CORTESI, Tolomeo dei
Nacque a Cremona nel 1269 da Nicola di Ottone. La famiglia, già ricordata in carte del XII secolo, apparteneva al ceto dei vassalli della Chiesa cremonese, giacché possedeva in feudo la corte di Castelnuovo di Aspice, posta entro i confini della diocesi. I suoi antenati erano stati, durante la prima metà del sec. XIII, canonici della cattedrale di Cremona, mentre altri avevano partecipato alla guida politica dello stesso Comune, come sapientes del Consiglio di credenza.
Il padre del C., Nicola, svolse una lunga attività politica nell'Italia centrosettentrionale alla fine del XIII secolo: fu infatti podestà a Pistoia (1276), capitano del Popolo a Perugia (1281) e a Piacenza (1284), nuovamente podestà a Piacenza (1293), a Ferrara (1297-1298) e a Siena (1302). Egli era stato vicino al signore di Cremona, Cavalcabò Cavalcabò, durante i lunghi anni del suo incontrastato dominio e aveva rappresentato nelle città italiane da lui governate gli interessi della parte guelfa.
Il C. studiò diritto - non sappiamo presso quale università - conseguendo il dottorato e ricevette anche un ferreo tirocinio militare. Possedeva dunque - come rilevava già il Muratori (Dissertazioni, p. 17) - gli elementi fondamentali per esercitare la complessa professione podestarile: nobiltà di natali, buona conoscenza del diritto e vasta esperienza nel mestiere delle armi. Il suo matrimonio con Cecilia Picenardi, appartenente alla potente famiglia guelfa cremonese, consolidò ulteriormente la sua già forte posizione politica, che poté essere esplicata in particolare durante il primo decennio del XIV secolo, con la generale affermazione della parte guelfa nell'Italia settentrionale. Il C. partecipò per la prima volta con incarico di responsabilità alla vita politica di Cremona nel gennaio 1301, quando fu eletto - per la "porta" di Ariberto - tra i Quaranta sapientes, in carica per tre mesi, i quali avevano il compito di amministrare la Gabella Magna, organismo politico che dal 1290 aveva assunto, in accordo con Cavalcabò Cavalcabò, signore della città, tutto il controllo delle finanze comunali. La stessa carica fu ancora ricoperta dal C. tra l'aprile e il luglio 1302.
Qualche anno dopo il C. iniziò la carriera podestarile. Eletto podestà per la prima volta a Perugia, entrò in carica nel gennaio 1308. La durata dell'ufficio era semestrale, ma nel marzo il C. fu allontanato dalla città giacché si era rifiutato, contravvenendo agli statuti, di procedere in giudizio contro alcuni cittadini imputati di aver ucciso Giacomo di Contolo. Ritornato a Cremona, fu eletto podestà di Asti per l'anno successivo. Il C. assunse l'ufficio il 1° maggio 1309 in un momento particolarmente delicato della vita politica della città piemontese. Asti, sede di importanti società bancarie, era infatti travagliata da feroci guerre di parte: da alcuni anni la fazione guelfa, capeggiata dai Solari, aveva cacciato il gruppo dei ghibellini a cui aderivano i da Castello, i da Incisa, i Lanzavecchia, i Turco ed i Bertaldo. Costoro si erano rifugiati nei muniti castelli di Incisa e di Masio, a sud del Tanaro, verso Alessandria. L'arrivo del C. coincise con l'inizio delle ostilità contro le due fortificazioni ghibelline.
Il cronista Guglielmo Ventura riferisce che i guelfi astigiani nello stesso mese di maggio, capeggiati dal C. e dal capitano del Popolo, Federico Troto, assalirono Masio ed Incisa e devastarono i territori delle due località per quattro giorni. Ritornarono in seguito ad Asti per congiungersi con 300 soldati inviati da Chieri; ma si trattava di gente raccogliticcia, male armata e di scarso valore militare. Il 27 maggio l'esercito astigiano si divise in due parti: una, formata dai militi e dai Chieresi, capeggiata dal Troto, si diresse a Felizzano, la seconda, costituita dal popolo e da altri cavalieri, rimase in città per ultimare i preparativi della spedizione, sotto il comando del Cortesi. Quest'ultimo il giorno successivo raggiunse con i suoi il castello di Annone, mentre il Troto si diresse con le sue truppe verso Quattordio, intendendo ricongiungersi con l'esercito guidato dal podestà. Ma dal castello di Masio i ghibellini, varcato il Tanaro, aggredirono presso Quattordio gli Astigiani e li sconfissero: i guelfi lasciavano sul terreno cinquantasei morti e nelle mani del nemico trecentosessanta prigionieri, tra cui lo stesso Troto.
Ritornato precipitosamente in città, il C. iniziò le trattative per riscattare i prigionieri e riuscì a liberare il capitano del Popolo; inoltre prese accordi con Filippo di Savoia, principe di Acaia, e con Amedeo V, conte di Savoia, per giungere ad una pace generale fra le due fazioni. Il 5 agosto il C. presiedette un'assemblea cittadina durante la quale fu attribuito ogni potere ai due Savoia per pacificare Asti. Intanto le due fazioni cessavano momentaneamente di combattersi: furono inviati quattro ambasciatori ad Amedeo V e a Filippo per invitarli a raggiungere Asti. Alla fine di settembre Filippo giungeva in città, ove impose, coadiuvato dal C., le condizioni per la pace: le parti in lotta avrebbero liberato tutti i prigionieri, i ghibellini estrinseci avrebbero consegnato tutti i loro castelli al Comune e al podestà e avrebbero ricevuto a titolo di censo 6.000 lire imperiali. Tutte le famiglie bandite sarebbero rientrate in città, ad eccezione dei Turco, che non vollero piegarsi a trattare. Il 25 novembre il C. sottoscriveva, a nome del Comune di Asti, la carta di pace, che impegnava il principe Filippo a svolgere opera di garante dietro compenso di 17.000 lire annue.
L'azione del C. dopo la pacificazione non fu certo imparziale: egli iniziò trattative segrete con re Roberto d'Angiò per consegnargli la città e pertanto i ghibellini, che facevano capo ai da Castello e ai Bertaldo, si rifiutarono di consegnare la roccaforte di Masio. Il C., dopo lunghe discordie, ordinò il bando per i Bertaldo e fece dipingere le loro sembianze con pitture infamanti alle porte di Asti. Con il 1° maggio 1310 ebbe termine il suo mandato podestarile. Egli abbandonò la città per recarsi a Padova, ove era stato eletto podestà per il secondo semestre del 1310; lo accompagnarono i giudici cremonesi Bellengerio dei Guiscardi e Angelino dei Malaspini, che egli aveva scelto come suoi assessori.
Il 1°luglio assunse la carica e la mantenne sino al gennaio 1311. Nello stesso mese di luglio il C. ricevette Gerardo, vescovo di Costanza, commissario in Italia del re Arrigo VII, che richiese obbedienza al nuovo sovrano. Il podestà, legato al mondo guelfo e a re Roberto d'Angiò, fece votare una risposta in cui si esprimevano numerose riserve alla richiesta e in cui si dichiarava che i Padovani volevano essere fedeli alla Chiesa.
Si conserva una lettera del C. indirizzata a Giacomo dei Ruffini di Piacenza, professore di diritto civile, in cui a nome degli Anziani, del Consiglio e del Comune di Padova lo invitava ad insegnare presso la celebre università con lo stipendio di 40 lire di denari d'argento veneti. La risposta fu probabilmente negativa e pertanto l'insegnamento fu assunto dal cremonese Carlino dei Mandelberti, che il Gloria ritiene intimo amico del Cortesi.
Scaduto il mandato padovano, il C. non dovette far ritorno a Cremona, ribellatasi ad Arrigo VII, dato che il suo nome non è inserito nell'elenco dei guelfi cremonesi banditi dal re il 10 maggio 1311, lista in cui figurano ben cinque membri della sua famiglia, fra i quali suo padre, Nicola. Il C. si era legato a Roberto d'Angiò e al suo senescalco in Piemonte, Hugues de Baux, e quando quest'ultimo, nel giugno-luglio 1312, sottomise a Roberto il Comune di Pavia, il C. fu inviato in quella città con la carica di vicario e la governò in accordo con il conte di Langosco.
Nell'autunno del 1313 egli fu a Cremona, città in quel momento posta sotto la signoria di re Roberto: il 2 ottobre è ricordato, con i marchesi Cavalcabù e con Gregorio di Sommo, quale fideiussore per il Comune negli articoli della pace tra i guelfi cremonesi e i da Dovara, che occupavano il castello di Robecco. Mancano notizie sugli ultimi venti anni della sua vita. Morì nell'ottobre del 1335, quando aveva compiuto 66 anni di età, e fu sepolto nella chiesa cremonese di S. Elena.
Fonti e Bibl.: L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Mediolani 1740, p. 911; Rolandi Patavini Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, in Rer. Ital. Script., 2 ed., VIII, 1, a cura di A. Bonardi, pp. 209 s.; Liber Regiminum Padue, ibid., p. 350;T. A. Vairani, Inscript. Cremonenses universae, I, Inscriptiones urbis, Cremonae 1796, p. CLXXXII, n. 1343; Guilelmi Venturae Memoriale de gestis civiumAstensium, in Hist. Patriae Monum., Script., III, Augustae Taurinorum 1848, pp. 768, 772; CodexAstensis qui de Malabayla communiter nuncupatur, a cura di Q. Sella, I, Romae 1887, p. 281; IV, Romae 1880, pp. 66-70, n. 1039; A. Gloria, Monumenti della università di Padova (1222-1318), Venezia 1884, pp. 11, 43, 73; L. Astegiano, Codice diplom. cremonese (715-1334), II, Augustae Taurinorum 1898, p. 25; P. Pellini, Dell'historiadi Perugina, I, Venetia 1664, p. 351; F. Arisi, Cremona literata, Parmae 1702, I, p. 134; L. A. Muratori, Dissertazioni sopra le antichità ital., III, Milano 1751, p. 17; G. Gennari, Annali dellacittà di Padova, III, Bassano 1804, p. 124; G. C. Tiraboschi, La famiglia Picenardi ossia notiziestoriche intorno alla medesima, Cremona 1815, p. 107; S. Grassi, Storia della città d'Asti, I, Asti 1890, p. 252; A. Cavalcabò, I rettori di Cremona, in Boll. stor. cremonese, XX (1955-1957), pp. 131, 136; A. Bianco, Asti medioevale, Asti 1967, p. 234.