GRACCO, Tiberio Sempronio (Ti. Sejnpronius Ti. f. P. n. Gracchus)
Fratello di Gaio Sempronio (v.), nacque nel 162 a. C. Nel 147 a. C. seguì in Africa Scipione Emiliano, che gli era nello stesso tempo cugino per essere stato adottato da un fratello di Cornelia, e cognato per avere sposato la sorella Sempronia, e si distinse nell'assalto del quartiere settentrionale di Cartagine. Tornato in patria, fu nominato augure. Non appena ventenne sposò la figlia di Appio Claudio Pulcro, console nel 143 a. C. Nominato questore nel 137, fu mandato nella Spagna Citeriore al seguito del console C. Ostilio Mancino, e quando l'esercito romano cadde nelle mani dei Numantini, si dovette soprattutto al prestigio del suo nome, nobilitato in quelle regioni dal padre, se i nemici consentirono alla liberazione dell'esercito secondo patti giurati dal console, da T. e da tutti gli ufficiali. Il Senato e il popolo romano negarono la ratifica di questo trattato e consegnarono al nemico il console, suscitando certamente lo sdegno di T.; ma soltanto gli avversardi lui poterono vedere il motivo predominante della sua successiva azione rivoluzionaria in questo personale rancore.
Lo stato romano che era pervenuto con sì aspra fatica secolare alla conquista dell'Italia e con tanta sapienza l'aveva organizzata a unità, che aveva abbattuto la potenza di Cartagine in lotte memorande, ed aveva così assicurato le basi non soltanto della sua vita, ma anche del suo predominio e della sua espansione, troppo rapidamente era stato tratto subito dopo, per un complicato concorso di virtù e di fortune, nel vortice delle conquiste, sicché nel giro di pochi decennî, quali quelli che corsero dalla battaglia di Zama alla distruzione contemporanea di Cartagine e dì Corinto, aveva esteso il suo dominio sulle tre parti del mondo. A Roma erano così rivolti gli occhi di tutti, a lei che sembrava regnare senza bisogno di tirannidi interne, ma nella piena affermazione della sua libertà, col giuoco semplice e meraviglioso di annue magistrature. Così sembrava a Polibio, e a molti osservatori lontani e vicini, ma così non era, poiché quella troppo rapida ascensione già produceva come conseguenza una crisi assai preoccupante non soltanto di carattere morale, ma anche di natura politica, sociale ed economica. Il regime della nobiltà patrizio-plebea si andava di già chiudendo in una oligarchia egoista e prepotente, lacerata da ambizioni e da ardenti rivalità; gli ordinamenti costituzionali non erano più pari ai compiti del governo: scossa l'autorità del Senato, allargato l'arbitrio dei magistrati, specialmente in campo e nelle provincie; intralciato e reso quasi impossibile il funzionamento dei comizî popolari, nei quali pur risiedeva, dal punto di vista teoretico, la sovranità dello stato; arduo e travagliato il processo di fusione nazionale di tutte le forze dell'Italia, nell'aspro contrasto tra cittadinanza romana e federalismo italico.
Più grave di questa crisi di carattere politico era quella sociale ed economica, che si presentava come una fase, ulteriore ed assai più allarmante, dell'antico conflitto tra economia agricola e capitale: il ceto medio rustico, che doveva costituire il nucleo sano della società e la base dell'esercito nazionale, era in piena decadenza. Decimato dalle guerre, non trovava i mezzi per ricomporsi, incalzato ognor più dalla lotta senza quartiere che i ricchi gli davano con l'importazione del grano straniero e soprattutto con l'impiego sempre crescente della mano d'opera servile. La schiavitù, che costituisce una delle ombre più dense e penose della civiltà e della società antica, ebbe ora in Italia una delle sue fasi di massimo sviluppo, e accelerò la rovina del ceto dei liberi lavoratori, perché l'economia a schiavi favorì la sostituzione delle grandi alle piccole aziende, del pascolo alla coltura della vite e dell'olivo, sicché verso la metà del sec. II a. C. l'economia latifondistica, già da tempo trionfante in Sicilia, andava annunciandosi allarmante pure in qualche regione italiana.
La conoscenza di questa situazione agricola ed economica e di tutti i pericoli che ne derivavano per la compagine dello stato, per il nerbo delle sue forze difensive, per il mantenimento del suo impero, furono la ragione principale dell'ardito programma che T. andò formulando. Era noto che le terre si erano accumulate e ogni giorno più si andavano accumulando nelle mani di un cerchio sempre più ristretto di persone, non solo per il libero giuoco dl acquisti regolari e di successioni ereditarie, ma spesso anche per la presa in possesso di terre demaniali (v. agro), di quelle terre, cioè, che, confiscate ai vinti, non erano state né distribuite con assegnazione coloniaria o viritaria, né vendute, né date in regolare appalto, ma rimanevano sotto l'alta proprietà dello stato. Di esse era consentito l'uso a coloro che avessero mezzi sufficienti a coltitivarle, a patto che pagassero allo stato un canone annuo, come segno della precarietà e revocabilità del loro possesso. Non di rado, anzi, l'invito all'occupazione di questa o quella zona dell'ager publicus era venuto da particolari editti di magistrati. Se non che presto era accaduto che, accumulandosi in eccessiva misura possessi nelle mani di pochi, si era sentito il bisogno di leggi regolatrici. La più antica di queste leggi era, secondo la tradizione, quella Licinia-Sestia del 367 a. C., la quale vietò che si potessero possedere più di 500 iugeri di ager publicus. La data e l'attribuzione personale di questa legge possono essere discusse, ma è fuori questione che norme regolatrici del possesso vi dovettero essere già prima del secolo III a. C. È altrettanto certo che tali norme erano andate via via cadendo in desuetudine: i limiti erano stati trasgrediti, il pagamento del canone sospeso, ma non erano nemmeno mancate di tempo in tempo punizioni ai trasgressori e rivendicazioni di possessi abusivi, di guisa che la consapevolezza delle limitazioni legislative e della precarietà del godimento non poteva mai essere stata obliterata. Anzi, durante l'adolescenza di T., due uomini politici, P. Licinio Crasso Muciano, il futuro suocero di Gaio Gracco, e C. Lelio, l'amico di Scipione Emiliano, avevano avanzato proposte di nuove leggi per l'eliminazione degli abusi nel godimento dell'ager publicus, ma questi tentativi erano falliti. Dunque in alcuni circoli, sia pure ristretti, si sentiva, parecchi anni prima del tribunato di T., il peso della questione agraria e appassionatamente se ne discuteva: a questi circoli apparteneva T., e da essi gli venivano nuove suggestioni.
Si aggiunga che maestri greci, quali il retore Diofane di Mitilene e lo stoico Blossio di Cuma, avevano abituato il giovanetto a discutere sulla forma migliore dello stato e sui suoi compiti in rapporto alla distribuzione dei mezzi di sussistenza, o per lo meno avevano portato a sua conoscenza tutto un insieme di teorie politiche a nucleo non romano e spesso antiromano.
Finalmente a tutti questi elementi determinanti si aggiunga ancora la particolare indole di T., pacata e serena, ma incline all'ideale, un po' sentimentale e sognatrice, aperta alla comprensione e al compatimento delle miserie degli umili e dei diseredati, e soltanto così si avrà la spiegazione dell'opera di T.
Egli aveva senza dubbio già in mente il suo programma agrario, quando fu eletto tribuno nel 133, nel quale anno uno dei posti del consolato fu dato a P. Mucio Scevola, noto giurista, preoccupato anche lui della situazione politica del suo paese e non alieno dallo studiarne qualche rimedio. Appena eletto, T. propose senza esitazione il rinnovamento della legge Licinia, con queste attenuarioni che il limite fosse portato da 500 a 750 iugeri per chi avesse un figliuolo, e a 1000 per chi ne avesse due o più, e che le terre legittimamente possedute entro i detti limiti fossero esenti dal pagamento del canone, e non potessero più essere rivendicate. Al contrario tutto ciò che eccedeva la misura stabilita doveva essere restituito allo stato. Le terre demaniali rivendicate dovevano essere distribuite in lotti, dei quali par certo che la legge stabilisse la misura, ma noi la ignoriamo, a cittadini poveri, a condizione che fossero inalienabili e soggette al pagamento di un tributo. La ricognizione delle terre demaniali, la loro rivendicazione, e quindi anche la facoltà giurisdizionale, nei casi, che potevano prevedersi numerosissimi, di contestazione, era affidata a una commissione triumvirale eletta dal popolo. La carica di questi triumviri agris iudicandis adsignandis adtribuendis fu creduto fin qui dovesse essere annuale, sebbene rinnovabile, ma una recente indagine assai dotta e acuta del Carcopino rende assai probabile che la commissione fosse permanente, e che i singoli membri dovessero esercitare a turno la carica fino alla morte. Molto si è discusso sulla questione se e in quanto la legge riguardasse i federati italici, ma la soluzione più probabile pare questa, che le proposte di T. contenessero quanto alle rivendicazioni dei possessi di agro pubblico goduti da Italici le stesse disposizioni che valevano per i cittadini, ma che invece il proletariato italico fosse escluso dalle distribuzioni.
La legge ledeva gravemente gl'interessi della classe abbiente, onde non fa meraviglia che questa corresse al riparo, col mezzo più acconcio che la costituzione metteva a sua disposizione: inducendo cioè uno dei colleghi del tribuno, M. Ottavio, a porre il veto alla discussione della proposta. T. allora si valse del diritto di opporre ostruzionismo a ostruzionismo, col sospendere ogni attività amministrativa e giurisdizionale dello stato. Gli avversarî non si lasciarono intimidire, e quando egli convocò di nuovo le tribù per la votazione, M. Ottavio rinnovò pacatamente il suo veto. Invano T. convocò o lasciò convocare il Senato, e gli chiese, su proposta di due consolari, d'invitare il collega a recedere dalla sua intercessione, o di farsi comunque iniziatore di una formula di conciliazione sulla questione agraria. Il Senato non accettò di porsi per questa via, e allora T. propose senz'altro ai comizî tributi la destituzione del collega, sostenendo che il tribuno, che operasse contro gl'interessi del popolo, abusava della sua carica e ne decadeva; e l'assemblea, composta in gran parte di cittadini affluiti dalla campagna e appartenenti al proletariato rustico, che era interessato all'esecuzione della legge, approvò la destituzione. M. Ottavio, per ordine di T., fu allontanato dal banco dei tribuni, la legge agraria fu votata tra acclamazioni di giubilo, e furono nominati triumviri per attuarla lo stesso T., il fratello ventenne Gaio e suo suocero, Appio Claudio.
Lo sdegno dell'aristocrazia era al colmo: quando i triumviri chiesero i fondi per l'esecuzione del loro mandato, il Senato non concesse che il soldo irrisorio di 24 assi, e più d'uno minacciava di porre T., appena fosse spirato il termine del suo tribunato, in stato d'accusa, sicché egli cominciò a prendere le sue precauzioni, facendosi scortare per le vie da un seguito di tre o quattromila persone, e adottando ogni mezzo per accrescere la propria popolarità. In quel torno di tempo Attalo III, re di Pergamo, era morto lasciando il suo regno e le sue sostanze al popolo romano, e si trovava in Roma l'ambasciatore pergameno, Eudemo, che era venuto ad offrire l'eredità. T. propose senz'altro che il denaro ereditato servisse per fornire ai proletarî i mezzi per lo sfruttamento dei terreni demaniali che sarebbero stati loro distribuiti, e che le disposizioni per la sistemazione del regno Attalico fossero demandate al popolo anziché al Senato, cui per lunga consuetudine spettava dirigere l'amministrazione delle provincie. Cominciarono ad attribuirsi a T. piani tirannici da eseguirsi con mezzi demagogici, e qualcuno vociferò che egli avesse trattato segretamente con Eudemo, e che questi gli avesse offerto il diadema reale. Ed ecco Tiberio far balenare al popolo la prospettiva di altre menomazioni del regime senatorio. La tradizione gli attribuisce progetti sulla formazione dei tribunali, sull'estensione del diritto di provocazione, sull'abbreviamento del servizio militare e sul miglioramento della condizione dei federati italici. Non sappiamo se davvero il tribuno si avventurò in un programma così vasto e complesso, e tanto meno ne conosciamo i particolari; par certo, anzi, che per anticipazione si siano attribuite a lui parecchie delle idee che attuò poi il fratello. Ciò nonostante è parimenti certo che T. non rifuggì dal blandire il popolo con promesse utopistiche. Ma che cosa sarebbe avvenuto, non solo di queste utopie, ma anche della riforma agraria, e che cosa, soprattutto, della persona del tribuno, allo spirare della carica? Ed ecco T. convincersi della necessità assoluta che il tribunato gli venisse rinnovato per un secondo anno. Una simile rielezione forse sarebbe stata illegale, certamente era contraria alle consuetudini vigenti da lungo tempo, ma T. arditamente se la prefisse, e quando le tribù furono convocate per l'elezione dei tribuni, le prime due votarono a favore di lui. Allora gli avversarî negarono la validità di questi voti, comeché illegale era la candidatura: il tribuno Rubrio, che per sorteggio aveva tenuto la presidenza dell'assemblea, vi rinunciò, e, allorché Mucio, che aveva sostituito il deposto Ottavio, si offrì di assumerla lui; gli altri colleghi, ormai alieni dai piani estremi di T., chiesero che il nuovo presidente fosse eletto per sorteggio. T. rimandò la seduta al giorno successivo, ma nella nuova adunanza, avendo gli avversarî rinnovato l'intercessione contro i voti a favore di Tiberio, a questo parve giunto il momento di scatenare la violenza dei suoi seguaci, che in un attimo spazzarono via dall'area del tempio di Giove Capitolino, nella quale si svolgeva la riunione, i loro competitori, e misero in fuga i tribuni.
Intanto il Senato, convocato nel vicino tempio della Fides, seguiva dappresso le mosse dei Graccani, e quando fu riferito che T. aveva portato la mano al capo, il che egli aveva fatto forse per dare a divedere il pericolo che correva, tal gesto fu interpretato come invocazione della corona reale; e molti dei senatori incitarono il console P. Mucio Scevola a salvare la repubblica sopprimendo il reo di alto tradimento, e, poiché il console non acconsentì, P. Scipione Nasica, fanatico e arcigno aristocratico, gridò che tutti coloro ai quali stava a cuore il mantenimento della legge si armassero e lo seguissero. Calata la toga sul capo, egli mosse contro la turba rivoluzionaria, seguito da senatori e cavalieri, schiavi e clienti, armati di bastoni e di stanghe. Questa volta la folla era costituita quasi esclusivamente del proletariato urbano, poiché dei cittadini che attendevano ai lavori agricoli nei loro fondi lungi da Roma quasi nessuno era potuto intervenire, volgendo l'epoca del raccolto del grano, e non fa meraviglia che la massa, in gran parte vile e raccogliticcia, cedesse immediatamente. T. cercò di porsi in salvo con pochi seguaci, ma, essendo sdrucciolato a terra, fu raggiunto al capo da un colpo di bastone di un suo collega, P. Satureio, e steso morto da un secondo colpo infertogli da un tale L. Rufo. Con lui soggiacquero trecento dei suoi seguaci; i cadaveri furono gettati di notte nel Tevere, e invano il fratello Gaio supplicò che gli fosse consegnato per le esequie quello di T.: anch'esso scomparve nei flutti del fiume, gettatovi dall'edile Lucrezio.
Nulla di simile era mai avvenuto in Roma. Nella prima grande lotta secolare tra plebe e patriziato, le vittime si eran potute contare sulle dita o giù di lì; ora invece copiosissimo sangue cittadino aveva bagnato il Campidoglio; alle competizioni di partito era subentrata la lotta violenta, ai conflitti costituzionali la rivoluzione. Non a torto videro i posteri vicini che così tremenda catastrofe aveva inaugurato una nuova epoca: quella funesta delle guerre civili, nelle quali doveva andare sommersa per il popolo romano quella che era stata la maggior conquista e la maggiore gloria della civiltà classica: la libertà politica. Tale essendo la portata della tragedia del primo dei Gracchi, e l'opera sua avendo scatenato così violente passioni, non fa meraviglia che essa sia stata giudicata dai contemporanei, che l'avevano vissuta, nei modi più opposti: gli aristocratici, dalle cui fila T. era uscito, lo considerarono come un rinnegato, aspirante al sovvertimento dell'ordine costituito e alla tirannide. È questa la concezione che affiora già nelle lettere di Cornelia al figlio Gaio, che, se non autentiche, certo sono di redazione assai antica, e si prosegue, sebbene più moderatamente, in Posidonio, e con coloritura maggiore o minore, a seconda delle circostanze e del momento, in molti luoghi di Cicerone. Pei democratici il giudizio è invertito: non aspirava al regno T., ma a restituire il proprio alla plebe, e la sua soppressione fu delitto abbominevole. È questa la concezione rappresentata soprattutto dall'autore della Rhetorica ad Herennium, e alla quale farà, in altri luoghi, notevoli concessioni anche Cicerone. E quando poi il conflitto aperto da T. fu chiuso con la caduta del regime senatorio, le voci di lode si fecero più alte, e nelle fonti del periodo imperiale vediamo farsi strada una concezione sine ira et studio, che esalta le doti, le qualità, l'educazione, i sentimenti, le intenzioni di T., ma spesso disapprova i mezzi e le conseguenze del suo operato.
E come tra gli antichi, così tra i moderni la concezione e il giudizio sull'azione di T. furono spesso diametralmente opposti, perché in sostanza quell'azione non fu che un episodio dell'eterna lotta immanente nella storia dell'umanità, tra l'ideale aristocratico e quello democratico, più particolarmente fu un episodio in cui si affrontò il problema della distribuzione del possesso agrario in rapporto coi poteri dello stato. Ed è assai difficile che uno scrittore possa sottrarsi all'inclinazione per l'uno o per l'altro di quegl'ideali.
A noi par certo che l'obiettivo, cui T. mirava, di sollevare le condizioni del ceto agricolo, di preservarlo dalla rovina dinanzi al capitalismo invadente e di consolidare le basi dell'esercito nazionale, fosse dei più elevati ed essenziali per la vita dello stato; che la legge agraria da lui proposta, sebbene non potesse non ledere una grandissima somma d'interessi, fosse nel tutto insieme rispettosa dell'equità e della legalità, in quanto che la rivendicazione dei possessi abusivi, lungi dal costituire un'espropriazione, non era che l'applicazione di un'antica legge, alla quale non erano mancati richiami, anche abbastanza recenti; che l'opposizione dei ricchi fosse cieca ed egoista; che in ciò si trovi la giustificazione degli atti rivoluzionari adoperati da T. (e atti veramente tali furono la soppressione del diritto di veto del collega, la deposizione del medesimo, la tentata rielezione al tribunato); che se illegali furono questi atti, altrettanto illegale sia stata la reazione violenta e la soppressione del tribuno. Se a T. spetta la responsabilità della prima illegalità, alla nobiltà spetta quella della prima strage sanguinosa; e dal punto di vista morale è questa che desta il maggiore orrore e la maggiore riprovazione. Ma l'esito della lotta dimostrò che i tempi non erano ancora maturi alla rivoluzione, e ciò soprattutto per l'incapacità dell'assemblea cittadina di esercitare in pieno la sovranità, della quale era investita, sostituendosi al Senato. Né T. era una personalità così geniale e possente da far trionfare la rivoluzione mercé una dittatura; onde si deve concludere che egli politicamente sbagliò, e firmò egli stesso la sua condanna di morte.
Bibl. e fonti: v. gracco, gaio sempronio.