GRIFONI, Ugolino
Nacque nel 1504 da Iacopo, appartenente a una famiglia di notabili di San Miniato al Tedesco presso Pisa, e da Apollonia di Franco Poschi da Pescia.
Il padre fu provveditore dei Consoli del mare e della Gabella di Pisa, e oltre al G., ebbe altri sei figli: Francesco, Cosimo, Caterina, Michele, Nanna e Carlo. Il fratello di Iacopo, Andrea fu cameriere segreto ed elemosiniere al servizio dei papi Leone X e Clemente VII: ricoprì vari incarichi nello Stato della Chiesa; nel 1519 fu arciprete di Colle (probabilmente Collevaldelsa). Dei fratelli del G., Carlo fu capitano della guardia di una delle porte di Pisa durante il governo di Alessandro de' Medici, Francesco fu chierico, anch'egli arciprete di Colle e pievano di S. Maria Piscatoria, canonico fiorentino, ma anche, in gioventù, capitano di San Miniato al Tedesco. La condizione patrimoniale della famiglia era buona: i Grifoni possedevano beni nel piano di Livorno, tenuti a livello dalle monache di S. Bernardo di Pisa, e terreni nella tenuta di S. Lorenzo di Pisa loro allivellati dal locale ospedale Nuovo.
Nel 1536 il G. era a Roma, forse affinché lo zio Andrea gli fornisse un'educazione adeguata e lo introducesse in Curia, o forse perché inviato dal duca Alessandro per riallacciare i rapporti con alcuni fuorusciti. In questo periodo entrò forse in contatto con F. Guicciardini ed ebbe rapporti epistolari con l'esule Baccio Valori. A Firenze il G. occupò l'ufficio di copista nella curia arcivescovile; in data imprecisata, ma anteriore al 28 febbr. 1546, prese l'abito agostiniano, appartenenza rivendicata con compiacimento per tutta la vita. Copista e chierico, il G. dovette le proprie fortune tanto alla carriera ecclesiastica quanto ai servizi prestati per i Medici all'indomani della caduta della Repubblica. Entrato nell'entourage del duca Alessandro come segretario, tenne l'ufficio insieme con Francesco Campana e ricoprì anche l'importante carica di cancelliere delle Riformagioni. Dopo l'avvento di Cosimo, nel 1540, il G. figura ancora con mansioni di segretario, affiancato, in posizione subordinata (con la non cospicua retribuzione di 5 scudi), a Pierfrancesco Riccio e Pirro Musefilo, a un messer "Vincenzio da Volterra" e a Pasquino Bertini, segretario particolare di Maria Salviati. Sembra che il G. avesse ben presto conquistato la simpatia di quest'ultima, che lo reputava servitore fedelissimo, anche se ben attento ai suoi interessi, affibbiandogli forse proprio per questo il nomignolo di "ser Ramazzotto" (Varchi, p. 334). Nell'immediato, vantaggi economici senz'altro maggiori arrivavano al G. dai suoi numerosi possedimenti terrieri ubicati tra la Val d'Elsa e il territorio di Pisa, e dai benefici ecclesiastici che deteneva.
Fin dal 1526 aveva preso in affitto dal fratello Michele tre poderi estesi per 234 stiora (circa 12 ettari). Ben più cospicue sono le proprietà ecclesiastiche amministrate: fu pievano di S. Giovanni Battista a San Gervasio in Val d'Era (1543) rettore di S. Lucia a Cusignano e di S. Michele a Caselle (nella diocesi di San Miniato) nel 1530, di S. Salvatore di Castelnuovo, sempre presso San Miniato, nonché rettore della chiesa di S. Michele in Cecina, di S. Piero alle Capanne, di S. Andrea e S. Maria a Busseto e, infine, di S. Bartolomo a Marti, sempre nel Pisano. Al G. pertinevano anche i terreni di Valtriano, fattoria dell'abbazia di S. Paolo a Ripa d'Arno presso Pisa, beneficio di cui egli era abate e che nel 1565 fu da lui eretto in commenda dell'Ordine di S. Stefano.
Quest'ampio bagaglio di beni e istituti patrimoniali fu coronato con il prestigioso titolo di maestro generale dell'Ospedale di S. Iacopo d'Altopascio (1541), carica in cui il G. succedeva a Giovanni Capponi per essere poi, dal 1552, affiancato dai cardinali Giovanni e poi Ferdinando de' Medici. A questo titolo il G. arrivò esclusivamente grazie a Cosimo I, che lo appoggiò sia per impedire che la ricca prebenda cadesse nelle mani del cardinale A. Farnese, il quale protestava che il beneficio fosse di collazione papale, sia per ridimensionare l'antica famiglia dei Capponi, che per tradizione detenevano il beneficio dell'Altopascio e ai quali fu riconosciuta una pensione sull'ospedale. Prima della soluzione della controversia il G. si guadagnò comunque ben due scomuniche da parte di Paolo III, con la conseguenza di venire effigiato "in un cedolone in mezzo ai diavoli" e sotto questo sembiante appeso alle porte di S. Pietro.
Con Cosimo I il G. fu in grande dimestichezza se, come sembra, mosso dal suo consiglio, il duca si dispose alla creazione del nuovo Ordine di S. Stefano, e concesse al G. il privilegio di inserire nell'arma della famiglia alcune variazioni araldiche (probabilmente le palle medicee). Il G. trascorrerà tutta la vita al servizio di Cosimo, che lo affiancò con fiducia ai propri stessi figli, specie in quelle circostanze che richiedevano la presenza di un personaggio esperto del mondo delle corti. La persona del G. si dimostrò allora preziosa per il suo spirito di osservazione e per la sua dimestichezza con i cerimoniali, sia quello religioso sia quello costituito dall'etichetta della corte di Roma: un complesso di norme e attenzioni da lui apprese in gioventù, di cui invece i Medici, e Cosimo I in particolare, avevano scarsa conoscenza e una certa soggezione.
Come maestro generale dell'ospedale dell'Altopascio, il G. consolidò le fortune della propria famiglia, usando in maniera disinvolta e nient'affatto limpida entrate e possedimenti dell'ospedale, come rivelerà la causa che dopo la sua morte il cardinale Ferdinando de' Medici intentò nel 1577 ai suoi eredi. Sembra però che al G. si debba il risanamento delle entrate dell'Altopascio dopo la gestione Capponi. Con la rendita di 6000 scudi che gli veniva dall'ospedale il G. iniziò una politica di nuovi acquisti fondiari, basata sia su terreni e palazzi, sia sui ben più remunerativi mulini e fornaci. Nel 1571 ulteriori entrate furono riconosciute al G. con la soluzione di una lunga causa, iniziata forse già nel 1559, relativa all'usurpazione di diritti di certi beni dell'Ordine da parte della Comunità di Volterra. Nella vertenza il G. era stato difeso da personaggi di spicco dell'entourage cosimiano, quali Belisario Vinta e Francesco Guidi. A completamento di questa strategia patrimoniale il G. fondò due commende nell'altro Ordine esistente nel Ducato, quello militare di S. Stefano: nel 1563 la commenda Grifona, di cui fece commendatore il nipote Cosimo, costituita con un monte di denaro collocato sul Monte Giulio di Bologna; e la Grifona seconda, istituita due anni dopo per mezzo della rinunzia dell'abbazia di S. Paolo a Ripa d'Arno, di cui primo commendatore fu il fratello Michele. Il palazzo di famiglia che si affaccia sulla fiorentina piazza della Ss. Annunziata e su via dei Servi, costruito da B. Ammannati probabilmente nel 1556 o nel 1557 su disegno di B. Buontalenti (che forse utilizzò precedenti disegni di Michelangelo), divenne il simbolo della posizione raggiunta dalla famiglia e duplicò quello esistente a San Miniato, opera di Giuliano di Baccio d'Agnolo (Vasari, V, p. 355).
Fino al 1560 il G. risiedette tra Pisa e Lucca sui possedimenti dell'ospedale, per spostarsi nei mesi invernali a Firenze. La fiducia che si riponeva nel G. fece sì che egli divenisse l'accompagnatore prescelto per affiancare i figli di Cosimo e, di conseguenza, il cronista deputato a rendere conto al padre di ogni loro azione. Questo tipo di mansione si era venuta delineando fin dal dicembre 1548, quando, insieme con l'allora fanciullo Francesco, il G. fu a Genova con la delegazione inviata da Cosimo a omaggiare l'imperatore Carlo V di passaggio in Italia. Nel febbraio-marzo 1560 fu a fianco della sorella di Francesco, Lucrezia, allorché essa si recò a Ferrara per sposare Alfonso II d'Este e nell'occasione tenne con Firenze una corrispondenza che fornisce resoconti precisi e anche un po' leziosi delle giornate della principessa e del suo seguito.
La sua funzione di attento relatore diventò ancor più evidente e preziosa con la nomina a cardinale di Giovanni de' Medici, che egli seguì a Roma nel marzo del 1560 nel viaggio per prendere il cappello e che affiancò fino alla prematura morte nel 1562. Il ruolo del G. nella corte del cardinale non corrispondeva allora a una mansione precisa. Non ricopriva né l'ufficio di maestro di casa o di camera, cui erano preposti rispettivamente Alessandro Valenti e Averardo de' Medici, né quello di segretario, spettante a Bernardo Giusti da Colle. La sua funzione si configurò piuttosto come quella di supervisore della familia: i ruoli ne ricordano soltanto la generica qualifica di prelato (insieme con Alessandro Strozzi), con l'unico compito esplicito di sovrintendere, sfruttandone evidentemente la venalità, a tutti benefici del cardinal Giovanni.
La presenza di un figlio tra i porporati rappresentava per Cosimo una conquista fortemente voluta ma, al contempo, anche una situazione delicata, dato che gli interessi e il prestigio del duca potevano anche essere colpiti attraverso la ben più indifesa figura del principe cardinale. Questo clima di timori e la conseguente esigenza di controlli serrati da parte di Cosimo, ebbero l'effetto di generare una fitta corrispondenza tra gli agenti romani del duca e Firenze, in cui i resoconti del G. appaiono i più ricchi e informati sulla persona del cardinale. Le sue descrizioni della corte di Roma, del cerimoniale e del ménage della famiglia del Medici sono di eccezionale rilevanza documentaria. Il G. registra la volontà di Pio IV che Giovanni segua nella sua prima venuta un basso profilo, rifiutando gli inviti ai banchetti offerti dai cardinali Cristoforo Madruzzo e Alessandro Farnese. Nonostante rifiuti questi inviti, il G. ci informa però che Giovanni sostiene in casa l'impegnativa compagnia di venticinque o trenta vescovi che ne onorano la tavola. Quando poi il cardinale si reca al concistoro, un adeguato seguito gli è offerto dai prelati del cardinale Ascanio Sforza di Santa Fiora, che il G. si lamenta di non poter ospitare allorché il cardinale ritorna dal sacro sinodo. Nelle missive del G., redatte con frequenza bigiornaliera, figura spesso un leitmotiv dell'esperienza romana dei porporati de' Medici: l'incapacità degli amministratori della familia di far fronte alle spese richieste dal decoro o dal lusso della corte di Roma. Oltre all'attenzione riservata alla gestione finanziaria della corte, quello che sembra stare a cuore ai Medici è l'attenzione a curare le clientele, sia allo scopo in prospettiva di guadagnarsi in un prossimo conclave voti utili per l'esclusione del cardinale Farnese, sia, nell'immediato, per ottenere migliori e più numerosi benefici ecclesiastici nella persona di Giovanni. Per ciò che invece riguarda "l'istitutione" della vita del giovane, divenuto cardinale durante gli ultimi anni del Tridentino, il G. si preoccupa che essa sia improntata da moderazione e cautela, così come richiesto per varie ragioni dal padre e soprattutto da Pio IV. Sappiamo pertanto che Giovanni rifuggiva da situazioni di eccessiva mondanità e, accompagnato dal cardinale Ascanio di Santa Fiora, assolveva diligentemente le incombenze imposte dal cerimoniale della corte di Roma. Dopo la cronaca delle settimane del carnevale, trascorse assistendo anche a rappresentazioni della commedia dell'arte, nel maggio del 1560 le notizie ricorrenti diventano quelle dei malanni del cardinale Giovanni, sofferente probabilmente di gotta.
Le lettere del G. durante la residenza a Roma ci informano che in questo periodo egli non disdegnava di portare avanti i propri interessi, cercando di ottenere l'ufficio di tesoriere papale per l'onerosa somma di 24.000 scudi. L'acquisto tuttavia non andò a buon fine, sia perché Cosimo si rifiutò di accondiscendere al prestito di 15.000 scudi richiesto dal G. alla Depositeria medicea, sia, soprattutto, perché il pontefice dichiarò di preferire in quella sede "un genovese" o comunque "una persona più pratica della corte di Roma". Dopo aver partecipato e zelantemente descritto quel complesso mondo di "cardinalarie", come lui stesso le definisce, nell'agosto del 1560 il G. e la corte di Giovanni erano di nuovo in Toscana. Sempre nell'agosto 1560 il G. visitò nuovamente i possedimenti dell'ospedale per verificarne l'amministrazione e la "giurisdizione".
Tornato nuovamente a Firenze nel settembre, in una lettera a Cosimo I ci consegna un'insolita e assai più meditata e interessante riflessione sul pontefice Pio IV. Ne emerge il profilo di un uomo debole e incerto, infastidito dalle materie affrontate durante il concilio, cui sembra spinto più dalle pressione di Filippo II, del re di Francia e dell'imperatore, che da una libera e personale volontà. Ogni sua preoccupazione andrebbe invece alla "conditione de' parentadi" per i propri familiari, piuttosto che agli interessi della Chiesa universale, preoccupazioni queste che invece lo innervosivano a tal punto da renderlo irritabile e ostile verso chi malauguratamente si trovasse a visitarlo in quei momenti. Per il tono e il soggetto trattato la missiva risulta abbastanza singolare in una corrispondenza a chiare lettere modulata su registri puramente descrittivi e strettamente afferenti la persona del cardinale Giovanni, non necessariamente focalizzata sulle "cose del modo", cioè su quelle questioni di politica nazionale e internazionale espressamente ritenute appannaggio dei secretari.
Nella primavera del 1561 il G. appare interessato all'amministrazione dei possedimenti dell'Ospedale situati in territorio francese, in particolare quelli di Parigi. Dalla commenda di S. Iacopo situata fuori della città, si preoccupa che venga riscosso il censo di 100 scudi e 1 ghinea per mezzo del procuratore Filippo di Dato (aprile 1561). Nell'agosto del 1561 cerca di ottenere l'appoggio di Cosimo per l'arcivescovato di Napoli, allettando, invano, il duca con la prospettiva di un regresso che sarebbe spettato al cardinale Giovanni. Le lettere del 1562 continuano inoltre a testimoniare la vicinanza del G. alla famiglia e ai figli del duca, in particolare a donna Isabella il cui soggiorno estivo nella zona di Vallombrosa viene descritto quasi come si trattasse di un'autentica adorazione riservata dai Casentinesi alla figura della principessa. Un'estrema dimestichezza appare anche con i segretari Bartolomeo Concini e Iacopo Guidi da Volterra.
Dopo la morte del cardinale Giovanni nell'ottobre del 1562, le notizie sul G. diventano più sporadiche così come le sue lettere. Sappiamo che nel 1565 inoltrò una supplica al duca affinché al cavalier Cosimo Grifoni suo nipote e ad altri cavalieri di S. Stefano fosse data licenza di unirsi ai Veneziani nella guerra contro i Turchi; richiesta soddisfatta da Cosimo I. In questo periodo il G. risiedette probabilmente nei possedimenti dell'Altopascio, oppure a Pisa, come attesterebbe una lettera a Bartolomeo Concini del maggio 1566. Tornò nuovamente a Roma per accompagnare Ferdinando, l'altro figlio di Cosimo insignito della porpora, che risiedette con continuità nell'Urbe dal gennaio 1569. Il G. era allora vicino ai settant'anni, di cui quaranta trascorsi come devoto servitore dei Medici. Il duca Cosimo ce lo descrive come uomo assalito ormai da molteplici acciacchi ("vecchio et molto catarosso da esser soffocato in un subito"). La precaria salute non toglieva tuttavia vigore alla cura dei suoi interessi. Una volta a Roma suo primo pensiero fu quello di garantirsi la percentuale più alta possibile dei frutti dell'Altopascio nell'atto di rinunzia da lui fatto dello stesso beneficio nella persona del cardinale Ferdinando. Mobilitando addirittura i cardinali M. Altemps e C. Borromeo, nipoti del defunto Pio IV, e l'ex cardinale datario F. Alciati, ottenne la riserva di tutti i frutti, quando secondo le intenzioni di Pio V a Ferdinando sarebbero dovuti spettare almeno i 2/3. I Medici d'altronde, ponendo il G. a fianco di Ferdinando, intendevano ricompensare una lunga fedeltà, ben consapevoli che a Roma egli avrebbe avuto agio di curare i suoi tanti interessi e amicizie. Oltre alla riserva dei frutti, fin dai primi mesi del 1569 il G. si preoccupò di ottenere un canonicato del duomo di Firenze nella persona del nipote Giovambattista Ansaldi.
Per quello che riguarda più da vicino la sua funzione istituzionale, il compito del G. consisteva nel vigilare che la familia cardinalizia fosse ben amministrata. Anche accanto a Ferdinando, come era successo con Giovanni, il G., almeno in base ai ruoli di corte, non rivestiva un ruolo preciso; non era infatti né maestro di casa (Clemente Pietra e Averardo Serristori), né precettore (Antonio Angeli, fratello del più celebre Pietro detto Bargeo), né cameriere del cardinale (Bartolomeo Giugni, futuro arcivescovo di Pisa), né tanto meno segretario (Pietro Usimbardi). Rappresentava semmai una figura collocabile quasi esternamente alla familia, cui spettava soprattutto informare il duca e il principe Francesco sul succedersi delle occorrenze quotidiane del cardinale e del suo gruppo. I frequenti e minuziosi resoconti del G. tenevano informati il padre e il fratello di come Ferdinando trascorresse le giornate romane partecipando alla vita devozionale e svolgendo in prima persona - con evidente perizia a detta del G. - i compiti di prelato e di amministratore dello Stato della Chiesa che tanto premevano al papa Ghislieri. Il G. avrebbe inoltre contribuito a incoraggiare il gusto del giovane per le arti e l'orticoltura.
A Roma il G. abitava in un palazzo diverso da quello del cardinale, palazzo Cardelli detto "palazzo di Firenze", dove manteneva soltanto una scomoda stanza situata a capo di scale, lamentandosi di non riuscire a dormire per il continuo viavai di prelati e dignitari che si protraeva fino a tarda ora. Viveva a proprie spese, tranne il mattino, quando usufruiva della tavola di Ferdinando, alla cui persona certificava di dedicarsi dalle due del pomeriggio alle undici di sera.
Il G. sembra in effetti essere continuamente a fianco del cardinale, preparandolo e osservandolo con attenzione nelle liturgie in cui come cardinale diacono assisteva lo stesso Pio V. Seguiva anche il giovane porporato nelle occasioni mondane, nonché quando egli si ritirava privatamente nel suo palazzo. Talvolta l'anziano frate agostiniano appariva anche nelle più giovanili vesti del compagno di giochi di Ferdinando; sappiamo di alcune partite al "gioco del castello", in cui il G. perde in due giorni 200 scudi, dandosi premura di informare Firenze che tale esito per lui non aveva certo un gran peso.
Compito rilevante tra quelli affidatigli consisteva nell'organizzare le cene e i ritrovi che si tenevano alla villa del Popolo, occasioni in cui preparava i regali degli ospiti e sceglieva vini e cibi anche per i gusti più difficili. Anche per la tipologia delle mansioni svolte, l'impressione è che attraverso le mani del G. passassero molti dei denari che da Firenze venivano destinati all'onerosa corte cardinalizia, e non è azzardato supporre che tra gli indiziati di speculazioni sugli approvvigionamenti alimentari, di cui i Medici sembravano essere quasi certi, potesse figurare anche il suo nome.
È senz'altro vero, comunque, che quando il cardinale Ferdinando decise di impiantare nuove coltivazioni sui terreni della villa suburbana (la "vigna del Popolo"), la manodopera così come altri lavori vennero pagati con i soldi del Grifoni. Tale spesa era certo compensata dai tanti vantaggi offerti dalla presenza a Roma, e non è neppure escluso che si trattasse di denari prestati oculatamente. Comunque il G. si offrì di partecipare per metà anche alle spese per gli scavi archeologici tanto amati dal cardinale, lamentandosi allo stesso tempo che il peso effettivo di quei nobili svaghi sarebbe ricaduto sulle sue spalle.
Non siamo in grado di decifrare completamente i meccanismi di così esibita generosità, se di generosità si tratta. Resta il fatto che nel corso degli anni il cardinale Ferdinando deve avere progressivamente verificato come dietro il sembiante della devota e un po' lamentosa servitù del G. esistesse una realtà molto più intesa all'interesse personale. Nel 1576, in occasione di una contestazione inoltrata dal cardinale agli eredi del G. in merito a certi beni da lui acquistati in maniera tutt'altro che limpida, un procuratore del cardinale lo descrisse a chiare lettere agli Ufficiali di San Miniato come un uomo che aveva accumulato spregiudicatamente beni e denari con ogni mezzo per sé e per i parenti, utilizzando fette consistenti di queste sostanze per dotare le nipoti e nobilitare ulteriormente il proprio casato.
Dopo il primo anno di residenza del cardinale a Roma, in particolare dalla fine del 1570 all'inizio del 1571, la presenza del G. accanto a lui si fa meno costante. Da allora lo troviamo infatti prevalentemente in Toscana, tra la corte di Firenze, in compagnia di donna Isabella e di Giovanna d'Austria, e i suoi possedimenti dell'Altopascio, di Fucecchio e di Pisa. In questi mesi le sue preoccupazioni furono rivolte soprattutto a rintracciare il nipote Cosimo Grifoni, caduto prigioniero dei Turchi, contattando numerosi ambasciatori a Gerusalemme.
Il G. terminò la sua lunga vita, tutta segnata dalla fedeltà ai Medici, a Firenze il 1° dic. 1576.
Le sue spoglie, a detta del Rondoni, furono trasportate da Firenze alla chiesa di S. Domenico a San Miniato. Un ritratto del G., dipinto da Scipione Pulzone, è riprodotto in Coturri (1987).
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