FOLENGO, Teofilo
Al secolo Girolamo, nacque l'8 nov. 1491 a Mantova, in contrada Monticellì Bianchi, nella casa che la madre Paola Ghisi, di ricca stirpe mercantile, aveva portato in dote nel 1474. Il padre del F., Federico, notaio e figlio di notai, apparteneva ad un'antica famiglia mantovana legata ai Gonzaga.
Lo stemma gentilizio dei Folengo, tre folaghe nere in campo giallo, esprime con immediatezza una caratteristica spirituale della famiglia: il forte legame con una realtà specifica di acque e terra, animali, lavoro. Questa realtà è l'istanza espressiva fondamentale della poesia maccheronica. Al retaggio della famiglia appartiene anche il gusto degli studi grammaticali e retorici. Prozio del F. fu infatti Vittorino da Feltre, ed un fratello del notaio Federico, Nicodemo, buon letterato e familiare del marchese, aveva cercato di migliorare la propria situazione cortigiana dedicando a Federico da Montefeltro ed a Lorenzo de' Medici due sillogi poetiche (ora in N. Folengo, Carmina, a cura di C. Cordié e A. Perosa, Pisa 1990) composte da versi ed epigrammi d'argomento convenzionale, galanti ed osceni, in elegante latino quattrocentesco. All'influenza di Vittorino da Feltre e alla sua pietas austera, segnata da una vena d'ascetismo laico, va ricondotto il terzo elemento che caratterizza la famiglia Folengo: la sensibilità religiosa. Sei figli del notaio Federico appartennero all'Ordine benedettino e uno, Silvestro, fu monaco agostiniano.
Nel 1508 il F. entrò come postulante nel monastero di S. Eufemia a Brescia, dove il 24 giugno 1509 pronunciò i voti ed assunse il nome di Teofilo. Le sue vicende biografiche fino al 1525 sono tutte rintracciabili nei registri delle matricole e nei capitoli dei monasteri appartenenti alla Congregazione benedettina.
Negli anni del soggiorno bresciano (1508-1510) il F. fu studente di filosofia sotto la guida di Antonio da Travagliato, maestro dei novizi, e fu compagno di M. Croppelli da Brescia, di pochi anni più anziano, futuro teologo della Congregazione e corrispondente di B. Ochino. Quei tempi furono politicamente drammatici per i territori veneziani di frontiera. Il monastero di S. Eufemia fu danneggiato dalle truppe francesi di Gaston de Foix e messo a sacco; l'abate cellerario, il nobile bresciano T. Bona, colto letterato ed autore di ecloghe virgiliane sulla degenerazione della vita civile, fu torturato e ucciso nel febbraio del 1512. Il F. lasciò Brescia subito dopo la caduta della città e non c'è memoria nella sua opera della grande peste che a pochi mesi dall'assedio decimò la popolazione. È probabile che il giovane monaco sia passato in un monastero più importante per completare la sua educazione con lo studio del diritto canonico, della logica e della teologia. Il 4 dic. 1512 lo troviamo nel capitolo del convento di S. Benedetto di Polirone, accanto a suo fratello Giambattista, a Dionisio Faucher, a Luciano degli Ottoni e Benedetto da Mantova. Vi appare anche - in posizione eminente per nascita, cultura e prestigio spirituale - Gregorio Cortese, futuro cardinale, corrispondente di P. Bembo e collaboratore dei più illustri esponenti della devotio moderna nella Curia romana.
Sono tutti raffinati umanisti interessati particolarmente allo studio della Bibbia ebraica ed alla patrologia greca. La teologia benedettina del primo'500 e l'insegnamento nei grandi monasteri si fonda infatti sulla esegesi delle Lettere di s. Paolo e sugli scritti della scuola di Antiochia, in particolare di Crisostomo: in tal modo la problematica legata al peccato, alla grazia e alla libertà umana è posta al centro della vita spirituale e della speculazione teologica. Anche per questo i benedettini furono guardati con diffidenza dalla Curia e sospettati di simpatie luterane nei momenti più aspri della polemica religiosa cinquecentesca.
Il F. rimase non più di un anno a S. Benedetto: è difficile dire quanta influenza abbia esercitato sul monaco ventiduenne l'incontro con questo gruppo di dotti confratelli. È certo però che la "teologia" di Merlino nel Baldus e quella di Limerno nell'Orlandino, la critica di certe istituzioni e tradizioni ecclesiastiche, la difesa della testualità biblica, l'irrisione verso le più diffuse forme di superstizione - motivi costanti nelle opere del F. - consigliano di non sottovalutare quella esperienza.
Da S. Benedetto di Polirone il F. passò a S. Giustina di Padova per un altro anno di studio (1513-1514). Non abbiamo di questo soggiorno una documentazione diretta, esso è attestato soltanto da riscontri interni alle più antiche redazioni delle Maccheronee.
L'ambiente padovano fu in ogni modo al centro dell'esperienza giovanile del F., in primo luogo per la tradizione maccheronica, identificata con sicurezza nel padovano Tifi Odasi, la cui Macaronea - con la Tosontea del magister Corado e con l'anonimo, ma certo padano, Nobile Vigonze opus - costituisce l'incunabolo linguistico e tematico del genere. È una letteratura giocata sulla deformazione del latino dotto mediante l'immissione dei termini volgari del dialetto e del parlato quotidiano: tecnica che sarebbe impensabile fuori dallo Studio padovano, fuori dalla circolazione burlesca di scritti satirici contro maestri e studenti, poiché costituisce un linguaggio iniziatico, elitario. Inoltre il F. si finge, nella Zanitonella e nel Baldus, distratto scolaro del maestro e filosofo padovano P. Pomponazzi, professore a Padova fino al 1509, quindi insegnante a Bologna. Se un rapporto diretto è da escludere, innegabile è invece la suggestione esercitata sul giovane benedettino pronipote di Vittorino da Feltre dal filosofo materialista, ateo e libertino, famoso per il suo linguaggio colorito che abilmente mescolava, a fini espressivi, latino, volgare e dialetto, termini colti ed espressioni idiomatiche, lessico filosofico e detti triviali.
Non è facile seguire i movimenti dei F. da allora in poi. Nel 1517 soggiornò a Cesena nel monastero di S. Maria del Monte, dove è nominato in maggio e ottobre nel libro delle spese, quindi è probabile sia ritornato definitivamente a S. Eufemia a Brescia.
Qui venne ordinato sacerdote: "Teofilo da Mantova" è infatti qui registrato nel capitolo del 30 genn. 1520. Il suo ruolo nella vita del monastero fu quello di amministratore: Giambattista Folengo dice, in una pagina dei Pomiliones (Dialogi quos Pomiliones vocat, "in promontorio Minervae" 1533), che il F. per un sessennio si occupò degli affari ordinari senza mai raggiungere posizioni di grande responsabilità. Il monastero benedettino nel '500 è infatti una vera azienda di produzione e commercio, in contatto con il mondo del lavoro, dei traffici, degli scambi. Tra esperienze di vita apparentemente lontane dal mondo spirituale di un chierico maturò nel F. una precisa vocazione artistica. Proprio un tipografo bresciano, Paganino Paganini, in rapporto d'affari con il convento di S. Eufemia anche a causa di un'eredità contesa pubblicò la prima redazione delle Maccheronee folenghiane con il titolo Merlini Cocai poëta e Mantuani Liber Macaronices: nel colophon la nota "Venetiis in aedibus Alexandri Paganini MDXVII". L'anno di edizione andrà forse inteso, more veneto, 1518. La stampa, bellissima, comprende due ecloghe maccheroniche e un poema, il Baldus, in 17 libri di esametri. È la prima apparizione di un poeta nuovo, Merlin Cocai, nato a Cipada, il borgo che fronteggia la virgiliana Pietole. È un poeta "trippiferum": ben nutrito da una merla (quasi come Platone, nutrito nella leggenda da uno sciame di api) e allevato dal precettore Cocaio (cocaius, coconus, cocchiume, tappo della botte). Dal vino dunque e da gran piatti di gnocchi egli trae un'ispirazione lieve, giocosa. Merlin Cocai è il "nome di leggerezza" (cfr. Caos e Umanità) che il F. non ripudiò mai, facendo anzi derivare da questo gli altri suoi pseudonimi: il sentimentale Limerrio ed il serioso Fulica.
L'ambizione del giovane monaco è la parodia dei modello virgiliano: parodia linguistica realizzata inserendo vistose tessere dialettali in una struttura prosodica, morfologica e sintattica che appare come citazione colta. Così il virgiliano "Tityre tu patulae recubans sub tegmine fagi" (Bucolicae, III, 1) diventa, nella prima egloga folenghiana, "Tu solus, Bigoline, iacens stravacatus in umbra". Dunque la tecnica della maccheronea implica nel lettore (e, prima, nello scrittore) la compresenza simultanea di almeno tre elementi: il modello virgiliano, la ripresa di quel modello nella produzione colta volgare e latina del '300 e del '400, il presente delle parlate locali, dei gerghi: la vita quotidiana insomma. Anche sul piano tematico la novità del Macaronices liber è netta: il pastore e l'eroe, ancora atteggiati idealisticamente nel Sannazaro, nel Pontano o in Boiardo, trasferiti nel mondo maccheronico vincono in realismo gli esperimenti rusticali toscani, la Nencia di Lorenzo de' Medici, il Morgante. Come nella produzione popolareggiante settentrionale, specialmente nelle farse e nei contrasti in dialetto pavano, con Merlin Cocai irrompe nel mondo dei generi letterari "alti", dunque nel sistema dei valori che quei generi tradizionalmente esprimono - eroismo, amor patrio, virtù guerriera, otium e serenità della vita rustica - il comico di Dante e Boccaccio, dell'Alberti e del Pulci: la fondamentale istanza espressiva, naturalistica, che mostra la realtà come groviglio e pasticcio, mescolanza di bene e male, di alto e basso, di serio e bizzarro. Una realtà determinata da istinti e bisogni, prima che da desideri o ideali. È una dimensione antropologica nuova, una visione del mondo capovolta: ciò che è basso, chiuso nelle profondità della terra e del corpo, di norma taciuto nella cultura ufficiale, è portato alla superficie e proclamato come realtà unica, come verità. Simmetricamente ciò che è alto, nella mente umana e nella volta del cielo, è risospinto nel silenzio. Così il contadino delle ecloghe folenghiane è determinato da bisogni primari, l'amore per lui è istinto e necessità: per questo è pronto ad azzuffarsi, a tradire, a uccidere; nella realtà del suo mondo di "villano" non ci sono valori. Così Baldo, l'eroe teppista, dopo aver esercitato la crudele e beffarda agilità della giovinezza contro i miserabili borghigiani di Cipada, dovrà, scendere negli inferi per scovare quei valori astratti che, con la sua etichetta di eroe, si sente chiamato a combattere: ma qui sarà costretto a ritirarsi.
Di questa prima edizione delle Maccheronee furono fatte due ristampe, a Venezia presso C. Arrivabene nel 1521, a Milano presso Agostino da Vimercate nel novembre 1520. Nel gennaio del 1521 apparve, sempre presso la tipografia dei Paganini a Toscolano, una seconda edizione delle Maccheronee., ornata da splendide xilografie, con il titolo di Opus Merlini Cocai poetae Mantuani Macaronicorum. Il volume si compone della Zanitonella, "quae de amore Tonini erga Zaninam tractat" in 21 liriche, del Baldus in 25 libri e 12.000 versi (il doppio della prima edizione), dell'inedita Moschaea, poemetto in distici elegiaci sulla battaglia tra mosche e formiche, e di un Libellus epistolarum et epigrammatum. L'autore stesso, nella Apologetica in sui excusatione, dà ragione delle sue scelte contenutistiche e formali: come i maccheroni sono "quoddam pulmentuin farina, caseo, botiro compaginatuin grossum, rude et rusticanum" così la poesia maccheronica necessanamente contiene "grassedinem ruditatem et vocabulazzos".
Rispetto alla redazione precedente la Toscolana esprime un'ambizione letteraria che va al di là della parodia e della citazione burlesca. C'è ormai nel F. una consapevolezza di poetica, cioè di istanze espressive e di procedimenti tecnici, che inserisce il maccheronico nel vivo della querelle cinquecentesca tra latino e volgare, toscano e dialetto, imitazione del decoro classico e moderna rifondazione dei modelli. La Zanitonella, fin dal titolo esemplato sulla dialogistica erotica tardo antica, entra in un rapporto parodico con Petrarca ed il petrarchismo quattrocentesco, con gli innumerevoli sonetti ed elegie di argomento amoroso e di stile elevato. Se Virgilio resta il modello per le 7 egloghe rusticane, è un modello trasformato da una potente iniezione di realtà. Parodia e realismo collaborano nel mondo del Folengo. Il comico grottesco serve al poeta per distruggere lo schema letterario obsoleto: ma allo stesso tempo, paradossalmente, quello schema sembra riprendere vita proprio attraverso i "vocabulazzi", rigenerandosi dal basso. Il Baldus è ampiamente rielaborato in questa seconda redazione con l'aggiunta di 8 libri di avventure infernali, la guerra di Baldo contro le streghe, i diavoli e le astratte ideologie che corrompono la vita degli uomini. Il linguaggio maccheronico appare rinnovato da una sempre più sottile fusione tra la componente latina e quella volgare. L'invenzione linguistica sembra incontenibile: il testo è accompagnato da glosse che, allo scopo di chiarire il significato o l'area geografica dei termini più originali, finiscono per costituire un commento "grammaticale" esilarante, fornendo liste di sinonimi e contrari, inventando grottesche etimologie.
Il successo di pubblico delle Maccheronee - anche la Toscolana ebbe una seconda edizione a Milano presso Agostino da Vimercate nel 1522 - non mise al riparo il F. dai problemi interni all'Ordine benedettino. La morte di Giovanni Comer, protettore dei Folengo ricordato con affetto nella Zanitonella (ecl. XXI), permise l'ascesa alla presidenza della Congregazione del fiorentino Ignazio Squarcialupi, legato alla Curia romana, fedele alla politica accentratrice dei papi medicei. Opposto era stato lo spirito della riforma benedettina voluta da Ludovico Barbo e portata avanti dal Comer, che stabiliva cariche elettive e periodiche. L'opposizione dei monaci veneti al programma dello Squarcialupi di trasformare in vitalizia la nomina di presidente della Congregazione fu netta. Allo stato attuale della documentazione possiamo ipotizzare che lo scontro in seno alla Congregazione tra la linea fiorentina e quella veneta abbia coinvolto almeno tre fratelli Folengo. Ludovico, cellerario a S. Benedetto di Polirone, fu accusato di irregolarità amministrative e di immoralità e nel 1524 fu processato ed espulso dalla Congregazione. Il F., assicuratosi il favore del doge Andrea Gritti, andò a, Venezia: ottenne la dispensa dai voti e, dal punto di vista disciplinare, non ci fu niente di scandaloso nella sua uscita dal convento. Nel 1527, anche il F. venne formalmente accusato di furto da due confratelli, Alberto da Carpi e Sebastiano da Firenze. Contro questi due "furfanti" id F., che ormai viveva liberamente a Venezia, si vendicò con maligne allusioni nell'Orlandino e nel Caos.
A Venezia, "di tutta Italia nutrice" (Caos, p. 269), egli trovò protezione presso un nobile umanista, Francesco Grifalcone. Tentò le due strade che si aprivano in quegli anni per un letterato privo di sostanze personali: la collaborazione con l'industria tipografica e l'insegnamento privato. Con lo pseudonimo parlante di Limerno Pitocco stampò nel 1526 a Venezia presso Gregorio De Gregori l'Orlandino, che ebbe quello stesso anno una seconda edizione sempre a Venezia presso i fratelli da Nicolini Sabbio: sempre nel 1526 (ristampato l'anno successivo) pubblicò con gli stessi editori il Caos del Triperuno. Nel frattempo entrava nella casa di Camillo Orsini capitano della Repubblica veneta, come precettore del figlioletto Paolo; con questo fu a Roma negli anni del sacco, come testimonia l'episodio di Pasquino nel Baldus (XXIII, pp. 232 ss.) dettagliato ed icastico nell'ambientazione romana. Camillo Orsini, amico dei benedettini più influenti, era uno "spiritualista" fervente. Contro di lui Pietro Aretino scrisse un sonetto velenoso, irridendo la sua pietà al limite della bigotteria e deprecando la protezione data da un capitano della Repubblica alla Congregazione dei teatini e alle più svariate opere pie. Il F. rimase al servizio dell'Orsini per cinque anni; è probabile che durante il soggiorno veneziano egli abbia conosciuto e frequentato l'Aretino. Comune ad entrambi è il gusto anticlassicista, fondamentalmente parodico, che dissolve il modello consacrato dal successo di pubblico e dalla sollecitazione dei committenti (sia questo il romanzo cavalleresco o il trattato morale) in una forma bizzarra, sostenuta da un linguaggio vivacissimo che non rifiuta il lazzo e l'allusione oscena.
L'Orlandino, in ottave, narra la fanciullezza di Orlando, inserendosi nella tradizione semipopolare dei cantari dedicati all'infanzia dell'eroe. Il poema e una successione di quadri slegati: l'antefatto (l'innamoramento di Berta e Milone) occupa sei canti, le gesta dell'eroe sono narrate nel settimo canto, mentre l'ultimo è dedicato ad una novella anticlericale. L'autore, consapevole del procedere digressivo e "pretestuale" del suo poema, farcisce di considerazioni satiriche e di pungenti citazioni paoline il grasso, sboccato, plebeo ritmo delle azioni. I suoi personaggi professano opinioni religiose venate di protestantesimo, rifiutano l'autorità papale, deridono la confessione auricolare, tuonano contro la vendita delle indulgenze: ma tutto con prudente ambiguità. I proclami evangelici di Berta, ad esempio, sono accompagnati da un'ironia plebea che ne attenua il significato eversivo. Certamente l'Orlandino non è un libro composto a tavolino, in un attento dosaggio di elementi, come il Baldus: l'epigrafe posta in capo all'edizione da Sabbio "mensibus istud opus tribus indignatio fecit" lo qualifica come libro di battaglia, composto in fretta e dettato da uno spirito amaro che spesso soverchia il sicuro istinto comico. Va notato che in questo suo primo esperimento volgare il F. appare isolato sulla scena letteraria: ascriverlo a quel settore della poesia italiana che si identifica nello sperimentalismo e nell'espressionismo linguistico di marca toscana, da Burchiello a Pulci, significherebbe trascurare la fierezza con la quale egli si proclama "lombarduzzo mangiarape" di contro al "tosco chiacchiarone", la consapevolezza di far parte di una tradizione lontana da quella, fiorentina, che Pietro Bembo proprio in quegli anni additava come modello agli scrittori volgari.
La rivendicazione di una "linea lombarda" di alta tradizione letteraria viene ribadita nel Caos del Triperuno dove, nel primo dialogo della selva seconda, poeti latini e volgari, prosatori e lirici, vengono accostati gli uni agli altri perché per il F. ormai generi, stili e linguaggi non sono più gerarchicamente ordinabili. Il Caos è infatti un'opera di grande audacia formale, mescola prosa e poesia, Petrarca e Dante. E un testo fondamentalmente visionario, pieno di simboli e di allegorie, complicato da glosse ora erudite ora burlesche, intessuto di acrostici. Costruito sul classico pattern allegorico delle tre età dell'uomo si carica di significati autobiografici. Tre sono infatti gli alter ego dell'autore: Merlino, il poeta maccheronico ormai grasso e vecchio, Limerno, il rimatore volgare di scuola petrarchesca (troppo compiaciuto dei suoi "beschizzi" per essere preso sul serio) e Fulica, lemma virgiliano per folaga, il teologo astratto e presuntuoso, eroe del regno della superfluità. La conciliazione di queste tre anime, che sono poi le tre maniere letterarie del F., è poeticamente un azzardo.
Nel 1530 il F. lasciò Venezia ed intraprese un periodo di vita eremitica. Insieme con il fratello Giambattista fu per un breve periodo sul monte Conero, vicino ad Ancona. Lo testimonia la prefazione alla terza edizione delle Maccheronee, la Cipadense, che di quello spostamento ci dà la data precisa, 20 ottobre. È un periodo di riflessione e di penitenza, necessario preludio al rientro del F. e di Giambattista (se per questo si trattò di rientro) nell'Ordine benedettino. Le ragioni di tale rientro furono certamente politiche, come politico (di equilibri interni alla Congregazione) fu a suo tempo il motivo dell'allontanamento. Morto lo Squarcialupi nel 1526 e Sebastiano da Firenze nel '27 si determinò la sconfitta e lo scioglimento del partito fiorentino. La preghiera dei due fratelli di essere riammessi in convento fu appoggiata dal duca Federico Gonzaga, protettore tradizionale della famiglia Folengo, e dal cardinale G. Cortese, ma furono loro richiesti tre anni di vita eremitica. Testimonianza letteraria di questo periodo sono i già citati Pomiliones, dialoghi latini di Giambattista ed il Varium poema del F., una racccolta di poesie latine di argomento e forma diversi. U due opere furono stampate insieme a Venezia da A. Pincio con la falsa data di 1533 (in realtà 1535).
Dal monte Conero i Folengo scesero in Campania passando da Tossicia, in Abruzzo, nominata nei Pomiliones e si stabilirono presso il monastero abbandonato di S. Pietro a Crapolla nella penisola sorrentina. In questo luogo solitario il F. compose il poema volgare in ottave L'umanità del Figliolo di Dio, in 10 libri: opera che doveva favorire la sua riammissione nella Congregazione.
Stampata a Venezia dal Pincio con la data 1533, è dedicata "alli valorosi campioni di Cristo e del Padolirone abitatori", cioè ai monaci di S. Benedetto di Polirone. Il poeta si dice pentito di aver gettato via il tempo giovanile "dietro al ridiculoso Baldo"; ma al di là di questa formale ritrattazione rimane la coscienza del valore dell'attività letteraria e l'orgoglioso rifiuto non solo delle critiche dei pedanti ma anche dei consigli di censori e revisori ecclesiastici. Se ci fosse bisogno di sottolineare, lo spirito indipendente e affatto umiliato del poeta basti notare che la prosa dedicatoria si chiude con l'esaltazione di Ludovico Ariosto, morto quello stesso anno, in quanto cantore dei laicissimi valori dell'arte, delle armi e della cortesia. È insomma un'opera audace che rivendica, in tempi di polemica antiluterana, il diritto di esporre ai lettori il Vangelo in lingua volgare. Così i versi del poema, veloci come quelli dell'Orlandino, come quellì linguisticamente coloritì e pittoreschi, percorrono con potenza figurativa ed originalità d'impianto tutta la storia della salvezza, relegando in glosse latine marginali richiami ai luoghi canonici del Vecchio e Nuovo Testamento.
La vicinanza di Sorrento ad un centro culturale importante come Napoli suggerisce, attraverso i nomi che affiorano nel Varium poema e nell'Umanità, un contatto tra il F. e gli accademici pontaniani: in particolare Matteo Acquaviva, Scipione Capece, Vittoria Colonna e Girolamo Seripando. Tutti letterati finissimi, seguaci dell'insegnamento di Juan de Valdés, affini dunque, per gusti letterari e sensibilità spirituale all'anticonformista religiosità dei Folengo.
Nel 1533 il F. fu di nuovo a Venezia, occupato all'edizione dell'Umanità per la quale ottenne dal Senato veneto il privilegio di stampa per un decennio in data 10 luglio 1533. Viveva nel convento di S. Giorgio Maggiore, retto dal Cortese, nominato con affetto nell'opera appena edita ed amico sicuro del F.: nello stesso luogo si trovava anche Benedetto da Mantova. È probabile che allora sia avvenuto, mediatore il cardinale Cortese, l'incontro tra il F. e l'Ariosto, incontro ricordato nella prefazione all'edizione postuma delle Maccheronee. I due Folengo furono riammessi nell'Ordine nella primavera del 1534 su istanza di Federico Gonzaga, "sperando che... se debiano disponere a deportarsi meglio per l'avvenire che non hano facto per el passato", come scrisse al marchese Leonardo da Pontremoli, presidente del capitolo generale della Congregazione. Per il F. iniziò una modesta carriera ecclesiastica: tra il 1536 ed il '39 fu a S. Eufemia, poi fu rettore a S. Benedetto di Capua ed infine a S. Maria del Giogo sul lago d'Iseo. Erano monasteri poveri ed isolati nella campagna, quasi degli eremi. La Congregazione non si fidava ancora pienamente di lui? Non è un caso se l'edizione congiunta dei Pomiliones e del Varium poema apparve alla macchia, con falsa data (come è stato già detto) e falso luogo di stampa ("In promontorio Minervae ardente Sirio", cioè nella penisola sorrentina: ma a Venezia presso A. Pincio). Lo stesso avvenne per la terza redazione delle Maccheronee, il Macaronicorum poema, la cui composizione è databile tra il '30 ed il '35: l'anno di stampa manca, le note tipografiche sono di fantasia, "Cipadae apud magistrum Aquarium. Lodolam".
Nella breve prefazione in corretta prosa volgare si afferma che l'opera è stata completamente riscritta dall'autore, a Venezia, prima di partire per gli eremi: egli è ora rivolto ad interessi diversi e rifiuta la sostanza faceta ed irriverente dei poema. Come non vedere, in queste parole, una dissimulazione dettata dalla prudenza e forse dalla paura? La prefazione è firmata dal fratello Francesco, rimasto allo stato laicale. Sicuramente d'autore è l'epistola che chiude il volume, in nome di "Niccolò Costanti altramente lo scorrucciato a li lettori", contenente brillanti osservazioni sulla lingua volgare e su quella maccheronica. Questa terza redazione è l'ultima completamente rivista dall'autore: è testimonianza di un lavoro assiduo e complesso di riscrittura, nella totale fedeltà ad uno strumento espressivo congeniale. La maccheronea, il piacere della creazione linguistica attraverso l'interferenza dei codici, accompagnò il F. per tutta la vita, da Padova a Napoli, da Venezia a Palermo.
Nel 1538 il F. fu inviato in Sicilia, allora governata da Ferrante Gonzaga, i cui monasteri erano stati uniti alla Congregazione cassinese nel 1506. Numerosi monaci mantovani avevano soggiornato nell'isola, dove erano stati mandati forse allo scopo di staccarli dall'ambiente d'origine: il caso più famoso è quello di Benedetto da Mantova, a Catania tra il'37 e il'39, che qui compose il Beneficio di Cristo. Il F. fu destinato a S. Martino alle Scale, presso Palermo, e qui riprese l'attività letteraria sperimentando un genere nuovo per lui, il teatro. Compose infatti una sacra rappresentazione, l'Atto della Pinta, più volte messa in scena (come attesta la complessa tradizione autografa manoscritta); è una storia della redenzione, da Adamo a Cristo, in corretto latino liturgico, primo esempio in Italia di auto sacramental sull'esempio spagnolo.
La scoperta del teatro è la sorpresa che l'ultimo F., il F. devoto, riservò ai suoi lettori. La percezione della storia sacra come palcoscenico di eventi mirabili nella loro semplicità e nel ritmo sorprendente dei loro accadere portò il poeta alla composizione dell'Hagiomachia, una raccolta di 18 vite di martiri in esametri latini e della Palermitana, poema volgare in terzine, ricco di reminiscenze dantesche.
Da S. Martino alle Scale il F. passò come priore a S. Maria delle Ciambre, dove rimase fino al 1542. In questo stesso anno ritornò in terra veneta: fu nominato priore di S. Croce in Campese, piccolo monastero immerso nella campagna alle foci dei Brenta, dipendenza modesta di S. Benedetto di Polirone, dove morì il 9 dic. 1544.
Otto anni dopo, nel 1552, apparve a Venezia la quarta, definitiva, redazione delle Maccheronee, Merlini Cocaii poetae Mantuani Macaronicorum poëmata, con prefazione firmata da un misterioso Vigaso Cocaio. Non sappiamo chi sia nascosto sotto questo nome: se, ancora una volta, il F. oppure, considerando il tempo trascorso dalla morte dell'autore, un tipografo e curatore di testi cinquecentesco. Vigaso Cocaio, in corretto volgare letterario, narra la leggenda biografica di Merlino, studente a Bologna, poeta, cortigiano, soldato e romito, e suggerisce una lettura in chiave del personaggio di Baldo, al secolo Francesco Donesmondi, amico del F. e come lui figlioccio del marchese Francesco Gonzaga. L'intenzione è quella di proporre una lettura delle Maccheronee sul modello della più recente letteratura volgare, attenta a catturare l'interesse del pubblico "attualizzando" anche una scrittura fuori del tempo come quella folenghiana. Certamente d'autore è la revisione dei primi otto libri del Baldus, vero capolavoro d'impasto linguistico: il pulmentum di elementi eterogenei (latino, dialetto, volgare letterario, latino umanistico) che dà vita al maccheronico è qui fuso, omogeneo, calibratissimo. Non è più la grottesca mescolanza dei goliardi padovani, che procedeva per accostamenti casuali. È una lingua nuova che spinge le sue radici nella profondità della terra, in zone geografiche ed in strati sociali altrimenti condannati al silenzio: complessa, lavorata, "colta" come quella della più alta letteratura rinascimentale. Il F. nei suoi ultimi anni certamente lasciò cadere la timidezza che gli aveva fatto pronunciare, nell'edizione Toscolana, il lamento sulla inferiorità poetica dei moderni rispetto agli antichi; egli ormai sa di aver messo al mondo, come Ariosto, come Machiavelli, come Aretino, un'opera viva che parla il suo proprio e personalissimo linguaggio.
Opere: Le Maccheronee, a cura di A. Luzio, Ban 1911 e 1927-28 (edizione della Vigaso Cocaio); Opere italiane, a cura di U. Renda, Bari 1911-14 (Orlandino, Caos, Umanità, Palermitana, Atto della Pinta, due passiones dall'Hagiomachia); Il Baldus e le altre opere latine e volgari a cura di U.E. Paoli, Firenze 1941; Il poema vario, a cura di C.F. Goffis, Torino 1958; Il Baldo, a cura di G. Dossena, trad. di G. Tonna, Milano 1958; Zanitonella, a cura di G. Bernardi Perini, Torino 1961; R. Folengo poeta latino. Dall'Hagiomachia, a cura di E. Bolisani, Palermo 1961; Opere di T. F., a cura di C. Cordié, Milano-Napoli 1977; Moscheide, a cura di E. Faccioli, Mantova 1983; Macaronee minori, a cura di M. Zaggia, Torino 1987 (ed. critica); Baldus, a cura di E. Faccioli, Torino 1989; Orlandino, a cura di M. Chiesa, Palermo 1991.
Bibl.: A. Luzio, Studi folenghiani, Firenze 1899; G. Billanovich, Tra don T. F. e Merlin Cocai, Napoli 1948; C.F. Goffis, L'eterodossia dei fratelli Folengo, Genova 1950; C. Filosa, Nuove ricerche e studi su T. F., Venezia 1953; E. Menegazzo, Contributo alla biografia di T. F., in Italia medievale ed umanistica, II (1959), pp. 367-408; C.F. Goffis, Per la biografia dei Folengo, in Rinascimento, XI (1960), pp. 193-206; U.E. Paoli, Il latino maccheronico, Firenze 1959; C. Segre, Lingua stile società, Milano 1963, ad Ind.; G. Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo, in La poesia rusticale del Rinascimento, Roma 1969, pp. 43-55; B. Migliorini, Aspetti rusticani del linguaggio maccheronico, ibid., pp. 171-194; B. Nardi, Saggi sulla cultura veneta del 400 e 500, Bari 1973, ad Ind.; L. Lazzerini, Per latinos grossos, in Studi di filologia italiana, XXI (1971), pp. 219-239; N. Borsellino, Gli anticlassicisti del 500, Bari 1973; C. Mutini, L'autore e l'opera, Roma 1973, pp. 138-157; L. Messedaglia, Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, Palermo 1973; E. Bigi, L'episodio di Caronte nel Baldus, in Studi in onore di L. Russo, Pisa 1974, pp. 32-49; Eresia e riforma nell'Italia del '500, Firenze-Chicago 1974, ad Ind.; S. Isella, Ariosto e F., in Ariosto: lingua stile e tradizione, Milano 1976, pp. 39-48; E. Bonora, Retorica e invenzione, Milano 1979; Cultura letteraria e tradizione popolare in T. F., Milano 1979, ad Ind.; L. Lazzerini, Una lettura folenghiana, in Testi e interpretazioni, Milano-Napoli 1978, pp. 409-424; Id., F. e dintorni, Brescia 1981; M. Fogarasi, Lingue e dialetti nel maccheronico folenghiano, in Il Rinascimento ... problemi attuali, Firenze 1982, pp. 393-401; A. Cavarzere, La tradizione manoscritta della Hagiomachia di F., in Italia medievale e umanistica, XXVII (1984), pp. 267-310; C.F. Goffis, Interpretazione del Ianus di T. F., in Giornale stor. della letter. ital., CXII (1985), pp. 27-47; B. Collett, Italian benedictine scholars and the Reformation. The Congregation of St. Giustina of Padua, Oxford 1985, ad Ind.; S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia, Torino 1987, ad Ind.; M. Chiesa, T. F. tra la cella e la piazza, Alessandria 1988; T. F.nel quinto centenario della nascita... Atti del Convegno... 1991, Firenze 1993.