Storiografia giuridica
Due fondamenti essenziali caratterizzano la storiografia giuridica italiana dalla sua fondazione agli sviluppi del 20° sec.: da un lato, l’interesse prevalente per il Medioevo peninsulare, studiato come momento in cui fu massima la perfezione della scienza del diritto a partire dalla Scuola di Bologna e dalla rinascita del diritto romano (12° sec.); dall’altro, l’austera difesa dello specifico ambito tecnico-giuridico inteso come oggetto esclusivo del lavoro di ricerca proprio dello storico del diritto.
La mediazione patriarcale dei giuristi dell’Età di mezzo, considerati dalla storiografia giuridica gli ‘eroi’ fondatori del diritto occidentale, presupponeva l’idea che fosse possibile, attraverso gli strumenti sempre più raffinati e artificiosi della scientia juris, pervenire a regole e strutture normative ontiche, cioè oggettive e immutabili. L’argomento principe della storiografia giuridica divenne perciò l’abilità esegetica dei giuristi assai più che l’evoluzione della legislazione e l’analisi degli effetti concreti prodotti dal sistema giuridico. Nella storiografia italiana del diritto vi è stato, in sintesi, molto più Irnerio che Gaetano Filangieri.
Anziché manifestarsi nel momento creativo ed evolutivo della legislazione, che è un valore attinente alla necessità di un continuo adeguamento del sistema normativo alla realtà sociale, il diritto si presentò agli storici-giuristi italiani come un sistema di valori e di norme metafisiche e universali, la cui interpretazione, divenuta presto arcana, conferì ai magistrati poteri oracolari. Si produsse a quel punto una cristallizzazione corporativa del ceto giuridico presidiata da un’autoreferenziale esaltazione della propria grandezza e insostituibilità. Il primato del sapere giuridico fu allora celebrato dai suoi adepti sulla base di un frammento di Azzone secondo il quale «iuris professores per orbem terrarum [scientia juris] facit solemniter principari» (Summa institutionum, 1506, cit. in Grossi 1995, p. 153).
Con un processo – anche psicologico – d’immedesimazione nei grandi protagonisti dell’esperienza giuridica medievale, la storiografia del diritto italiano rivolse il suo interesse all’elaborazione delle ‘fonti’ giuridiche medievali i cui contenuti vennero studiati con un’acribia filologica senza pari. Nel contempo furono agiograficamente esaltati i patriarchi di quella stagione magistrale e bollate come «ruminazioni ingloriose» (l’espressione, testuale, che riassume perfettamente tutto un modo di sentire e d’intendere, fu adoperata da Francesco Calasso) le manifestazioni della vita giuridica pratica. Questa netta opzione metodologica per il Medioevo ‘scientifico’ ebbe conseguenze di grande rilievo che forgiarono l’identità della storiografia giuridica novecentesca. In primo luogo si determinò una visione delle cose per cui lo stato disastroso della giustizia italiana fu attribuito esclusivamente alla prassi giuridica, salvando in un Olimpo immune da ogni responsabilità la scienza del diritto. Era così accettato e legittimato l’arbitrio giurisdizionale ed eluse le responsabilità del ceto giuridico nella sua copertura tecnica – ma in sostanza anche politica – fornita alle antiche e fragili strutture parafeudali che, di là dalla facciata, avevano caratterizzato la sostanza delle entità peninsulari preunitarie.
In secondo luogo si produsse un’altra fondamentale lacuna storiografica: l’assenza di studi comparativi. Furono trascurate le decisive trasformazioni che tra Medioevo ed Età moderna erano state impresse nel fenomeno giuridico da altre società che si erano già evolute verso organizzazioni monarchiche ampie, centralizzate e razionali. In tal modo il lavoro del giurista fu considerato valido in re ipsa e non fu valutato in rapporto ai problemi concernenti il funzionamento delle istituzioni e l’evoluzione razionalmente governata della struttura sociale. I giuristi transalpini, infatti, tanto francesi quanto inglesi, ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione dello Stato moderno (cfr. Padoa-Schioppa 2003, pp. 331-34), mentre i loro colleghi subalpini restarono delimitati da un piccolo mondo antico che costituiva nel contempo la loro fortuna personale e familiare, ma anche la loro prigionia in schemi dogmatici senza via d’uscita.
Negli stessi anni del 12° sec. in cui nasceva a Bologna la scuola dei glossatori era già in corso in Francia un altro e ben diverso processo istituzionale, che portava con sé fondamentali esiti politici e sociali. Quel nuovo contesto determinò una mutazione antropologica del giurista, che fu invogliato a mettere la sua tecnica al servizio di un grande progetto politico collettivo, cosicché il diritto assunse aspetti di solidarismo sociale completamente sconosciuti al di qua delle Alpi, dove il feudo non divenne mai ‘ligio’ e la funzione del giurista fu ispirata da un sapienziale uso della tecnica intesa come politica corporativa del diritto. La ‘logica nuova’ parigina invece – come avrebbe dimostrato molto più tardi la penetrante indagine sullo Stato di Alberto Tenenti –, tendeva a sviluppare linee critiche e pragmatiche dirette a porre a disposizione dei governi un diritto adeguato e rispondente alle esigenze dell’organizzazione statale accentrata. Quello europeo fu, insomma, tutto un altro Medioevo rispetto a quello celebrato dalla storiografia giuridica italiana.
Il radicamento del mos italicus fu pagato a caro prezzo dall’assetto politico-istituzionale dell’area subalpina. Il diritto comune di fatto realizzò la sostituzione della Chiesa allo Stato, conferendo ai giuristi un potere tanto smisurato e privo di controllo pubblico che essi si attribuirono, enfaticamente, ma non a torto, il ruolo di «sacerdoti del diritto». Quel sistema era gestito dalle magistrature, che conciliavano continuamente gli opposti in modo compromissorio e segreto (i giudici non motivavano le sentenze). La legislazione non registrava i mutamenti della realtà ed era sistematicamente disattesa dagli interpreti attraverso strumenti esegetici resi sempre più abili e ingegnosi dall’elaborazione tecnico-giurisprudenziale. Non nacque la necessaria osmosi tra diritto e realtà sociale, poiché la scientia juris, elaborata secondo il mos italicus, s’impegnò a studiare (come Niccolò Machiavelli genialmente intuì e criticò) la realtà quale avrebbe dovuto essere e non qual era. Di fatto il diritto italiano fu un diritto schierato contro l’affermazione della statualità. Al di qua delle Alpi si era definitivamente affermato un sistema giuridico che favoriva l’illegalità dei legali e l’irrazionalità delle soluzioni istituzionali.
Attenta solo alla ricostruzione degli aspetti dottrinali e dei metodi tecnico-scientifici, la storiografia giuridica del Novecento italiano, pur nei suoi splendidi monumenti di erudizione, si disinteressò di questa realtà ‘effettuale’, contribuendo così a rafforzare l’immagine di uno splendido ‘Medioevo del diritto’ che aspirava addirittura a fungere da modello universale per un’Europa che da tempo aveva invece imboccato una via radicalmente alternativa e che quindi non guardava più all’elemento latino e mediterraneo come veicolo di civiltà.
In tal modo, la storiografia giuridica italiana riprodusse la stessa linea teorica dei giuristi le cui ‘gesta’ intendeva magnificare, trovando perfettamente utile a tale scopo il metodo hegeliano e savignyano, secondo il quale il diritto sarebbe da intendere non come creazione indotta dai conflitti degli interessi, che sono utilmente creativi, ma come espressione di valori innati, ontici, comuni al genere umano ed espressi dalle inveterate e indiscutibili tradizioni di un popolo. Naturalmente, la lontana profondità di queste ultime e i loro significati multipli permettevano ai giuristi d’interpretarle liberamente, accrescendo ad libitum il loro potere occulto. Erano, a conti fatti, le idee della Restaurazione che a sud delle Alpi trovavano terreno fertile, per certi versi addirittura più che nella stessa area germanica, dove pure vi fu una controspinta realistica che creò l’humus culturale su cui Max Weber poté edificare la sua innovativa visione.
In Italia, invece, l’apologia del Volksgeist si fuse con la difesa della mediazione patriarcale. La linea ‘gallica’ e occidentale fu progressivamente costretta ad arretrare. Una delle sue ultime e più penetranti formulazioni era venuta dal giurista, economista e influente politico abruzzese Giuseppe De Thomasiis (1767-1830), che in una straordinaria sintesi, ancor oggi valida, affermò di aver poco o punto da apprendere dall’esperienza giuridica medievale:
Da legislazioni fatte in tempi ne’ quali gli uomini eran distinti in uomini e non uomini, e le proprietà in libere e serve, e i peccati eran confusi co’ delitti, e la tortura [era] in onore, ed in generale la scienza della legislazione non era ancor nata, non [vi] possono essere che rarissimi esempi o consigli da trarre. Egli è certo che non è questo il mezzo di divulgare, ma sí bene d’ingombrar di tenebre la giurisprudenza attuale (Introduzione allo studio del diritto pubblico e privato del regno di Napoli, 1831, p. XVI).
La via imboccata dal diritto italiano – e dalla sua storiografia prevalente nel corso del Novecento – fu di segno opposto: l’approccio fenomenologico e critico moderno fu svalutato e la struttura sociale espulsa dallo ‘specifico’ giuridico, mentre l’esaltazione della scienza medievale del diritto ne costituì la matrice fondamentale.
In questa temperie nacque, nell’ultimo quarto del 19° sec., la formula destinata a grande successo: Storia del diritto italiano. L’impianto teorico e metodologico della disciplina accademica fu creato già nel 1857, per iniziativa del governo austriaco, nel Nord della penisola. Fu allora che quell’insegnamento assunse per la prima volta la sua forma e la sua sostanza: due cattedre furono istituite a Pavia e a Padova quali emanazioni dirette della Rechts und Reichsgeschichte, circa quattro anni prima che si pervenisse alla formale unificazione politica italiana. Secondo le indicazioni che erano state fornite dal ministro austriaco Leo von Thun, bisognava suggerire ai giovani studenti l’idea di un diritto che fosse lontano dalle suggestioni sociali, democratiche, rivoluzionarie francesi. Il compito primario di quell’insegnamento doveva essere l’encomio, quale fonte giuridica primaria, dell’impero romano-cristiano, poi germanico, espressione di autorità perenni, legittimate dall’idea della renovatio imperii. La cattedra di Padova fu affidata a un giovane docente trentino, che aveva studiato a Innsbruck e a Vienna, Antonio Pertile (1830-1895), dal cui poderoso trattato, pubblicato tra il 1873 e il 1887, prese corpo la versione italiana della disciplina.
L’autore, tuttavia, non si attenne pienamente alle intenzioni programmatiche di von Thun e focalizzò l’attenzione su aspetti strettamente tecnici, nella convinzione che fosse necessario evitare commistioni politiche, filosofiche, economiche, sociologiche. Quelle ricerche nacquero, così, ligie a un positivismo acritico, apparentemente neutrale che, eliminando i dubbi e le contaminazioni teoretiche e politiche, consentiva di dividere la trattazione in partizioni stabili che avevano lo scopo primario di attribuire alla ricostruzione storiografica un austero aspetto di oggettività. In tal modo la disciplina si presentò fin dai primordi con un carattere (destinato a durare nel tempo) di autonomia dagli studi filosofici, economici, sociologici e si mosse entro confini di angusto tecnicismo filologistico. Era così bloccato l’ingegno critico del giurista in tutti i campi: teoretico, politico e culturale. La storiografia giuridica, non potendo realizzare ampie e libere ricerche, si ridusse all’esplorazione del campo specifico, chiuso, ben recintato, domestico, rassicurante. La storia della legalità si limitava alla descrizione di particolari inerenti le tecniche esegetiche dei giureconsulti, ma nulla rivelava circa i rapporti della vita giuridica con le strutture socioeconomiche e con le istituzioni politiche.
Gli effetti di questa forma mentis non ricaddero solo sulla ricerca storica e sulla conformazione accademica della disciplina, ma anche sulla vita pubblica del Paese, sia per l’ovvio ruolo esercitato dai giuristi-storici nella formazione universitaria delle élites dirigenti, sia perché molti di quegli studiosi del diritto italiano ricoprirono nel corso del Novecento importanti cariche istituzionali (parlamentari, governative e inerenti a diversi altri organismi di rilievo costituzionale e politico). In quelle esperienze, se, per un verso, essi portarono un enorme bagaglio di erudizione e di sensibilità, elevando il tono culturale complessivo degli ambienti nei quali operarono, per un altro, trasferirono nella vita istituzionale l’identità psicologica e culturale di fondo che caratterizzava il proprio ambito accademico-disciplinare: esaltazione dei valori etico-giuridici astratti e formali e poi necessità di compensazione pratica attraverso la gestione cinica del particolarismo esistenziale, il limite che ha sempre creato in Italia enormi difficoltà nell’amministrazione dei beni pubblici e nell’attuazione dei principi elementari della scienza dell’organizzazione.
Nel clima apologetico creato dal fascismo, con la sua celebrazione imperiale dell’italianità quale erede diretta della civiltà romana antica, il metodo aprioristico e positivistico adottato per necessità da Pertile e seguito da altri storici del diritto, tra i quali in primo luogo Francesco Schupfer (1833-1925), appariva ormai asettico e sterile. Il regime cercò di creare un afflato di consenso: il Concordato del 1929 segnò la svolta che determinò la conversione del fascismo verso una stabilità meno avventurosa e conciliata con la larga base sociale cattolica. Tra la linea anglofrancese e nordamericana, da un lato, e quella tedesca, dall’altro, l’Italia – date le premesse culturali descritte – non poteva che scegliere la seconda. L’‘intedescamento’ – favorito dall’egemonia dell’idealismo – e la collocazione internazionale ostile alle democrazie furono i due elementi che non permisero di sviluppare il discorso della modernità critico-sociale. Era necessario trovare altri ‘primati’ di retorica culturale.
Questa esigenza fu colta da un insigne storico del diritto di origine salentina, Francesco Calasso. Allievo di Francesco Brandileone (1858-1929), che però di là dalle forme accademiche seguì ben poco, Calasso era dotato di uno stile efficace e fantasioso e realizzò, mediante l’esaltazione del diritto comune, la sintesi perfetta tra i diritti dello Stato e della Chiesa. Era una soluzione già apparsa «quietistica», meramente formale e irrealistica due secoli prima a Pietro Giannone. Ma i tempi erano cambiati e al rafforzamento di quella tesi contribuivano la nuova apologia nazionale e lo sdrammatizzarsi dei conflitti politico-religiosi risolti con la chiusura concordataria della questione romana. L’apologia del diritto comune ebbe perciò un grande slancio nel clima successivo ai Patti lateranensi.
Contro le aperture ai metodi delle scienze sociali si trovarono alleati, da un lato, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, dall’altro, la storiografia del diritto che, chiusa entro i confini della tecnica e dello ‘specifico’ giuridico, non era attrezzata a concepire autonomi orientamenti teoretici. Calasso cercò di trarre dal pensiero di Croce l’inquadramento filosofico di cui aveva bisogno e si avvalse così della mediazione di un medievalista cattolico di grande talento, Giorgio Falco, che seguiva Croce sui riferimenti teoretici ideali, ma non sull’interpretazione della storia europea. Falco aveva sposato, infatti, la linea filomedievalistica che da Friedrich von Schlegel procedeva attraverso Vincenzo Gioberti. Croce, invece, vedeva nel Risorgimento, e non certo nel Medioevo, la rinascita della civiltà italiana.
In un analogo equivoco verso il neoidealismo venne a trovarsi un altro grande storico del diritto della stessa generazione di Calasso, Bruno Paradisi (1909-2000), che seguì quell’indirizzo di pensiero, ma senza notare l’impossibilità per uno storico idealista di essere fedele al canone dell’autonomia giuridica. Perciò egli non valutò l’inconciliabilità dell’apoliticità del diritto – da lui difesa – con il fatto che il fenomeno giuridico era collocato dalla crociana ‘filosofia dello spirito’ proprio nella categoria della politica. Tanto Calasso quanto Paradisi, senza dubbio i due maggiori storici del diritto del Novecento, dotati entrambi di fervidi ingegni, erano profondamente insoddisfatti delle chiusure autarchiche del filologismo precedente e sentivano il bisogno di fornire ai grandi problemi della giustizia spiegazioni non appiattite sull’angusto positivismo acritico degli storici del diritto. Condizionati, tuttavia, dai motivi retorico-nazionalistici prevalenti nel loro tempo e dalla poderosa diga che il neoidealismo aveva eretto contro l’empirismo angloamericano, essi non riuscirono a imprimere una svolta decisiva. In particolare, non fuoriuscirono dalla scelta di limitare l’esperienza giuridica alla configurazione del profilo italiano e di conseguenza non poterono che continuare a focalizzare l’attenzione storiografica sugli strumenti tecnico-esegetici del giurista medievale. Né Calasso né Paradisi riuscirono a superare un equivoco di fondo insito nel loro metodo: configurarono perciò il quadro dei valori giuridici in coerenza con i presupposti teoretici della filosofia idealistica, anche se questa era agli antipodi sia della loro enfasi sul Medioevo, sia della loro pretesa che il diritto fosse un’esperienza specifica e autonoma anziché il mezzo di attuazione delle finalità ideali e degli indirizzi politici.
La via verso una storiografia della legalità più attenta alla dimensione sociale, che era stata aperta dalla corrente economico-giuridica, fu impersonata specialmente dallo storico modenese Giuseppe Salvioli (1857-1928), che partecipò, con la sua Storia della procedura civile e criminale, alla nuova Storia del diritto italiano (1923-1927) a cura di vari autori, un’impresa scientifica ed editoriale miscellanea diretta da Pasquale Del Giudice (1842-1924, venosano, allievo di Enrico Pessina). Salvioli, giustamente definito da Pietro Costa (n. 1945) il maggior esponente del «solidarismo giuridico», pose – com’egli stesso dichiarò – alla base della sua elaborazione scientifica le opere di Émile Durkheim. Esempio che fu però seguito da pochi. L’approccio sociologico, spesso identificato tout court con l’ideologia socialista, fu considerato dalla larga maggioranza degli storici del diritto una blasfemia. I rapporti tra le scienze sociali e la storia del diritto restarono in Italia molto difficili anche dopo il crollo del fascismo, grazie alla simbiosi del neoidealismo con lo spiritualismo cattolico e con il positivismo filologistico.
Il neoidealismo influenzò pure larga parte delle correnti marxiste, anche quando esse fuoriuscirono dal solco dell’apologia del diritto comune per dedicarsi allo studio dei testi costituzionali contemporanei, con una insistita sottolineatura sui grandi valori giuridici astratti presenti in essi, in primo luogo la proclamazione dell’uguaglianza formale (cfr. Maurizio Fioravanti, n. 1952). In altri casi, quelle correnti ebbero un’evoluzione specifica e maggiormente attinente ai metodi delle scienze sociali dedicandosi allo studio del diritto penale (cfr. Mario Sbriccoli, 1940-2005; Roberto Martucci, n. 1949).
Nel complesso la linea di Calasso e Paradisi fu recepita più per la loro conferma della centralità del diritto medievale che per il loro intento di superare l’impianto filologistico. L’acribia filologica e positivistica, infatti, continuò, prima e dopo di loro, a convivere con l’idealizzazione del Medioevo e dei valori ipostatici incarnati dall’attività dei maestri-esegeti. A questa idea di fondo contribuirono molti tra gli storici del diritto, i quali, sia pure tra numerose e significative distinzioni, diedero del diritto comune e del mos italicus un’immagine di completezza sistemica e di perfezione formale. Tra costoro, per citare solo alcuni tra i più noti e valenti, vanno ricordati: Giovanni Tamassia (1860-1931), Federico Patetta (1867-1945), Arrigo Solmi (1873-1944), Enrico Besta (1874-1952), Pietro Vaccari (1880-1976), Giuseppe Ermini (1900- 1981), Carlo Guido Mor (1903-1990), Giovanni Italo Cassandro (1913-1989).
Grazie ai loro studi la storiografia del diritto si attestò su una posizione autoreferenziale, fiera della propria «apologia» (l’espressione è di Paradisi) e ispirata a un asettico e rigoroso positivismo filologico che non venne mai abbandonato, neppure in ricerche di eccellente qualità e di grande utilità alla comprensione di singoli aspetti e problemi, come nel caso – tutt’altro che isolato – del veneziano Pier Silverio Leicht (1874-1956), celebrato da Calasso (1966) come il «signore» che ha percorso «ogni campo della storia del nostro diritto nazionale» (p. 66). E a questa linea sostanziale si sono attenuti anche gli studiosi più recenti, da Manlio Bellomo (n. 1933) a Ennio Cortese (n. 1929). Un cenno a parte merita, per l’importanza e la considerazione avuta tanto tra gli storici quanto tra i giuristi, l’opera di Paolo Grossi (n. 1933), fondatore di una rinomata scuola accademica, i cui lavori aggiornano la linea tradizionale fondata sulla centralità del Medioevo italiano e sulla difesa dello ‘specifico’ giuridico, aggiungendovi una radicale critica nei confronti del diritto positivo-statuale moderno, considerato generatore d’ingannevoli «miti» che hanno nuociuto alla forza interpretativa (e corporativa) del giurista.
Data questa situazione interna, che ha privilegiato la continuità degli assi originari, era giocoforza che i contributi fondati su una prospettiva metodologica più critica e aperta all’interdisciplinarità e alla comparazione internazionale provenissero da studiosi non accademicamente annoverati tra le fila degli storici del diritto. In primo luogo, va ricordato Arturo Carlo Jemolo, che aprì un nuovo orizzonte alle ricerche sui rapporti tra Stato e Chiesa, rinnovando il terreno prima solcato da Carlo Calisse (1859-1945). Importanti riflessioni vennero poi dagli interessi modernistici di un romanista aperto e critico, Riccardo Orestano (1909-1988), che mise in luce il netto distacco dal diritto comune operato dal pensiero giuridico soprattutto francese e che fu tra i primi ad avvertire profondo disagio per il rifiuto aprioristico della storiografia giuridica al confronto interdisciplinare (soprattutto con le scienze sociali) e per la sua diffusa infatuazione nei confronti della pandettistica, che operava un’indebita saldatura per saltum tra il Medioevo italiano e il 19° sec. tedesco, tagliando così fuori dall’interesse storiografico tutto il «poderoso sforzo dei giuristi moderni» (19632, pp. 204 ss. e 587). Un fondamentale contributo alla decostruzione dell’immagine del Medioevo del diritto come regno della perfezione giuridica venne da una storica delle dottrine giuridico-politiche, la valtellinese Paola Maria Arcari (1907-1967), e da uno storico del diritto piuttosto atipico come Domenico Maffei (1925-2009), che focalizzò l’attenzione sull’umanesimo giuridico, sottolineando così gli aspetti più critici della giurisprudenza medievale che quella nuova esperienza giuridica si era posta l’obiettivo di superare.
Ma un posto a parte va riservato agli studi storici compiuti da due teorici del diritto: Giovanni Tarello (1934-1987) e Luigi Lombardi Vallauri (n. 1936). Marxista moderato, il primo fondò un’importante serie intitolata Materiali per una storia della cultura giuridica, tutt’ora attiva, e fu autore della Storia della cultura giuridica moderna, dedicata al tema Assolutismo e codificazione del diritto (1976), un argomento che, pur avendo avuto una grande tradizione di studi nella storiografia francese (si pensi per tutti a François Olivier-Martin e Roland Mousnier), non era mai stato affrontato prima in Italia con una prospettiva di rinnovamento critico che mettesse in luce il ruolo della monarchia assoluta nell’opera di elaborazione del diritto moderno. Con il Saggio sul diritto giurisprudenziale (1967), Lombardi Vallauri offrì una finissima ricostruzione del diritto comune contrapponendo alla visione tradizionale, che lo intendeva come un sistema legislativo, la pratica giurisprudenziale. Era così demolita l’idea del diritto come struttura ontologica ed emergeva la responsabilità – anche politica – del giudice (un filone di ricerca, questo, sviluppato poi da Alessandro Giuliani e Nicola Picardi, ancora due non storici del diritto di professione).
Altre, ancorché più prudenti, aperture – questa volta interne – alla società e ai mutamenti istituzionali vennero dalla linea inaugurata dallo studioso del diritto longobardo Gian Piero Bognetti (1902-1963). Allievo di Besta, Bognetti fu a sua volta maestro di Giulio Vismara (1913-2005) dal quale presero le mosse Adriano Cavanna (1938-2002) e Antonio Padoa-Schioppa (n. 1937), autori dei due manuali oggi più diffusi. Negli scritti di questi autori, malgrado un impianto che resta ancorato all’analisi delle fonti giuridiche del diritto comune, si nota una progressiva benché moderata apertura verso lo studio di un diritto comparato (soprattutto con il sistema anglosassone) posto in maggiore confronto con l’evoluzione della realtà sociale.
Un’ultima, indispensabile, notazione riguarda i rapporti tra le storiografie del diritto e delle istituzioni. Solo piuttosto tardivamente è iniziata a emergere in Italia l’importanza politica degli apparati giurisdizionali (Gino Gorla, 1906-1992; Ugo Petronio, n. 1942). I risultati di queste ricerche, nelle quali il metodo storico-giuridico si è aperto ai problemi socioistituzionali, sono stati di indiscutibile rilievo. All’iniziale «vuoto storiografico italiano» in merito (sottolineato da Mario Ascheri) hanno tentato di porre un parziale rimedio i pionieristici studi di Antonio Marongiu (1902-1989), poi quelli dello stesso Ascheri (n. 1944), infine gli ultimi lavori, comparativi e di ampia sintesi cronologica, di Raffaelle Ajello (n. 1928) che hanno offerto fondamentali strumenti per procedere al rinnovamento di un ambito disciplinare che nel complesso sembra però restare ben radicato nelle proprie fondamenta costitutive.
Questi ‘riferimenti’ non costituiscono una bibliografia. Gli autori e le opere citati sono il frutto di una selezione che corrisponde alla linea interpretativa del saggio, e quindi ciò che manca non può essere inteso in alcun modo come esclusione di opere eccellenti, bensì come semplice scelta funzionale alla presente trattazione.
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