TAMBURRI, Filippo detto Pippo
– Nacque a Roma nel 1840 (giorno e mese sconosciuti) figlio di un maestro di musica di origini modeste.
Iniziò sin da giovane a frequentare le sale che ospitavano spettacoli di vaudeville dialettale e opere comiche, dove si esibiva alternando parti dialogate a canzonette, raccogliendo attorno a sé per lo più un pubblico di giovani e di piccoli borghesi incuriositi. Alto e slanciato, aveva folti baffi neri e in scena amava indossare un cilindro elegante, particolare, dalla circonferenza stretta. La sua discreta inclinazione per il canto, di certo incoraggiata dal padre musicista, la voce tenorile e il temperamento convinsero l’attore e autore dialettale Filippo Tacconi (noto ai più come er gobbo Tacconi) a ingaggiarlo nella sua compagnia romanesca.
In questo ambiente esercitò presto le proprie abilità macchiettistiche in serrato dialogo tra palco e platea. Il pubblico mostrò di apprezzarlo sin dagli inizi della carriera e dal canto suo diventò oggetto involontario delle farse romanesche, spesso improvvisate, dell’attore. Era un teatro popolare fatto di una mescolanza di versi e prosa, improvvisazioni e musichette, più simile a quello che sarebbe poi stato il teatro di rivista (quel genere minore dove interventi musicali si alternavano a sketches sulla base di un tema o un filo di trama esile ma preciso) che al vero e proprio vaudeville. Seguendo un ritmo sempre più serrato i movimenti orchestrali e il canto trascinavano il pubblico verso il culmine dell’azione scenica. Tamburri, con la sua bella voce tenorile, la sua comicità poco rumorosa, ne fu per un lungo periodo uno degli interpreti e degli autori più apprezzati.
Dal 1882 al 1887 fu capocomico della compagnia romanesca fondata da Giggi Zanazzo. Altri attori che condivisero con lui popolarità e successo furono: Oreste Raffaelli, Angelo Malatesta, Agnese Bianchini (futura moglie dello stesso Zanazzo), Elena Bianchini-Cappelli e una giovanissima Lina Cavalieri. Sede prediletta della compagnia fu la sala Rossini, situata nel palazzo S. Chiara a Roma, teatrino definito «elegantissimo» dai cronisti dell’epoca, frequentato anche da quell’alta borghesia che amava assistere alle opere di Giuseppe Verdi, di Vincenzo Bellini e di Gioachino Rossini, ma sapeva apprezzare gli spettacoli di arte varia. Momento di particolare gloria per Tamburri fu, il 2 dicembre 1887, la presenza al Rossini della principessa Margherita di Savoia.
Nella seconda metà dell’Ottocento il teatro romanesco visse del resto una stagione d’oro. Aveva assorbito il modello francese del vaudeville, ma al tempo stesso aveva messo a punto una fisionomia tutta propria.
Secondo Anton Giulio Bragaglia (1958a), gli spettacoli di Tamburri somigliavano molto alla «vecchia commedia dell’arte del primo Seicento, fatta di prosa, versi, improvvisazioni e musichette» (p. 471). È un commento a posteriori, che riprende quel che veniva abitualmente detto per Ettore Petrolini. Esiste tra i due attori, d’altronde, un filo diretto: i manoscritti di Tamburri furono acquistati «con diritto di esecuzione e di stampa da Ettore Petrolini» (Il Tiberino, 1956, p. 62). Conferma la notizia anche un articolo di Anton Giulio Bragaglia (1958c): «quattro ottave da cantare come couplets finali, alla maniera toscana, conservate in una raccoltina di vecchie canzonette composte da Ettore Petrolini e intitolata “Memorie di Marco Pepe” sono da attribuire alle edizioni giovanili del Meo Patacca di Pippo Tamburri restitutore dell’uso dell’ottave alla fine della recita» (p. 7).
Tra questi spettacoli fatti di versi, improvvisazioni e canti, il più noto fu Meo Patacca er greve e Marco Pepe e la capretta, con musiche del maestro Cesare Galanti e ricavato dal poema di fine Seicento di Giuseppe Berneri: Meo Patacca overo Roma in feste ne i trionfi di Vienna (1695).
Le vecchie maschere romanesche di Marco Pepe e Meo Patacca rappresentavano due tipi di trasteverini bulli e insolenti ma dal cuore buono. Nell’Ottocento furono proposte (prima di Tamburri) dagli attori Annibale Sansoni e Filippo Tacconi. Accanto al compagno Patacca, Pepe mostrava una vigliaccheria più accentuata, ma entrambi, se pur con opposte qualità, erano pronti a battersi con arroganza. In una bella xilografia del tempo Enrico Prampolini ritrasse Tamburri nelle vesti di Marco Pepe, magro e slanciato, mancava lui solo la gobba che invece caratterizzava il suo predecessore Tacconi. «Il Tamburri, come sempre, fa un Marco Pepe insuperabile: non soltanto nell’insieme dell’azione che è del tutto romanesco, come altresì essenzialmente romano, anzi romanesco, è l’ambiente in cui la medesima si svolge, ma anche nelle felicissime ottave satiriche di sua composizione, ch’egli con gran piacere del pubblico canta nella serenata del secondo atto» (Roma Antologia, 1889, in Bragaglia, 1958a, p. 473).
Nel 1885 alcune delle improvvisazioni che amava fare tra un atto e l’altro vennero pubblicate a Roma nella raccolta Er Passagallo, arricchite da ottave satiriche attorno ai temi di attualità. Altre volte i suoi ritornelli d’occasione vennero stampati velocemente e distribuiti fuori e dentro il teatro.
Nelle sue rime cantò i fasti della Roma capitale, la città che ispirava il suo estro di artista più che di semplice interprete: «Tempo già fune che se stava male, / e p’abbuscà da pranzo se penava: / era caro ogni cosa, fino er sale, / ma quanno che era notte se magnava... / T’arigalava sempre er principale / la merenna, er teatro ce scappava... / Adesso chè vienuta la cuccagna / sia benedetto er giorno che se magna» (Bragaglia, 1958c, p. 7). Alla vivacità di alcune rime si accompagnò dall’altra parte una certa trascuratezza del mestiere. Durante i suoi frequenti periodi di pausa lasciava all’impresario del teatro il compito di colmare le serate con altri spettacoli di guitti, marionette e numeri circensi non all’altezza del suo repertorio.
L’impegno altalenante non gli impedì di riscuotere un buon successo come attore e autore di diversi lavori: con le musiche di Cesare Pascucci Faccennone e Cordalenta (1886), Il terremoto (1887), ’Na vignata da Scarpati (1888) che fu ripresa nel 1918 da Petrolini, Una cava de moje (1888), Er medico de li matti (1888), Er treno tropea (1890) e Carnovale romano a li tempi der marchese der Grillo (1892) su libretto di Domenico Berardi; e poi Li maganzesi a Roma (1882) con musiche di Giovanni Mascetti e parole di Zanazzo, Tutti matti (1894), ’Na gita ar Divino Amore (1903) su libretto di Oreste Raffaelli e Virginia Tedeschi-Treves (Cordelia). I suoi lavori furono rappresentati in molti teatri di Roma: il Metastasio, il Rossini, il Valletto (una piccola sala di fianco al teatro Valle), il Quirino, il Manzoni e il Goldoni. Quest’ultimo, in piazza S. Apollinare, nel 1886 prese il nome di teatro Romanesco, aperto a rappresentazioni in vernacolo di cui fu impresario Tamburri.
Il pubblico mostrò di apprezzare particolarmente la farsa Er Marchese der Grillo (parole di Berardi e musica di Mascetti), che debuttò nel 1889 al teatro Metastasio. Tamburri si calò vivacemente nella parte di Giachimone Baciccia facendone presto il suo cavallo di battaglia.
Nella serata d’onore per il poeta Berardi, scrisse una «lettera spalancata de Giachimone Baciccia er Carbonaro, ar Marchese der Grillo: Sor Marchese / Sapendo che ‘sta sera / è la serata in onore de lei / vorrei fare un tantin de bbona cera / un ugurio, un zocchè cche nun saprei. / Scusi se ssi cce vada adacio adacio / in de la scerta de sto comprimento: / ma a llei non possono dije: Je do ’n bacio / perché ccambia l’idea d’ogni momento. E nun vorebbe che pijasse un sbajo / un comprimento p’un boccone amaro: / capirà Giachimone er Carbonaro / nun tratta antro che ggente der su tajo / dunque io sta’ lettra bell’e spalancata / je l’ho scritta pe ffaie mille auguri / affinchè i’arieschi la serata». (Bragaglia, 1958c, p. 8).
Tamburri dedicò tutta la sua vita al teatro romanesco, ma specie nell’ultima parte con fortuna alterna. Il talento, l’intelligenza, la voce, le qualità di attore e anche di autore di pregevoli ottave in romanesco, non furono sufficienti. Secondo i critici d’epoca, si lasciò sopraffare dalla volgarità dell’ambiente e dal desiderio di ricevere lodi dagli spettatori: «non cura che di rendersi accetto all’infinito pubblico, cui, ogni tanto, rivolge dei fervorini in prosa e in versi a uso Carro di Tespi, e sui manifesti serali permette che si stampi “Comica compagnia romanesca diretta da Pippo Tamburri”» (Petrai, 1901, pp. 61 s.).
Già agli inizi del Novecento si scriveva che: «[...] Tra gli attori dialettali dei tempi nostri merita il posto d’onore Pippo Tamburri, educato alla scuola del gobbo Tacconi, ed ora, purtroppo, al tramonto della sua carriera artistica» (Calvi, 1908, p. 699). Anche in età avanzata e in semipovertà non rinunciò a cantare quel popolo romano da cui traeva ispirazione, scintilla per i suoi grandi successi, ma ormai si esibiva in piccole sale di periferia, ridotto all’ombra di se stesso.
Morì il 23 gennaio 1915 nell’ospedale della Consolazione di Roma.
Fonti e Bibl.: G. Petrai, Lo spirito delle maschere (storia e aneddoti), Torino 1901, pp. 58-65; E. Calvi, Il teatro popolare romanesco, Roma 1908, pp. 699-703; Annali del teatro italiano, I, 1901-1920, Milano 1921; E. Veo, I poeti romaneschi: notizie, saggi, bibliografia, Roma 1927; Id., Il teatro romanesco, in Id., Roma Popolaresca, Roma 1929, p. 277; A.G. Bragaglia, Le maschere romane, Roma 1947, passim; Il Tiberino, Dialetto nostro al Teatro Rossini. Da Giggi Zanazzo a Checco Durante, in Capitolium, XXXI (1956), 2, pp. 62-64; A.G. Bragaglia, Storia del teatro popolare romano, Roma 1958a; Id., Canti popolari romani, in Capitolium, XXXIII (1958b), 3, pp. 33-34; Id., Il teatro Goldoni nell’operetta romanesca, ibid., XXXIII (1958c), 9, pp. 6-8; V. Caputo, I poeti d’Italia in trenta secoli, Milano 1962, pp. 637-639; F. Possenti, I teatri del primo Novecento, Roma 1987, pp. 66-69, 118-120; G. Micheli, Storia della canzone romana, a cura di G. Borgna, Roma 1989, pp. 421-424; R. Merlino, Il Teatro Rossini dalle origini a oggi, Roma 2000, pp. 41 ss.