transumptio
Termine diffuso nella retorica medievale per indicare genericamente quello schema che nella retorica classica è denominato translatio (t. traduce invece per Quintiliano il termine greco di ‛ metalessi '), ossia l'espressione metaforica, ma che tuttavia viene riferito prevalentemente a quel tipo più ampio e complesso di metafora che supera la trasposizione semantica del singolo vocabolo (cfr. METAFORA). In questo senso sono avviati quei dettatori (cfr. ad es. Bene da Firenze; Boncompagno da Signa), cui in gran parte deve farsi risalire la preparazione letteraria di D., che nelle loro ‛ arti ' sostengono il trasferimento della sottile ricerca stilistica, propugnata nelle arti poetiche, alla prosa oratoria ed epistolare, e riconoscono come tipico elemento dello stile poetico e dell'artificium appunto la t., ma intesa soprattutto come sviluppo della metafora ed elemento costitutivo dell'ornatus difficilis.
In VE II VI D. riporta quale esempio del più eccellente grado stilistico una frase (Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia, nequiquam Trinacriam Totila secundus audivit), in cui fra il cumulo degli schemi retorici adoperati spicca proprio la t., ricavata dal nome di Firenze; in Ep III 2, inviando a Cino da Pistoia un sonetto che è, specie nella sua seconda parte, un esempio fra i più tipici di sviluppo metaforico (CXI 9-14; si vedano infatti le fitte allusioni alla ‛ palestra ' d'amore), D. caratterizza il componimento rilevandone il contenuto sentenzioso e la forma poetica, e cita lo sviluppo metaforico del discorso come tipico dello stile poetico (sententialiter canitur, quanquam transumptive more poetico); in Ep XIII il modus tractandi transumptivus è citato accanto al poeticus, fictivus, ecc. (§ 9), ossia accanto ai modi dell'ornatus, quali erano contemplati nelle arti poetiche, come elemento essenziale della forma del poema.
In realtà la t. è fondamento del linguaggio immaginoso di D., né solo nella Commedia, dove certo essa acquista sviluppo e varietà notevoli, ma nelle altre opere poetiche e perfino nella prosa, sia dove deriva lo stile dalla scuola dei dettatori, sia dove è più legato alla tradizione filosofica (v. PROSA). La t., del resto, intesa come t. ‛ orationis ' è in diretto rapporto con la personificazione e la prosopopea (v.) ed è il tramite retorico dell'allegoria (v.), la quale, quando non nasce come figura nel senso biblico, corrisponde alla metafora prolungata secondo una definizione già presente nella retorica classica.
Nella Vita Nuova come nelle Rime la t. è appunto in relazione con alcune consuete personificazioni, tipica quella di Amore, accompagnata da un corredo di metafore ora più, ora meno complesso. Una t. particolarmente protratta, che sviluppa l'analogia fra rapporto amoroso e scontro d'armi, è quella di Rime CIII 7 ss. (non esce di faretra / saetta che già mai la colga ignuda: / ed ella ancide e non val ch'om si chiuda, ecc.). Altre personificazioni suggeriscono nelle Rime sviluppi metaforici altrettanto e più ampi, che mostrano la tendenza della t. a sconfinare nell'allegoria. Si pensi ad es. alla personificazione delle virtù in Rime CIV (Tre donne intorno al cor mi son venute), e soprattutto alla lunga t. di CVI 27 ss., che svolge il tema etico della liberalità trasponendolo nel linguaggio ‛ cortese '. Ma in sostanza le rime allegoriche raccolte nel Convivio non sono che uno sviluppo della fondamentale metafora della donna Filosofia, come tale spiegata in Cv II XII 8.
Meno rilevante nella prosa della Vita Nuova, dove lo stile affetta una scarna semplicità narrativa e la meraviglia della visione prevale sull'ornamentazione tropologica, la t. compare all'inizio del Convivio, il cui titolo richiama una trasposizione metaforica fra il nutrimento spirituale e quello materiale, che diverrà una costante, in forma più o meno ampia, del linguaggio della Commedia (cfr. uno degli esempi più notevoli in Pd XXIV 1-9): Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! (Cv I I 7); La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, ecc. (§ 14). Anche la trattazione del De vulg. Eloq. si articola secondo un'efficace t., quella della caccia rivolta a scovare la metaforica ‛ Pantera ', nella quale, secondo il metodo tipologico, si racchiudono i caratteri intrinseci del volgare illustre. La metafora della caccia, che esprime la difficoltà della ricerca, ricorre nella ripetizione del verbo ‛ venari ' e si sviluppa in transumptiones, come quella di I XI 1 (Quam multis varietatibus latio dissonante vulgari, decentiorem atque illustrem Ytaliae venemur loquelam; et ut nostrae venationi pervium callem habere possimus, perplexos frutices atque sentes prius eiciamus de silva), dove troviamo l'esempio tipico di una t. ‛ dictionis ' che si dilata in t. ‛ orationis '.
La Commedia, cui - come si è detto - Ep XIII attribuisce fra gli altri il modus transumptivus, si regge sulla t. del ‛ viaggio ', comunque si voglia valutare lo sviluppo complesso di essa rispetto alla dottrina della visione e dell'allegoria. Certo la cosiddetta allegoria fondamentale del poema non è altro, nell'impostazione del canto I dell'Inferno, che una serie di tropologie da ricondursi all'uso della t., a cominciare dalla ‛ selva oscura ', metafora consueta dello sviamento morale e intellettuale, fino alle fiere e al veltro, che traducono in linguaggio figurato la condizione dell'uomo oppresso dai mali del mondo e l'attesa della liberazione.
Alla t. del viaggio, che il poeta dice di aver compiuto, corrisponde, e sostanzialmente con essa s'identifica, quella del viaggio che la sua mente compie, fra mille difficoltà, per ripercorrere con la memoria la meravigliosa impresa. Tale viaggio si riflette generalmente in quello di una metaforica barca.
Si veda l'inizio di Pg I (Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele); o la più ampia t. che apre Pd II (vv. 1-15 O voi che siete in piccioletta barca / ... L'acqua ch'io prendo già mai non si corse...), cui rimanda l'altra t. di XXIII 67 (non è pareggio da picciola barca / quel che fendendo va l'ardita prora, / né da nocchier ch'a sé medesmo parca). L'identificazione del poeta con la nave e del suo stile col cammino di essa era già in Rime CXIV 4-5. Questo della barca e del mare costituisce uno dei campi semantici ai quali più frequentemente ricorre il poeta nella Commedia per dar colore al concetto; si vedano quei luoghi, dove il ricorso alla t. nasce da un'esigenza di amplificazione (Lascia lui e varca; / ché qui è buono con l'ali e coi remi, / quantunque può, ciascun pinger sua barca, Pg XII 4-6), e l'amplificazione si attua attraverso altre ricerche quali la paronnmasia (si ch'a sua barca / carcata più d'incarco non si pogna, Pd VIII 80-81), e l'antitesi (le poppe volgerà u' son le prore, / sì che la classe correrà diretta, XXXVII 146-147). Né è il caso di soffermarsi sulla t. della tempesta quale immagine viva della vita dell'uomo, sviluppata in un famoso luogo autobiografico del Convivio (Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade, I III 5), e ripresa nel poema a proposito delle condizioni dell'Italia (nave sanza nocchiere in gran tempesta, Pg VI 77). Le difficoltà della vita morale vengono rapportate alla condizione del naufrago (non vedi tu la morte che 'l combatte / su la fiumana ove 'l mar non ha vanto?, If II 107-108), e all'immagine della nave che trova riposo nel porto è affidata la sentenza morale in If XXVII 80-81 (ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte); D. non manca di sviluppare l'immagine evangelica della barca di Pietro (Pd XI 119-120); e all'immagine biblica della Genesi è certo originariamente dovuta la breve ma superba rappresentazione del vario moto delle cose nel creato (onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l'essere..., I 112-113).
Il testo biblico, come in questo caso, è spesso, ovviamente, all'origine della t. dantesca, non solo dove essa direttamente attinge al linguaggio biblico o ne amplia e ne elabora gli spunti, ma anche dove essa non lo richiama direttamente, ma lo evoca nel tono, per certo sublime mistero che è nel parlare figurato. Non per altro, mentre la più circoscritta metafora è ampiamente diffusa per tutto il poema, il Paradiso è senza dubbio la cantica nella quale risulta più frequente la t. nella forma qui esaminata. Ad es. il ricorso al tema del metaforico cibo che nutre le anime, che è a fondamento del Convivio e che appare in un senso simile in Pd X 22 ss. (Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba / ...Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba) o in V 37 (convienti ancor sedere un poco a mensa), altrove contiene un chiaro riferimento alla mistica mensa (Pd XXIV 1-6) e al pane degli angeli (II 11-12; cfr. Cv I I 7), anch'esso risalente al testo biblico, che è poi lo stesso che le dape di XXIII 43 e il cibo di XXV 24 (‛ Amore ' in un senso particolare era vivanda, in Rime CIV 31).
L'origine evangelica è palese nella frequente t. della greggia e del pastore, che si amplia includendo l'insidia dei lupi (Pd IX 130 ss., X 94, XI 124 ss., XXV 4 ss., XXVII 55-56); lo stesso si dica della mistica sposa (X 140, XI 32-33), della vigna e dell'orto (XII 86-87, XXV 64-65), della buona e della cattiva vegetazione (XII 118-120, XX 43-45, XXIV 110-111). Già in VE I XVIII 1 un'ampia t. attribuisce al volgare illustre il lavoro del buon ortolano (Nonne cotidie extirpat sentosos frutices de ytala silva...?). La canonica rappresentazione del Paradiso come un giardino condiziona e favorisce una t. come quella, tipica, di Pd XXIII 71 ss., in cui al giardino / che sotto i raggi di Cristo s'infiora corrispondono la rosa e i gigli che lo compongono, e che acquistano la pregnanza del simbolo (cfr. anche XIX 22 ss.). Da una t. analoga scaturisce in sostanza la figura della mistica rosa dei beati, così come altre complesse figurazioni (quale quella del fiume fulvido di fulgore che alimenta i fiori profumati che nascono sulle sue rive, XXX 61-69), che sono al limite fra il modus transumptivus e il fictivus, a voler accettare la terminologia dell'epistola a Cangrande.
Nel suo impiego più consueto la t. mira a variare il discorso secondo le esigenze del dettato poetico e ad ampliarne la struttura retorica. Di qui anche l'uso di accumulare i traslati, come ad es. in Pd XXVII 148 la t. del frutto che segue naturalmente al fiore riprende con una tautologia la t. precedente della nave che segue la giusta rotta. La varietà dell'impiego in tal senso della t. può essere esemplificata dal canto XXIV del Paradiso, dove la necessità di ravvivare, ma anche di dar respiro al resoconto dell'eccezionale esame, promuove una serie di metafore prolungate di particolare rilievo: la scienza acquisita dal poeta è l'acqua che egli deve spandere dal suo interno fonte (vv. 56-67), la fede è una moneta esaminata nella sua lega e che egli deve dimostrare di tenere in borsa (vv. 83-85), l'esame è un albero che esaminatore ed esaminando scalano fino alla cima (vv. 113-115), la natura, come un fabbro, opera con la fornace e l'incudine (vv. 101-102).
L'esigenza di variare e di amplificare il discorso s'incontra con quella di renderlo vivo e concreto, specie in rapporto con determinate situazioni: così se in Pd XVII 101-102 la t. della trama che viene aggiunta all'ordito è perifrasi che varia in forma traslata il più consueto ‛ rispondere ', in XIII 34-36 le parole di s. Tommaso si spiegano nell'atteggiamento didascalico che il poeta gli vuol far assumere nei confronti dell'umile discepolo (Quando l'una paglia è trita, / quando la sua semenza è già riposta, / a batter l'altra dolce amor m'invita). E lo stesso tono didascalico ha la sentenziosa t. dei vv. 121-123, che accosta il ricercatore della verità al pescatore. Su questo piano della resa evidente del concetto va considerata la diffusissima t., fra le più sintomatiche del colorito linguaggio dantesco, dell'arco e della freccia, che oltre alla più comune funzione di illustrare l' ‛ atto ', il ‛ movimento ', la ‛ causa ', ha quella di precisare con immediatezza una situazione (Scocca / l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto, Pg XXV 17-18), ma anche di rendere difficile e quindi più grave una sentenza (Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca / per non venir sanza consiglio a l'arco, VI 130-131; anche questa t. è in sostanza una perifrasi), o più icastica una predizione (e questo è quello strale / che l'arco de lo essilio pria saetta, Pd XVII 56-57).
Bibl. - Oltre ai titoli citati nella bibliografia della voce METAFORA: F. Oliviero, The representation of the image in D., Torino 1936; L. Malagoli, Linguaggio e poesia nella D.C., Genova 1949; G. Marzot, Il linguaggio biblico nella D.C., Pisa 1956; F. Forti, La " transumptio " nei dettatori bolognesi e in D., in AA.VV., D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 127-149.