Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’alto Medioevo è caratterizzato da un buon numero di trattati tecnici; in particolare, fra i testi inerenti l’agricoltura, campo che nel I secolo a.C. Columella aveva tentato di innalzare al rango di scienza, si distingue l’opera di Palladio; per ciò che riguarda l’architettura, invece, la riscoperta dell’opera vitruviana è la base per la costruzione di nuovi edifici religiosi. Infine, Cassiodoro riprende dagli scritti di Sesto Giulio Frontino le informazioni per la manutenzione degli acquedotti monumentali.
Teofilo monaco
Dalla Genesi ad oggi
Diversarum artium schedula
Leggiamo nel libro della Genesi che l’uomo fu fatto ad immagine e somiglianza di Dio, fu animato dal soffio divino e con il segno di questa dignità fu innalzato al di sopra degli altri viventi affinché egli, essere razionale, si rendesse degno di partecipare alla sapienza, alla saggezza e allo spirito divino e, dotato di libero arbitrio, osservasse la volontà del suo Creatore e mostrasse rispetto della sua autorità. Miseramente ingannato dall’astuzia di Satana, dovette pagare la sua disobbedienza con la perdita dell’immortalità, ma tramandò alle generazioni dei suoi posteri i preziosi beni della sapienza e della ragione, sicché chiunque vi si applichi con cura e coscienzioso sforzo può per diritto ereditario ottenere grande perizia in qualunque mestiere. L’umanità nella sua ingegnosità accettò questa predestinazione e, dopo essersi dedicata ai guadagni materiali e ai piaceri attraverso vari casi, giunse finalmente nel corso dei tempi all’epoca predestinata della religione cristiana.
Marc Bloch
Invenzioni e sviluppo nel Medioevo
Si dice spesso: invenzioni medievali. È però sin d’ora certo che questo termine troppo semplice abbraccia, in realtà, dei fenomeni singolarmente disparati. Senza pretendere affatto di esaurire una lista assai lunga e disseminata di gravi incertezze, alcuni esempi basteranno a sottolineare la necessità di una classificazione. Talvolta il Medioevo si è limitato a diffondere, sotto la spinta di condizioni sociali nuove, un apparecchio o un procedimento che l’Europa conosceva già da lungo tempo. Tale è pure il caso della rotazione triennale, attestata, per la prima volta, gli inizi della nostra era presso i Treviri, come espediente puramente temporaneo: è noto, d’altra parte, che tutta una parte del territorio europeo rimase sempre ribelle nei suoi confronti. Questi due esempi hanno di significativo il fatto che ciascuno di essi rappresenta l’eredità di una diversa civiltà, tra quelle delle quali il Medioevo e noi stessi abbiamo ricevuto il lascito. Il mulino ad acqua veniva dal Mediterraneo; la rotazione triennale dalle società agricole dal nord. Non è soltanto sul terreno intellettuale che la commistione delle tradizioni può essere una fonte di fecondità. In altri casi si trattò ancora di acquisizione, ma, questa volta, da civiltà estranee. La staffa, secondo ogni apparenza, fu un regalo di quei cavalieri delle steppe eurasiatiche, Alani e Sarmati, che l’insediamento di parecchie minoranze dei loro popoli, come colonie militari, nell’Impero romano, il lungo soggiorno dei Goti in prossimità di essi, sul Mar Nero, e infine la comune fuga sotto l’incalzare degli Unni, misero, agli inizi del Medioevo, in contatto così stretto con il mondo occidentale. Quasi alla stessa epoca la Cina e, attraverso questa il Giappone sembrano avere ricevuto da essi lo stesso regalo. In questa maniera i cavalieri nomadi che, di volta in volta, minacciavano i sedentari dell’Est e dell’Ovest stabilirono tra queste società remote una sorta di collegamenti. Ben più tardi il mulino a vento doveva venire a noi dall’Oriente islamico. Questo movimento di azione e reazione apre al pensiero un vasto campo; meriterebbe di aprirlo anche agli studi […]. Altri perfezionamenti, l’invenzione stessa infine, nel senso pieno del termine, sembrano aver avuto luogo nel corso del Medioevo anche sul nostro suolo. Tale è il caso del “moderno” equipaggio dei cavalli […]; tale fu probabilmente il caso del misterioso arcolaio, le prime menzioni che conosciamo del quale appartengono al XIII secolo; forse anche della bussola se, come sembra essere riuscito a provare il suo storico più recente, l’origine cinese o araba di questo meraviglioso strumento sembra dover essere definitivamente relegata nel regno delle favole. In questi ultimi casi il problema non è più per noi, quello di ricostruire sulla carta il cammino di certe influenze. Esso si presenta soprattutto come un problema di ricerca delle cause, problema sul quale diremo qualcosa tra breve. Che non ci si inganni tuttavia; acquisizioni e invenzioni portano, a ben vedere, la stessa testimonianza: quella di una notevole agilità della mano, dello sguardo e dello spirito. In questa capacità di rinnovamento, diffusa sin nelle masse degli artigiani, come non riconoscere una delle fonti di quella grandezza europea che fu vista sorgere, con uno slancio così prodigioso, dal seno dei torbidi più gravi? L’homo europaeus, in altri termini, fu per eccellenza un homo faber non soltanto perché seppe creare, ma anche, per lo meno fino al secolo XIX, perché egli seppe imitare o adattare e dalla fusione di questi apporti riuscì a costruire una civiltà della tecnica.
M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1990
Prima dell’anno Mille le invasioni dei popoli barbari nell’Occidente europeo avevano progressivamente annientato la civiltà romana: spopolate e in rovina le città, abbandonate le grandi vie di comunicazione che costituivano uno dei vanti dell’organizzazione imperiale, dimenticate l’estrazione della pietra che non veniva più adoperata in edilizia e le tecniche di lavorazione dei metalli, abbandonate le colture, ampi spazi agricoli erano tornati foresta. Non a caso, il bosco e la campagna sono il teatro di storie fantastiche nelle quali si racconta, tra l’altro, di terribili fiere e di santi che appaiono all’improvviso a recuperare una falce scappata di mano a un contadino e caduta in un pozzo, testimonianza chiarissima dell’importanza che il ferro aveva all’epoca. La malnutrizione e le epidemie colpiscono la popolazione, in notevole calo. La superficie agricola lavorata è davvero poca; tuttavia, nell’alto Medioevo si registra un paziente recupero delle opere degli antichi in materia di agricoltura perché non se ne perda l’insegnamento, unitamente alla stesura di alcuni trattati originali.
Nel mondo antico l’agronomia era una somma di argomenti relativi alla buona gestione della campagna e di tutto ciò che su di essa si trovava, compresi animali, attrezzi e lavoranti. Vigne, giardini, campi, allevamenti e pascoli costituivano lo scenario in cui si muoveva il proprietario per il quale, a partire dalla fine del I secolo a.C., erano stati composti manuali densi di informazioni tecniche, teoriche e pratiche. Nel I secolo Columella aveva cercato di elevare l’agricoltura al rango di scienza, descrivendo con cura tutto ciò che il proprietario di un grande appezzamento doveva conoscere. Tuttavia, l’opera che nell’alto Medioevo ottiene maggior seguito è l’Opus agriculturae di Rutilio Tauro Emiliano Palladio, personaggio di alto livello sociale la cui esistenza si pone, non senza discordanze, nel IV secolo.
Palladio recupera tutto lo scibile esistente in materia di agricoltura dividendone il contenuto in base alle attività lavorative da svolgere nei dodici mesi dell’anno e aggiunge, inoltre, una parte dedicata alla cura degli animali dal titolo De veterinaria medicina e un poemetto sugli innesti, il Carmen de insitione. I 127 manoscritti redatti prima del XV secolo testimoniano lo straordinario successo dell’opera di Palladio nel Medioevo.
A questo tipo di letteratura appartiene il De villis vel de curtis imperialibus, redatto alla fine dell’VIII secolo e contenente la descrizione di campi, foreste, vigne e allevamenti di proprietà imperiale nella zona di Aix-la-Chapelle, capitale del regno di Carlo Magno, con i suggerimenti su come gestire il tutto in modo da rendersi autosufficienti. In questa stessa ottica si pone anche il progetto dell’abate di Reichenau per un monastero ideale nel quale dovevano trovare posto un giardino a base di ortaggi, un frutteto e un orto con piante medicinali. Analogo interesse troviamo in Walafrido Strabone, abate anch’egli del chiostro di Reichenau, che nell’838 scrive il De cultura hortorum, in cui raccomanda soprattutto la coltivazione di piante per uso alimentare e farmaceutico. All’848 risale la stesura del De mensium duodecim nominibus signis culturis aerisque qualitatibus, un poema in esametri composto da Wandalbert de Prüm, dedicato a Lotario e contenente l’elenco delle operazioni agricole da portare a termine nella regione della Renania per ogni mese dell’anno. Al patrimonio di conoscenze degli agrimensori latini si ricollega un interessante manoscritto trovato a Avranches dal titolo De profonditate maris vel fluminis probanda. Oggetto dello scritto è l’illustrazione di un sistema attraverso il quale misurare la profondità di un corso d’acqua. La soluzione proposta verte sull’utilizzo di un peso che, legato a una corda, va a toccare il fondo; si calcola quindi il tempo impiegato per risalire in superficie e, ripetendo questa operazione in zone diverse, si ottiene una media delle profondità. Sistemi di questo tipo non sono estranei alla cultura dell’epoca, che deve però scontrarsi con difficoltà pressoché insormontabili quando si cercava di misurare con precisione gli intervalli di tempo. Resta da dire, per concludere questa panoramica sui testi dedicati all’agricoltura nell’alto Medioevo, della raccolta dei Geoponica, opera in venti volumi la cui stesura avviene presumibilmente nel corso del X secolo riunendo e sintetizzando lavori precedenti tra cui quelli di Vindonius Anatolius (350 ca.), Didimo di Alessandria il Giovane (500 ca.) e Cassiano Basso. Il contenuto, assai vario, spazia dall’astronomia alla coltivazione di diversi tipi di grano, dall’elenco dei lavori stagionali alla produzione di olio e vino, dalla cura dell’orto alla difesa delle piante dall’attacco di insetti nocivi fino ai problemi di allevamento di cavalli, mucche, pecore, cammelli, piccioni, api e pesci.
Questi pochi testi sono sufficienti a mettere in luce il desiderio delle classi colte dell’alto Medioevo di legare il possesso della terra all’acquisizione di testi contenenti estratti della letteratura agronomica antica, selezionata al fine di individuare informazioni di immediata utilità pratica da mettere in relazione con le diverse realtà regionali. Tuttavia, gli ampi spazi incolti, la resistenza di molti suoli all’aratro antico e la diffusione delle aree boschive, mostrano l’inadeguatezza delle tecniche ereditate dal passato: lentamente, a cominciare dalle regioni del nord Europa fanno la loro comparsa dispositivi, strumenti e tecniche agricole che, tra feudi e monasteri, preannunciano le profonde trasformazioni che stanno per caratterizzare lo scenario agricolo europeo all’alba dell’anno Mille.
L’altro settore nel quale si concentrano gli sforzi degli uomini di cultura nei secoli dell’alto Medioevo è quello dell’architettura, dove lo studio del testo vitruviano fa da sfondo alla costruzione dei nuovi edifici religiosi. A cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. l’ambizioso progetto di Vitruvio di portare a sistemazione razionale tutta la disciplina architettonica stabilendone le norme e i criteri si era realizzato con ilDe architectura. Destinato a grandissima fortuna nei secoli successivi, questo trattato non sembra aver avuto ampia diffusione all’epoca della sua stesura. All’età tardoimperiale risale il compendio di Faventino, che sotto il titolo di Artis architectonicae privatis usibus adbreviatus liber dava ampio spazio ai capitoli dedicati da Vitruvio all’edilizia privata.
Alcune parti dell’opera di Vitruvio sono riprese da Palladio, Sidonio Apollinare e Cassiodoro, ma è soprattutto nel capitolo XIX delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia che troviamo un’interessante riflessione in merito all’architettura. Secondo Isidoro l’architettura è composta da tre parti: dispositio, constructio, venustas: nonostante questa divisione possa far pensare a una dipendenza dall’opera di Vitruvio, basta soffermarsi sulla definizione di dispositio, “la descrizione dell’area o del suolo delle fondamenta” (XIX, 9), oppure di venustas, “qualunque cosa venga aggiunta agli edifici per ornamento e decoro” (XIX, 11), per osservare come il significato attribuito da Isidoro a questi concetti si discosti da quello fornito da Vitruvio. Sembrerebbe quindi, diversamente da quanto sostenuto dai più, che Rabano Mauro, il testimone più efficace della ricezione di Vitruvio nel Medioevo, abbia preso spunto da Isidoro quando nel De universo dichiara che “Le parti degli edifici sono tre: dispositio, constructio, venustas” (21, 2).
Il trattato vitruviano ebbe comunque una buona diffusione nell’alto Medioevo, confermata dai manoscritti trovati in diverse biblioteche, tra cui quelle di Reichenau, Murbach, Bamberga, Regensburg, Fulda, San Gallo e Melk. Conosce certamente il De architectura Eginardo, educato alle lettere classiche nel monastero di Fulda e successivamente divenuto responsabile delle costruzioni imperiali, che in una lettera a uno scolaro manifesta tutta la sua difficoltà davanti ai complicati termini tecnici introdotti per la prima volta da Vitruvio. Non è da escludere che lo stesso Eginardo si sia attenuto al testo vitruviano nella costruzione delle basiliche di Steinbach e Seligenstadt in Assia. D’altro canto, l’opera di Vitruvio toccava temi pratici di indubbia utilità: la notevole quantità di informazioni relative all’idraulica, alla meteorologia, all’astronomia, alla gnomonica e alla meccanica oltre alle notizie sull’arte del costruire, ne facevano un testo prezioso.
È interessante osservare come già prima del X secolo circolassero all’interno del trattato vitruviano alcune parti che poi saranno separate e riunite sotto il titolo di Appendix Vitruviana.
Nel manoscritto di Sélestat della metà del X secolo vi sono, oltre al trattato di Vitruvio, il compendio di Faventino, estratti da Palladio sulle ville rustiche, una parte sulla corretta misura delle canne degli organi e una sezione dedicata alle sette meraviglie del mondo; vi sono poi disegni di colonne, le cui dimensioni e il corretto posizionamento nello schema della costruzione costituiscono il cuore della teoria dell’architettura, argomento il cui interesse è confermato dalla presenza di un’ulteriore appendice dedicata alla Symmetria columnarum. Vi sono, infine, la Mappae Clavicula, traduzione di un testo alchemico greco relativo a procedimenti tecnico artistici nel lavoro artigianale e le Compositiones, con parti dedicate alla costruzione sull’acqua e alla malta idraulica.
Di notevole interesse nell’Appendix Vitruviana è la sezione dedicata ai pesi specifici di diversi metalli, argomento trattato molto marginalmente da Vitruvio in relazione al celebre episodio della corona di Archimede (De architectura, IX, praef.). È plausibile che questa parte dipenda dall’opera, oggi perduta, che il matematico Menelao di Alessandria attivo a Roma sul finire del I secolo aveva dedicato al corretto procedimento per individuare il peso specifico dei metalli e la densità dei fluidi. A questo medesimo problema rimandano anche i versi 103-110 del Carmen de ponderibus et mensuris, dove è descritto un apparato per quantificare il peso specifico dei fluidi. Anche l’autore di questo poemetto, un certo Pisciano o come oggi si ritiene più probabile Remmius Favinus, vissuto in un’età compresa tra il IV e il VI secolo, doveva avere presente il lavoro di Menelao.
Del resto, non si tratta di una novità. Un apparato simile è già stato descritto in una lettera inviata da Sinesio a Ipazia ad Alessandria intorno al 400: trovandosi a letto per una malattia, Sinesio chiede alla studiosa un apparato col quale, presumibilmente, avrebbe valutato il diverso peso delle acque per evitare quelle più pesanti. Lo strumento in questione è l’udroskopeion e la precisa descrizione di Sinesio è sufficiente per capire che si tratta di un antesignano del nostro areometro, ormai noto non solo in ambiente medico, ma anche tra gli studiosi di meccanica.
Il Medioevo conosce anche l’altro importante trattato tecnico di età romana imperiale, il De aquaeductibus urbis Romae di Sesto Giulio Frontino. Composto all’inizio del II secolo, contiene le informazioni necessarie per la manutenzione degli acquedotti monumentali. L’interesse per quest’opera è anche dovuto alla popolarità che ancora nell’alto Medioevo hanno le zone termali che da essi traggono alimento. Le terme, nel mondo romano frequentatissime e simbolo di una civiltà urbana destinata a grande fortuna, nel Medioevo tendono a scomparire specialmente per il decadere dei complessi alimentati artificialmente. Cassiodoro è buon testimone della mutata cultura del bagno termale nella tarda antichità. In una lettera redatta nel 527 per conto di Atalarico re degli Ostrogoti, Cassiodoro descrive la zona di Baia esaltando la natura dei luoghi; ma le virtù di quelle acque costituiscono adesso il pretesto per affermare che gli edifici termali eretti dalla mano dell’uomo, per quanto grandiosi, non possono competere con la bellezza e la varietà della natura. La visita alle terme deve adesso essere un’occasione benefica per lo spirito più che per il corpo. Accogliendo valori e immagini della cristianità che sostituiscono i miti pagani, le acque termali che restituiscono la salute sono ora un dono di Dio.