri rivali (Venezia, Fenice, 1838). Suo autore d’elezione si confermò però Donizetti: partecipò al varo di Belisario e di Maria de Rudenz (Venezia, Fenice, 1836 e 1838) – le tormentate protagoniste di queste due opere furono disegnate a misura delle sue qualità d’interprete –, cantò con successo nel primo allestimento italiano di Marino Faliero (Firenze, Alfieri, 1836) e fu acclamata in Maria Stuarda, Lucia di Lammermoor, Roberto Devereux e Lucrezia Borgia.
Con quest’ultimo titolo strappò l’applauso al teatro di Porta Carinzia, dove si esibì in primavera 1839 («non è la Lucrezia di Donizetti, è la Lucrezia dell’Ungher» scrisse un cronista: Trionfi melodrammatici, p. 12): in quella circostanza fu nominata Cantante di camera dell’imperatore Ferdinando I. In estate cantò all’Opera di Corte di Dresda, diretta da Francesco Morlacchi. Il biennio successivo fu denso di successi a Firenze, Lucca, Roma (all’Apollo, nel 1839, partecipò alla prima di Furio Camillo di Pacini), Trieste, Verona e ancora a Vienna; furono però frequenti i forfaits, indizi forse di un incipiente declino vocale.
Dopo sfortunate relazioni amorose con Alexandre Dumas padre e Nikolaus Lenau, il 18 marzo 1841 sposò François Sabatier, ricco critico d’arte e mecenate francese. Il matrimonio fu celebrato a Firenze, dove nel 1836 Unger aveva preso dimora e l’anno dopo era stata nominata Cantante di camera e di corte dal granduca Leopoldo II. Assolto in estate l’impegno per una stagione a Dresda, si ritirò definitivamente dai palcoscenici: in una carriera ventennale aveva cantato oltre cento diversi titoli, dei quali almeno ventisei in prima esecuzione assoluta (elenco parziale in Kopitz, 2012). Continuò a dare concerti pubblici e privati almeno fino al 1847: degne di nota le esibizioni, nel 1842, nel quart’atto degli Huguenots di Giacomo Meyerbeer a Berlino, in casa della madre del compositore, e nella prima esecuzione pubblica dello Stabat mater di Rossini a Firenze. In seguito si dedicò con profitto all’insegnamento del canto – collaborò tra l’altro alla preparazione del primo allestimento italiano del Profeta di Meyerbeer (Firenze, Pergola, 1852) – e, per diletto, alla composizione.
Attorniati da una vivace cerchia di intellettuali e artisti, i coniugi Sabatier-Unger vissero a Firenze, concedendosi frequenti soggiorni oltralpe (specie in Francia). Senza prole, alla morte del pittore Auguste Bouquet, nel 1846, ne adottarono la figlia Louise, che nel 1865 sposò lo storico e politico Michele Amari.
Morì a Firenze il 23 marzo 1877.
Tra i tanti scritti encomiastici di cui fu omaggiata da letterati eminenti (Jacopo Ferretti e Pietro Giordani fra gli altri), celebre è rimasto il motto «fuoco del sud, energia del nord, petto di bronzo, voce d’argento, talento d’oro» che, secondo tradizione, le avrebbe tributato Rossini. Esso fu trascritto per la prima volta (in francese) da Girolamo Alessandro Biaggi, che sosteneva di averlo raccolto dalla viva voce del compositore nel 1860 (Carolina Ungher-Sabatier, in La nazione, 27 marzo 1877; poi in Gazzetta musicale di Milano, 1° aprile 1877). La formula nacque però certamente dall’assemblaggio di passi attinti da un articolo tedesco dell’agosto 1837 (H., Zwölf erste Sängerinnen Italiens, in Echo: Zeitschrift für Literatur, Kunst und Mode in Italien, V, pp. 81 s.), subito tradotto in francese (Le temps, 13 dicembre 1837; Le ménestrel, 17 dicembre 1837): in realtà, se in origine le due metafore geografiche erano effettivamente rivolte a Unger, le tre metallurgiche erano state coniate per il soprano Sofia Dall’Occa Schoberlechner.
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