TEOCRAZIA
Questo termine, usato per primo da Flavio Giuseppe (C. Apion, II, 16) e forse da lui foggiato, sul modulo di "aristocrazia", "democrazia" e simili, denota, come l'etimo indica chiaramente, il "governo divino": non nel senso che la divinità, per mezzo dei suoi attributi - onnipotenza, provvidenza, ecc. - regga supremamente i destini del mondo e degli uomini, ma in quello più limitato di una vera e propria forma di ordinamento politico. Il quale, naturalmente, non può essere esercitato direttamente tra gli uomini dalla divinità stessa; sicché una teocrazia sarà quella forma di ordinamento politico nella quale la sovranità, spettante a Dio, verrà esercitata da uomini direttamente in rapporto con lui, cioè ispirati: il profeta, il sacerdote, in qualche caso anche un re. Sicché per teocrazia, in senso stretto, s'intende quel reggimento nel quale il potere spetta alla classe sacerdotale, o anche a un re, ma sempre in quanto rappresentante diretto della divinità.
Di teocrazie in senso stretto l'indagine storica ed etnologica non ci offrono che pochi e rari esempî. Il più cospicuo è probabilmente quello offerto dal popolo ebraico, p. es., con i giudici quali ci sono raffigurati nei libri biblici e più ancora con l'autorità politica esercitata dal sommo sacerdote al tempo della dominazione persiana. Nella reazione dei farisei contro i principi asmonei, questa forma di governo diventò l'ideale dei farisei e di una parte del popolo; e quando, nel 63 a. C., Pompeo a Damasco volle rendersi conto delle pretese e delle aspirazioni dei due rivali, Aristobulo e Ircano II, si presentò a lui anche un'ambasceria del popolo a chiedere l'abolizione della monarchia e il ristabilimento dell'antico governo sacerdotale. Con pienezza anche maggiore, questo ideale è espresso nella frase "Regno di Dio" in quanto essa indichi l'aspirazione non al regno messianico concepito grossolanamente come un'epoca di prosperità e benessere materiale, ma al dominio effettivo della giustizia - e cioè del volere di Dio espresso nella sua legge, applicata da uomini giusti, ossia guidati e illuminati da Dio stesso.
Altri esempî di teocrazia si possono trovare nel Tibet, ove il potere politico spetta al Dalai Lama, manifestazione terrena di un bodhisattva (v. lamaismo), nella Cina imperiale, nel Giappone e nell'Egitto faraonico, dove il sovrano è considerato come "figlio" della divinità e suo rappresentante in terra; e come una teocrazia può essere considerato lo stesso Islām al tempo di Maometto, veggente, profeta e capo di stato insieme, e nella corrente shi'ita, con la concezione dell'imām, capo religioso-politico che le diverse tendenze pongono tutte, quale più e quale meno, in relazione diretta con la divinità.
Ma è insito nel concetto stesso di teocrazia che la divinità, considerata come sovrana, sia una divinità personale; e pertanto teocrazie vere e proprie si possono avere soltanto tra le religioni superiori, siano esse o no nazionali: cioè in religioni monoteistiche (come tra gli Ebrei), o anche politeistiche. Non si può pertanto parlare se non molto impropriamente di teocrazia a proposito di quelle popolazioni di cultura primitiva, tra le quali - e specie nello stadio preanimistico - il capo del gruppo è naturalmente scelto tra coloro che accolgono in sé maggior somma di forza sacrale impersonale e magica (mana). Invece, benché a prima vista possa apparire il contrario, una teocrazia si può benissimo avere anche con una religione universale: e le concezioni teocratiche si sono infatti sviluppate, come vere e proprie dottrine politiche (v. sotto), soprattutto in seno al cristianesimo, specialmente cattolico: nel quale è additato talvolta come una teocrazia lo stesso dominio temporale dei papi (v. chiesa: Lo stato della Chiesa). Ma è opportuno distinguere tra il potere del papa come sovrano di uno stato territoriale e l'autorità politica che gli spetta secondo le dottrine teocratiche, le quali affermano la superiorità del potere spirituale su quello civile in tutta la terra, non soltanto su un ristretto territorio. E pure impropriamente (benché, come sempre accade, adombrando in qualche modo una parte della verità) sono state definite come teocratiche certe forme di reggimento, quali quella di Ginevra al tempo di Calvino e di alcune delle colonie inglesi d'America, nelle quali lo spirito calvinista era pure penetrato.
Nella storia delle dottrine politiche, s'intende per dottrina teocratica quella che riporta semplicemente a Dio l'origine e il fondamento del potere politico. Punto di partenza di questa dottrina è dunque l'affermazione di S. Paolo: omnis potestas a Deo (Romani, XIII, 1). La quale, però, più che il significato di monito ai potenti, aveva quello d'incitamento dei sudditi alla sottomissione ai poteri costituiti e specialmente al principe come ministro di Dio per la giustizia.
Il significato originario del principio apostolico non comporta perciò distinzioni, che sono del tutto caratteristiche degli sviluppi esteriori della dottrina.
È sotto l'influenza degli avvenimenti storici, e soprattutto per le necessità della lotta tra papato e potere laico, che si affinano sul terreno politico le armi dialettiche, sino a raggiungere la negazione del significato originario della tesi in un democratismo teocratico, in cui non più il principe, ma il popolo, appare originariamente investito da Dio della sovranità.
Nella Patristica s'introduce una prima limitazione nel senso che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini quando il comando del principe contrasti col volere di Dio; essa giustificherà largamente in epoche posteriori l'intervento papale in tutti i casi in cui converrà distaccare il popolo dal principe. Volere divino non sarà più quello attestato in modo esplicito e inequivocabile dalle Scritture, ma quello dichiarato dal pontefice nelle sue interpretazioni dei testi, o anche contenuto nella legge razionale per l'asserita conformità fra ius naturae e ius divinum. A mano a mano che il papato tende a rendersi indipendente e superiore al potere laico, la dottrina tende a riservare al papato l'origine divina, trasformando in un privilegio quello che era il comune fondamento di ogni potestà. Da Gregorio Magno a Gregorio VII, a Innocenzo, a Bonifacio VIII l'apologia del papato si muove su questa via.
Se le False Decretali hanno ancora bisogno dell'autorità delle fonti legali e bibliche per fondare la supremazia papale, la dottrina, da Incmaro di Reims in poi, si svincola dal testo e utilizza il metodo dialettico per riaffermare nella polemica una superiorità che si è già venuta formando storicamente. Il punto di partenza è sempre la massima dell'apostolo; ma la distinzione di Incmaro - così intuitiva ed evidente - tra potere giusto e ingiusto, regio e tirannico, consente di creare delle eccezioni all'obbedienza dei sudditi e di porre un limite al potere del principe: ai tiranni non si deve obbedienza, ma resistenza.
Di qui al diritto di deposizione, è assai breve il passo. Poiché solo il vicario di Cristo può decidere della giustizia o meno del potere di ogni principe quanto all'origine e quanto all'esercizio e conseguentemente del suo fondamento divino. Le affermazioni di Gregorio VII, così come la pretesa d'Innocenzo III di giudicare il re nisi de feudo sed de peccato sono ancora uno sviluppo di quella stessa distinzione. Se il sacerdozio infatti è il potere massimo in quanto insieme sacro e regale, esso solo rappresenta Dio; e perciò chi pecca verso Dio deve essere giudicato da chi lo rappresenta in terra.
Il pensiero tomistico rappresenta un atteggiamento nuovo nello svolgimento della dottrina. Ma non bisogna dimenticare che S. Tommaso si avvantaggia di una concezione politica che ha ormai raggiunto il suo maggior sviluppo e alla quale occorre solo dare un fondamento più conforme alla ragione e ai testi. Così egli, se da un lato nega al papa il diritto di deposizione dei principi infedeli, ricava dalla sentenza di scomunica, che rientra indubbiamente nei diritti della Chiesa, lo scioglimento dall'obbligo di obbedienza e dal giuramento di fedeltà. Ma con S. Tommaso la dottrina teocratica prepara la democratica a cui faranno ricorso più tardi tanto i sostenitori della superiorità pontificia, quanto quelli dell'autonomia del potere laico; e anche, di fronte a questa, i primi assertori della libertà di coscienza e in generale della sottrazione della sfera religiosa alla costrizione politica e giuridica, che possono essere considerati come i precursori della scuola del diritto naturale.
Se il movente pratico del pensiero tomista è il rafforzamento dell'autorità papale, il principio teorico da cui esso muove è l'affermazione che il potere politico è di diritto umano. S. Tommaso altera l'originario significato del principio apostolico con una distinzione che non riguarda, come le precedenti, la posizione particolare degl'investiti, ma in generale il soggetto stesso dell'investitura divina. Che il potere venga concesso a una o altra persona è fatto del tutto umano e perciò di diritto umano sono il dominium e la praelatio (Summa Theol., 2, 2, q. X). Ma allora di che natura può essere quella potestas che tuttavia veniva da Dio e che non può confondersi con un'attribuzione concreta di potestà ad alcuna persona determinata? Si profila così la distinzione tra il potere concreto e il potere astratto che in sostanza si confonde col rapporto stesso di soggezione ed è come tale, esigenza imprescindibile di ogni consociazione umana. Questo viene da Dio, ossia, come ben si esprime lo Janet "la forma stessa del potere, ciò che vi è di essenziale nell'idea del potere e dell'autorità", e appartiene al corpus, al coetus consociatus, come proprio attributo. Nelle posizioni concrete e storiche del potere non è più Dio che investe il principe ma la collettività, sempre che essa non creda di esercitarlo direttamente.
Alla dottrina tomistica che dal punto di vista teorico rappresenta l'erosione della tesi teocratica, si contrappongono i sostenitori della monarchia universale e lo stesso Dante, che riaffermano la derivazione diretta dell'impero da Dio e l'assoluta sovranità e indipendenza in terra dell'imperatore. L'impero non riceve dal papato la potenza, ma solo la grazia, che lo aiuta a bene agire senza togliergli affatto l'autonomia.
Il Rinascimento segnò una lunga interruzione nello sviluppo della dottrina teocratica. La quale riprese vita nel Seicento, proprio mentre più gagliardamente si afferma il diritto naturale. Ma, come è logico, la riaffermazione teocratica non poteva più prescindere dalla concezione democratica ormai largamente diffusa e del resto già implicita - come s'è visto - nell'opera di S. Tommaso. Perciò questo atteggiamento del pensiero politico impersonato dal Bellarmino e dal Suárez, può definirsi come eclettismo demo-teocratico. La polemica si è spostata; non si discute più dell'origine e della superiorità del potere papale di fronte a quello dell'imperatore, entrambi tramontati dopo il trattato di Vestfalia come istituti politici universali, ma dell'autorità del romano pontefice di fronte ai principi e ai popoli protestanti. La stessa potestà temporale del pontefice perde anzi col Bellarmino il fondamento divino, costituendo diritto divino solo quello che fu praticato o dichiarato da Cristo nella sua vita terrena, né avendo egli potuto trasmettere un regno temporale che non ha mai posseduto; mentre anche i principi infedeli devono essere considerati come capi legittimi dei loro popoli senza che il papa abbia alcuna potestà sui loro regni.
La giustificazione della tesi è quella stessa originariamente affermata da S. Tommaso e che è diventata comune anche agli scrittori protestanti: Cum dicimus, ex pontificum sententia, Regum terrenorum potestatem esse a Deo, non intelligimus esse a Deo immediate, quomodo est a Deo potestas summi pontificis; sed esse a Deo quia Deus voluit esse in genere humano politicum regimen; et ideo instinctum quendam cedit hominibus, ut eligant sibi Magistratus a quibus regantur (De potest. summi pontif., V.).
Ma questo atteggiamento del pensiero politico è caratterizzato anche meglio nell'opera del Suárez. Intesa la legge come comando e riportata in ogni sua forma al volere di Dio, anche la legge umana e civile trae il suo valore obbligativo dal fatto che il sovrano ha il suo potere da Dio e lo esercita come suo rappresentante. È la riaffermazione netta della tesi teocratica; ma nella democratica egli immediatamente ricade quando, risolta affermativamente la questione della legittimità astratta del potere politico, si chiede in quali uomini esista ex natura rei questa potestà, e conclude che la potestà di dominare di altri uomini non fu data a nessun uomo singolo immediatamente da Dio. È la stessa conclusione di S. Tommaso che qui assume una maggior precisazione. La potestà politica, per diritto naturale - le attribuzioni concrete sono anche qui di diritto umano - risiede nella comunità, non disorganizzata, ma riunita in corpus mysticum in base a speciale manifestazione di volontà per comune consenso e per vantaggio reciproco (de Deo, III, c. 2). Ma il potere politico non appartenendo originariamente a nessuno dei singoli, non può sorgere dal loro accordo, ma solo da Dio immediatamente, appena ridotta la moltitudine a unità, come proprietà conseguente alla sua natura. La ragione naturale attesta che Dio così ha sufficientemente provveduto al genere umano dandogli questo potere necessario per la propria conservazione. Ma qui si esaurisce il principio teocratico. Il concretarsi della sovranità del popolo nelle mani di un principe o di un collegio avviene, anche per il Suárez, per la via del contratto. Il conferimento diretto del potere da Dio al re (es. Saul, Davide) è stato eccezionale; ma una volta attribuito il potere al sovrano la sua potestà diventa assoluta e non - come per Bodin e Hobbes - per il presupposto di una totale alienazione del diritto dei singoli a favore del principe, ma per il concetto stesso di legge che ha immanente un valore assoluto, in quanto riflette la legge eterna e il volere divino.
La tesi teocratica ha ormai perduto, attraverso queste costruzioni eclettiche, anche il suo valore di sostegno della potestà pontificia. Il pontefice non ha alcuna superiorità temporale su gli altri principi essendo soltanto sovrano nei proprî stati; né questo stesso potere temporale gli deriva direttamente da Dio, ma dall'imperatore; né perciò egli ha alcun diritto d'intervenire negli altri stati; né tanto meno il diritto d'investitura o di deposizione. Gli rimane solo un diritto di intervento in rapporto all'ordine spirituale. Ma d'altro canto, contro al prevalere delle concezioni democratiche, il fondamento divino del potere politico è riaffermato dai re e dai loro apologisti; e la concezione teocratica dà origine alla dottrina del diritto divino dei re.
Filmer col Patriarca, Salmasio con la Defensio regia, Bossuet con la Politica, per quanto con profondità e originalità assai diversa, rappresentano la continuità del principio teocratico nel sec. XVII. Il Bossuet riafferma la tesi teocratica del fondamento ed origine del potere e con la restituzione del significato originale ai testi, porta l'attacco più forte alle pretese pontificie di ingerenza degli affari temporali. Nelle Dichiarazioni in difesa della chiesa gallicana è negato il diritto di deposizione dei principi, e quello di scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà. Nella Politica estratta dalla Sacra Scrittura, sono notevoli il superamento del contrattualismo nella spiegazione delle origini della società, creazione non degli uomini ma di Dio; e la concezione del potere politico, come creato da Dio, non soltanto in astratto, ma da lui stesso esercitato direttamente e visibilmente alle origini; e, in pari tempo, l'affermazione dell'impero paterno, per il quale molte famiglie rimanevano soggette all'autorità di un padre; potere anche questo concesso da Dio, che trasmette ai padri un'immagine della sua potestà, e dal quale si svolgerà, col consenso del popolo, il potere regio. Il potere politico non deriva dunque dal popolo, ma è creazione diretta di Dio e il consenso del popolo si aggiunge solo per renderne possibili le trasformazioni. La potestà del principe è assoluta, ed è libero dalla potestà coattiva della legge e soggetto solo alla sua potestà direttiva.
Con il sec. XVIII lo spirito razionalista e la dottrina del diritto naturale trionfano; le grandi monarchie decadono; il diritto divino dei re cede continuamente terreno alla sovranità degl'individui e alle dottrine democratiche. Ma la caduta di Napoleone inverte le sorti. La restaurazione si fonda ancora sul diritto divino; e i dottrinarî del legittimismo sono perciò i rinnovatori della dottrina teocratica. Ma ancor prima questa era stata affermata da G. De Maistre nella polemica contro Rousseau; mentre in Inghilterra il Burke dettava appunto contro Rousseau le sue Riflessioni. Il diritto divino dei re è la tesi centrale della concezione politica del De Maistre; ma ciò che lo distacca e lo pone molto al disopra degli altri scrittori legittimisti è il senso della concatenazione delle cause del mondo storico, conseguenza del concetto della naturalità del fatto associativo. Parimenti naturale e necessaria è la soggezione politica, non solo in astratto, ma in concreto, essendo del tutto sottratto all'arbitrio umano il fatto che a un certo momento della storia il potere sia nelle mani di un'assemblea o di un sovrano piuttosto che un altro. Così pure le leggi e le costituzioni non sono mai espressione della libera volontà di uno o di molti individui, ma delle esigenze e dell'atteggiamento spirituale della collettività. All'arbitrio dei contrattualisti si sostituisce la Provvidenza, nel cui concetto, come in Vico, si riassume la necessità del divenire storico.
Del ritorno alla dottrina teocratica il De Maistre è il primo e maggiore esponente, ma non l'unico. Questo indirizzo trova dei seguaci non solo tra gli scrittori politici contemporanei come il De Bonald, l'Hatter, lo Stohl e il Taparelli d'Azeglio; ma fra quanti giuristi e scrittori di diritto politico sorgono a rafforzare con la dottrina, il ritorno al trono dei sovrani legittimi. Ma su queste stesse correnti s'innesta, come era accaduto nel Seicento, la propaggine democratica rappresentata dal Lamennais. Questi, pur essendo stato un tradizionalista, e, nel Saggio sull'indifferenza in materia religiosa, un rigido assertore dell'ultramontanismo e pur avendo riaffermato la base divina del potere, rappresenta, nello svolgimento del teocratismo post-rivoluzionario, la posizione dissolvente. Basta accennare alla costante avversione del Lamennais all'assolutismo regio, e alla riaffermazione della Chiesa come tutrice dei diritti del popolo e della libertà di fronte al potere civile. E la stessa condanna di Gregorio XVI indusse il Lamennais al distacco dalla Chiesa, non all'abbandono della tesi fondamentale. Il cattolicismo democratico - a cui rimarrà, per es., fermo un grande spirito italiano, il padre Ventura - si trasformerà così in democratismo cristiano. È la fine della dottrina teocratica nel senso tradizionale e proprio del termine.
Bibl.: C. R. Smyth, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, XII, Edimburgo 1921, p. 289; Bertholet, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, V, Tubinga 1931, col. 1112; A. Falchi, Le moderne dottrine teocratiche, Torino 1908; R. W. e A. J. Carlyle, A History of medieval political theory, Edimburgo e Londra 1903-1928, voll. 5; Dunning, A history of political theory, New York 1916-1923, voll. 3; Janet, Hist. de la science politique, 5a ed., 1924; de Lagarde, Recherches sur l'esprit politique de la Réforme, Parigi 1926; id., La naissance de l'esprit laïque au déclin du Moyen Âge, Saint-Paul-Trois-Châteaux 1934; Passerin d'Entrèves, La filosofia politica mediovale, Torino 1934; F. Battaglia, Lineamenti di storia delle dottrine politiche, Roma 1936.