TRUST.
– Caratteristiche del rapporto fiduciario. Trust e rilevanza giuridica della fiducia. La formazione e i caratteri del trust nella giurisdizione di equity. Il trust e l’ordinamento italiano. Bibliografia
Caratteristiche del rapporto fiduciario. – Istituto giuridico tra i più caratteristici del mondo anglosassone di common law, e certamente una delle manifestazioni emblematiche della distinzione che si è soliti tracciare, nella tradizione di studi del diritto comparato, con gli ordinamenti di civil law (genericamente riferibili all’ambito europeo continentale), il t. o, se si preferisce, il diritto dei t. (nell’espressione comune in area anglo-americana, law of trusts), rappresenta il compimento di un lungo percorso storico che, in quell’ambiente giuridico (in particolare, in Inghilterra), è servito a confezionare la veste normativa per uno dei problemi più spinosi in qualsiasi ambito e ambiente giuridico: la rilevanza e la disciplina dei vincoli instaurati e retti dalla fiducia, dal duplice punto di vista, a) interno al rapporto tra fiduciante e fiduciario, e b) esterno a costoro, ossia dal punto di vista dei soggetti terzi.
Una necessaria premessa attiene alla netta distinzione tra i significati del termine trust, nel duplice ambito in cui esso è comunemente impiegato, ossia con riferimento a) alla legislazione cd. antitrust (v.), finalizzata a impedire la distorsione della concorrenza, potenzialmente derivante da accordi (detti di ‘cartello’) tra imprese influenti sul mercato e b) ai rapporti di tipo, si diceva, in senso lato fiduciario tra soggetti interessati alla gestione di beni funzionale alla realizzazione di interessi del costituente e del beneficiario del trust.
Dovendoci occupare soltanto di questa vicenda, va chiarito sempre in esordio che, nella prospettiva del diritto civile, il rapporto di fiducia comporta l’attribuzione di un diritto a un soggetto (detto fiduciario) finalizzato alla (ma anche delimitato, dalla) cura di un interesse altrui (detto fiduciante o anche beneficiario). Potrebbe peraltro accadere che la titolarità (del bene, funzionale alla realizzazione dell’interesse altrui attraverso la gestione fiduciaria) non venga trasferita, sicché il titolare rimane tale, ma cambia abito giuridico, per così dire, diventando, proprio per effetto del rapporto di fiducia, fiduciario, ossia gestore del ‘suo’ bene, ma nell’interesse di altri (che si definisce fiduciante). La questione che ha sempre impegnato i giuristi è dunque quella dell’ammissibilità e, in caso positivo, delle conseguenze di una ‘dissociazione’ della proprietà, nel senso che la titolarità in senso formale non s’identificherebbe (a differenza di quanto accade nel modello tradizionale e semplificato della proprietà privata) con l’interesse all’esercizio dei diritti tipicamente riconosciuti al proprietario, che si realizzano attraverso gli atti di gestione del bene. Questi ultimi, infatti, posti in essere dal fiduciario (titolare formale) sarebbero finalizzati a determinare un’utilità nella sfera degli interessi (non già suoi, bensì) del fiduciante.
Il risultato così sinteticamente esposto appare tanto intuitivamente semplice, ove lo si consideri sul piano dei rapporti sociali ed economici, quanto complesso, ove venga collocato sul diverso piano giuridico, dovendo l’ordinamento assicurare la tutela di due interessi sostanzialmente opposti, che dunque possono facilmente entrare in conflitto: quello delle parti del rapporto fiduciario (a vedere puntualmente osservati gli obblighi nascenti dalla fiducia, alla base della detta dissociazione tra titolarità e gestione, riconducibili a due soggetti diversi) e quello dei terzi estranei a detto rapporto, per i quali rileva senz’altro la situazione giuridica esteriorizzata o, nel linguaggio giuridico, l’apparenza, dunque quella che fa capo alla titolarità formale.
Ogni ordinamento deve conseguentemente escogitare norme e discipline capaci di mediare tra questi interessi che, pur essendo entrambi meritevoli di tutela, finiranno per prevalere, di volta in volta, a seconda della sussistenza di determinati fattori (ad es., nel diritto italiano: la conoscenza o anche la conoscibilità del vincolo fiduciario da parte del terzo estraneo, ovvero la sua ignoranza, che sempre nel gergo dei giuristi e delle norme si indica come ‘buona fede’, incolpevolezza e così via).
Trust e rilevanza giuridica della fiducia. – I complessi problemi derivanti dall’intreccio tra la fiducia (quale vicenda pre- o metagiuridica) e le costruzioni giuridiche in senso stretto, concettuali e normative (come, nel nostro ordinamento, la rappresentanza, il mandato, la simulazione e così via) sono stati dai giuristi affrontati muovendo dai due modelli tradizionali di fiducia, definita rispettivamente romanistica e germanistica, in cui può esservi, alternativamente, il trasferimento della titolarità al fiduciario (nella fiducia romanistica) ovvero la sola attribuzione a costui della legittimazione a esercitare in nome proprio il diritto in questione, che rimane perciò in capo al fiduciante (nella fiducia germanistica).
La generale e pregiudiziale diffidenza con la quale si è sempre guardato, negli ordinamenti continentali (di civil law), alle operazioni economiche caratterizzate da intestazioni fiduciarie, che può trovare un fondamento nella loro frequente strumentalizzazione a fini fraudolenti (del fisco, in primo luogo, ma anche dei creditori comuni), ha determinato, per un verso, l’impossibilità di una loro fisiologica evoluzione sul piano giuridico, registrandosi interventi legislativi sporadici e contenuti intesi a regolare specifiche vicende di intestazioni fiduciarie (così da poter astrattamente controllare le situazioni di appartenenza della ricchezza di questo tipo: ad es., in materia di titoli di credito o di partecipazione societaria); per l’altro verso, la fuga verso il modello idealmente concorrente del t., ben collaudato nell’ordinamento inglese, in cui è nato e si è sviluppato con una lunga vicenda storica, che sola può far comprendere il successo conseguito negli ordinamenti di common law e, specularmente, le difficoltà nella recezione del modello in civil law. Questa storia, va chiarito, è strettamente legata a fattori tipicamente socioculturali e, in particolare, alla stessa concezione della tutela dei diritti nei rapporti tra privati maturata nella formazione del diritto inglese (esportato poi negli Stati Uniti e in ambito di Commonwealth), mentre, se si osserva la struttura generale del t., essa non sembra rendere immediatamente ragione delle differenze nel trattamento giuridico e della distanza, prima facie incolmabile, con le manifestazioni della fiducia (tanto quella romanistica, quanto quella germanistica) nei sistemi di civil law. Dal punto di vista soggettivo, infatti, si definisce settlor colui il quale decide di costituire un t. (avvicinabile pertanto al fiduciante), mentre colui al quale vengono affidati e perciò trasferiti i beni da gestire è detto trustee (dunque, il fiduciario), il quale è tenuto ad amministrare per conto altrui (lo stesso costituente o un terzo, che essendo il beneficiario di tale gestione è appunto definito beneficiary). Lo schema di base potrebbe essere ulteriormente articolato, a seconda delle esigenze avvertite dal settlor, ad es. mediante la previsione di una sorta di controllore (o anche cogestore, in particolari casi) del trustee, indicato con il termine protector.
La formazione e i caratteri del trust nella giurisdizione diequity. – L’interesse, tanto per gli studiosi di comparazione giuridica, quanto per gli operatori professionali, verso il t. s’incentra sulle forme di tutela, sviluppatesi storicamente in Inghilterra grazie alla giurisdizione di equity, alternativa e al tempo stesso complementare, rispetto a quella di common law, nata per superare il notevole formalismo – un lascito, peraltro, del diritto romano classico – delle azioni tipizzate e chiuse, che impediva alle corti (di common law) di offrire una risposta in termini di giustizia sostanziale nelle molteplici situazioni in cui il soggetto leso (il quale non disponesse, s’intende, dell’azione specifica da far valere innanzi alla corte in termini di common law) avrebbe potuto addurre ragioni di ordine etico e morale per invocare un intervento del giudice. Prese corpo così, a decorrere dal Medioevo e per opera dei cancellieri del re (che operavano in questo caso, si noti, non già secondo le regole tecniche e procedurali di common law, bensì secondo ‘la coscienza’ del sovrano), la giurisdizione di equity, di tipo essenzialmente cautelare (ossia di protezione interinale della situazione esposta a un’ingiustizia), attraverso un provvedimento immediato, nella forma normalmente di un ordine di fare o non fare (detto nel gergo anglosassone injunction) assistito da sanzione per la sua eventuale inosservanza, nei confronti della condotta fraudolenta o abusiva, rispetto alla funzione del t. e ai compiti del trustee, che si manifestava con la forma odiosa del tradimento della fiducia.
Dal punto di vista concettuale, e dunque più propriamente giuridico, la tutela di equity riusciva così a dar voce alla situazione soggettiva dell’interessato alla corretta gestione fiduciaria, che nella scissione della categoria proprietaria si definisce equitable owner, il quale non riceverebbe tutela nel rigore formale di common law, che invece riconosce la situazione di proprietary right spettante al legal owner (ossia al titolare in senso formale). La distinzione, rimasta valida, nel linguaggio dei giuristi, anche dopo che, dalla seconda metà dell’Ottocento, le giurisdizioni (di common law ed equity) vennero unificate, fa fatica a essere compresa negli ordinamenti continentali (di civil law), in quanto privi della vicenda storico-culturale cui s’è fatto cenno, sicché si comprende l’ancora scarsa dimestichezza con la figura del t., divenuta nel tempo multiforme e multifunzionale all’interno del suo mondo d’origine.
L’estrema versatilità dello strumento in ambito di common law rappresenta il volto (buono) di una medaglia che mostra sull’altra faccia (negativa) tutti i limiti, e dunque la sostanziale incapacità, degli ordinamenti di civil law nell’assimilazione della figura in quanto tale. Si tratta, infatti, di comprendere la filosofia di fondo che riconosce la massima libertà del trustee nell’attività gestoria (essendo di norma scelto quest’ultimo, nella pratica degli affari, da un lato quale professionista o manager esperto della materia in cui deve operare, mentre la stessa esperienza non avrebbe il settlor che proprio per questo costituisce il t. e vi si affida, dall’altro lato in quanto soggetto a doveri, controlli e sanzioni di natura giuridico-formale, ma anche e soprattutto deontologica, che operano in modo spesso più efficace rispetto agli obblighi giuridici generali gravanti sul comune contraente), bilanciandola con il rimedio offerto in equity (definito, ancora oggi, equitable relief) e affidandosi a un giudice che può (e deve) decidere sulle condotte abusive e fraudolente del trustee ai danni del beneficiario, senza gli ingombri formali costituiti dalle diverse norme e dagli istituti con cui, negli ordinamenti di civil law, si è cercato di razionalizzare (e controllare, con la tendenziale diffidenza cui si faceva cenno in apertura) gli affidamenti, i trasferimenti dei diritti e, più in generale, i rapporti giuridici caratterizzati dalla fiducia e dal vincolo fiduciario.
In questo senso, nel mondo anglosassone la libertà del trustee, essenziale per far funzionare l’istituto a pieno regime, senza le ingessature che deriverebbero dalle autorizzazioni e/o dagli incarichi dei singoli atti da compiere per conto altrui, benché definita e dunque delimitata nell’atto costitutivo (detto trust deed, che contiene i termini e le condizioni cui il settlor affida la realizzazione dei diritti del beneficiary), trova un significativo ed effettivo equilibrio o, se si preferisce, un bilanciamento nella tutela (a suo tempo, speciale e concorrente) in equity. Al beneficiario viene riconosciuta una posizione di preminenza anche rispetto ai terzi, ad es. agli altri creditori del trustee, proprio in virtù del rapporto fiduciario (definito fiduciary relationship), che vale così ad affrancarlo dalla condizione di (generico) creditore della prestazione contrattualmente a carico del gestore (come avverrebbe in ambito di civil law, all’interno del rapporto negoziale, a effetti meramente obbligatori, che nasce tra fiduciante e fiduciario). Il concetto che vale ad arricchire i diritti del beneficiario con questa sorta di opponibilità degli stessi (ai creditori e, almeno in parte, ai terzi aventi causa del trustee), inconcepibile negli ordinamenti continentali, ma nucleo forte del successo del t., si esprime con il termine tracing (che individua il meccanismo con il quale il vincolo segue il bene, che può essere dunque idealmente ‘rintracciato’ nelle sue successive vicende giuridiche).
La serietà riconosciuta all’impegno morale assunto dal trustee, sulla base della fiducia in lui riposta dal settlor, ha permesso così alla branca del diritto definita law of trusts di svilupparsi, grazie allo strumento giuridico del tracing, avvalendosi dei rimedi riconducibili alle tutele reali, ossia alle azioni recuperatorie (anche dette reipersecutorie), tipicamente ancillari al diritto di proprietà, che nel t. hanno a oggetto non tanto specifici e singoli beni (che pure sono all’origine, evidentemente, della costituzione del t. stesso), quanto piuttosto, come ulteriore effetto del tracing, il cd. trust fund, rappresentato in concreto dal valore del complesso dei beni affidati fiduciariamente alla gestione per conto altrui (anche in questo caso, al fine di rendere il più possibile ampia, libera e versatile la gestione del trustee, purché operata sempre nell’effettivo interesse del beneficiario). Il limite della tutela reale del beneficiario è dato, secondo un principio generale assai diffuso nei diversi ordinamenti, dalla buona fede (ossia, ignoranza dell’esistenza del t.) dell’acquirente del legal interest (titolarità formale) sul bene a titolo oneroso, nel qual caso i diritti (l’originario equitable interest, ormai privato del suo oggetto originario) si trasferiranno sul ricavato della vendita.
Il trust e l’ordinamento italiano. – Le difficoltà derivanti dai fattori culturali, così come dalle categorie e dalle norme giuridiche caratterizzanti gli ordinamenti continentali – ciascuno a suo modo, ma con notevoli affinità rispetto alla diffidenza di fondo nei confronti del t. e delle sue potenzialità – hanno impedito che la figura in esame potesse svilupparsi, grazie all’opera dei giuristi (impegnati in veste di dottrina e giurisprudenza pratica), nonostante l’indiscutibile utilità dello strumento che consente di ‘segregare’ un patrimonio ai più svariati fini (da quelli commerciali e finanziari, perseguiti con le forme di commercial trust a quelli solidaristici e caritatevoli, realizzati attraverso il modello di charitable trust o charity). In concreto, il t. è utilizzato – specie in area anglosassone – in ambito successorio, quale alternativa al testamento, ma anche dalle grandi istituzioni culturali o benefiche, così come per l’affidamento del patrimonio a persone ‘di fiducia’ a tutela di soggetti deboli (disabili, coniuge o partner, minori e così via), ovvero in funzione della protezione del patrimonio stesso da aggressioni di terzi, che possano incidere o addirittura vanificare la ‘destinazione’ dei beni (si veda, in tal senso, l’art. 2645 ter c.c.) alla realizzazione dell’interesse caratterizzante il trust.
Tale indiscussa funzionalità, tuttavia, ha condotto in Italia (come del resto in altri Stati) a guardare sempre con ammirazione e in ogni caso con apertura al t. come esemplare espressione di riconoscimento e valorizzazione dell’autonomia privata negli ordinamenti di common law. Con il duplice effetto, per quanto riguarda l’Italia: a) di intervenire legislativamente per disciplinare l’attività di gestione di patrimoni per conto altrui, nei diversi settori in cui l’esigenza della separazione patrimoniale, con tutti i vantaggi che essa avrebbe comportato, era particolarmente avvertita (ad es., le società di intermediazione mobiliare SIM, i fondi di previdenza e assistenza complementare detti ‘fondi pensione’, così come la gestione accentrata dei titoli e dei valori mobiliari), e b) di aderire senza riserve, tra i primi Paesi di diritto continentale, alla Convenzione internazionale dell’Aja del 1° luglio 1985 (resa esecutiva in Italia nel 1989 ed entrata in vigore nel 1992), avente lo scopo di determinare la legge regolatrice e riconoscere il t. costituito all’estero con i requisiti formali stabiliti dalla stessa Convenzione, potendosi finalmente ritenere, secondo un’opinione largamente diffusa tra gli studiosi, che l’istituto sia stato sostanzialmente recepito anche dal diritto italiano, sia pure in modo indiretto, ossia attraverso una convenzione di diritto internazionale privato.
Può essere interessante constatare che, nella prospettiva dell’armonizzazione europea, il testo relativo a Principi, definizioni e regole modello del diritto privato europeo (noto anche come Draft common frame of reference, DCFR) ha previsto regole generali sui trusts, nel Libro X del Draft, mentre sul versante interno la giurisprudenza, prima di merito e, di recente, anche di legittimità (con la sentenza della Corte di cassazione 9 maggio 2014, nr. 10105), ha cercato di definire i rapporti tra il t. e i principi generali dell’ordinamento, alla ricerca del punto di equilibrio fra l’autonomia dei privati (cui la ricordata Convenzione dell’Aja ha senza dubbio offerto nuove opportunità operative) e la normativa inderogabile, ritenuta anche di ordine pubblico, dell’insolvenza e delle procedure concorsuali, a tutela dei creditori.
Il tentativo di approdare a una disciplina legislativa delle vicende cui, nella prassi degli affari, è legata la figura del t., si è realizzato attraverso molteplici progetti e disegni di legge, di carattere specifico (come, ad es., con riferimento alla tutela dei soggetti portatori di handicap) ovvero più generale, senza però esitare in una nuova normativa, come invece è accaduto in altri ordinamenti limitrofi (per es., nella Repubblica di San Marino, con la l. 37/2005, così come in Francia, con la modifica del Code civil attraverso la regolamentazione della fiducie, versione linguisticamente rispettosa della tradizione romanistica della fiducia, agli artt. 2011-2031 del codice, introdotti con la l. 19 febbr. 2007 nr. 211), se si eccettua la materia fiscale che, con la l. 27 dic. 2006 nr. 296 (cd. Finanziaria 2007), vede il t. entrare tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società (IRES), in funzione della loro opacità (ovvero nel caso in cui nell’atto istitutivo non siano stati individuati i beneficiari dei beni vincolati nel trust fund), mentre per i t. trasparenti, al contrario, è prevista l’imputazione dei redditi conseguiti «in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell’atto di costituzione del t. o in altri documenti successivi ovvero, in mancanza, in parti uguali» (art. 73, 2° co., d.p.r. 22 dic. 1986 nr. 917, testo unico delle imposte sui redditi, ma un ulteriore intervento si è avuto, di recente, con la l. 23 dic. 2014 nr. 190, cd. legge di stabilità 2015).
Alla figura giuridica del t. è, infine, connessa la questione dei conflitti d’interesse per i soggetti che ricoprono cariche pubbliche apicali (all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera, con la proposta di legge A.C. 275-A, che dovrebbe sostituire la vigente normativa in materia, disciplinata dalla l. 20 luglio 2004 nr. 215), nella prospettiva di un sistema d’incompatibilità più restrittivo rispetto al precedente, oltre che un sistema sanzionatorio direttamente applicabile dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato o dall’Autorità che verrebbe appositamente istituita a tal fine (Commissione nazionale per la prevenzione dei conflitti di interesse), ove figura, tra i mezzi di risoluzione del conflitto di interessi previsti dalla riforma, il cd. blind trust, ossia l’obbligo, per il soggetto che accede alla carica politica, di conferimento del proprio patrimonio a una società fiduciaria autorizzata a operare mediante mandato fiduciario senza rappresentanza, ovvero a una gestione fiduciaria.
Bibliografia: M. Graziadei, Diritti nell’interesse altrui. Undisclosed agency e trust nell’esperienza giuridica inglese, Trento 1995; M. Lupoi, Trusts, Milano 1997; G.C. Cheshire, Il concetto del “Trust” secondo la common law inglese, Torino 1998; A. Gambaro, Trust, in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione civile, 19° vol., Torino 1999, ad vocem.