Storia di genere
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, ricerche dedicate alla storia delle donne si propongono di dare visibilità a un soggetto – le donne, appunto – tenuto ai margini delle indagini storiche tradizionali. Senza essere una «minoranza» in termini numerici, le donne sono state affiancate a quei gruppi subalterni, nelle società del passato (insieme con i contadini e gli operai, i criminali, i devianti ecc.), che la storiografia otto-novecentesca ha ignorato e che, invece, la storiografia recente, in convergenza con l’antropologia e poi con la storia sociale, intende recuperare alla memoria come soggetti di azione nella storia e pertanto farne oggetto di studio.
La «storia delle donne», dunque, nasce con un intento aggiuntivo e integrativo alla storia corrente. Tuttavia includere le donne nel panorama dei soggetti attivi nei processi storici non è mai stato inteso e proposto come un obiettivo fine a sé stesso. Piuttosto, fin dall’inizio, l’operazione addizionale fu perseguita con il convincimento che anche la semplice collocazione delle donne negli scenari storici costituisse di per sé un’alterazione delle ricostruzioni dominanti e conducesse con sé la messa in discussione delle acquisizioni tradizionali, la individuazione di paradigmi nuovi e il riorientamento delle risultanze. Da ciò sarebbero scaturite letture nuove e meno parziali del passato che avrebbero scosso le «narrazioni» consolidate (S. Rosa, Un supplemento dal nome poco cospicuo. Linguaggio, genere e studi storici, «Storica», 20-21, 2001). La sola inclusione, infatti, bastava a denunciare l’occultamento compiuto, dietro a un soggetto apparentemente universale (il protagonista della vicenda storica ma anche il suo storico), di un soggetto in realtà esclusivamente maschile. «In sostanza, la storia delle donne rappresenta una sfida sia alla pretesa della storia di fornire un racconto unitario, sia alla completezza e all’autonoma esistenza del soggetto della storia – l’Uomo universale» (J. Scott, La storia delle donne, in La storiografia contemporanea, a cura di P. Burke, 1993).
Nel 1976 N. Zemon Davis invitava a considerare «il peso dei ruoli sessuali nella storia» (La storia delle donne in transizione: il caso europeo, in Altre storie. La critica femminista alla storia, a cura di P. Di Cori, 1996), cogliendone la storicità e, insieme, la necessità di includere il genere sessuale tra le categorie fondamentali di interpretazione dei fenomeni del passato insieme con classe, stratificazione sociale e razza.
Dieci anni più tardi J. Scott proponeva una definizione di «genere» costituita da due proposizioni connesse: «il genere è un elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi, e il genere è un fattore primario del manifestarsi dei rapporti di potere» (J. Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, in Altre storie). La proposta metodologica della storica statunitense muoveva dal riconoscere che «uomo» e «donna» sono categorie al tempo stesso vuote e sovrabbondanti. «Vuote perché non hanno un significato definitivo e trascendente; sovrabbondanti perché, anche quando sembrano fisse, continuano a contenere al proprio interno definizioni alternative, negate o soppresse» (ivi).
La differenza tra uomini e donne, dunque, non può essere ristretta a quella che è la distinzione di sesso (espressa in inglese dalla locuzione sexual difference), né può essere postulata a priori, assumendo acriticamente il dato biologico. Piuttosto, seguendo la lezione dell’antropologia, che dimostra appunto come la fisiologia sia sempre oggetto di interpretazione nelle diverse culture (G. Pomata, La storia delle donne. Una questione di confine, in Il mondo contemporaneo, X, Gli strumenti della ricerca. Questioni di metodo, 1983), la «differenza» (o, se vogliamo, la differente condizione) tra uomini e donne diviene l’oggetto stesso della ricerca, la domanda che l’orienta e il problema da analizzare.
La storia di genere (gender history), dunque, si disinteressa della mera differenza dei sessi, ritenendo che questa, da un lato, sia insufficiente a rendere conto di un fenomeno più ampio quali sono appunto le identità di genere e, dall’altro lato, corra il rischio di identificare sulla base della comune fisiologia un gruppo astratto, le «donne», i cui caratteri (ma anche funzioni e ruoli sociali, spesso stabili nelle diverse culture) siano fondati in modo «essenzialista» sulla biologia, siano cioè «naturali». La storia di genere indaga, piuttosto, come le identità di genere si costruiscano reciprocamente attraverso le relazioni e le pratiche quotidiane, i rapporti di potere, i sistemi di norme e le istituzioni, i linguaggi e le culture dei diversi contesti spazio-temporali (ivi). È questo, d’altronde, il senso autentico del termine inglese gender, qualunque siano le varianti semantiche che in altre lingue conoscono termini assonanti così come, appunto, in italiano «genere» (P. Di Cori, Dalla storia contemporanea alla storia di genere, «Rivista di storia contemporanea», IV, 1987).
Rispetto all’accezione disciplinare «storia delle donne», il concetto di genere opera, dunque, una correzione sostanziale in due direzioni correlate: non riguarda in senso stretto le donne, definite come un insieme univoco e uniforme costituito dall’essere femmine (dalla sessualità femminile e dal corpo potenzialmente materno), ma quello che esse storicamente sono; riguarda tanto le donne quanto gli uomini (come recepiscono gli studi più lenti a svilupparsi, ma sempre più numerosi sulle identità maschili e la costruzione della mascolinità e il proliferare di ricerche nel settore dei gay e lesbian studies). Non si tratta più tanto di rintracciare, con una sottile ansia di competizione, spazi di protagonismo femminili che ne accreditino la presenza sulla scena storica e ne legittimino gli studi, quanto di stabilire la «relazione concettuale, determinata storicamente, [della categoria “donne”] con la categoria ‘uomini’» (Scott, La storia delle donne, cit.).
Un debito importante, nella riflessione e nella messa a punto teorica della storia di genere e dei suoi strumenti interpretativi, è stato contratto nei confronti del decostruzionismo di J. Derrida e del post-strutturalismo di M. Foucault. L’uno ha denunciato il sistema binario che costruisce i significati per opposizione rispetto a un termine innalzato a norma «universale» (per es. maschile/femminile) e ne ha proposto il superamento proponendo la logica del «supplemento». L’altro ha indicato, nei suoi studi sul potere, che i «saperi» sono sistemi di ordinamento della realtà, al quale contribuiscono le relazioni sociali attraverso istituzioni e strutture, pratiche quotidiane e rituali. Da qui è scaturita un’analisi più fine dei significati stessi dei termini «uomo» e «donna» e della loro elaborazione attraverso i processi discorsivi che producono la differenza.
Per quanto riguarda, invece, il confronto con le scienze sociali, l’antropologia e la psicanalisi sono state inizialmente le discipline con cui coordinare la riflessione, vista l’attenzione che esse riservano «al ruolo svolto dalla differenza sessuale nella formazione dell’identità individuale e collettiva» (Di Cori, Dalla storia contemporanea). In seguito è stata soprattutto la sociologia, con cui la storia sociale aveva contemporaneamente aperto un proficuo confronto, a diventare l’interlocutore privilegiato.
La ricerca delle storiche – conviene parlare al femminile vista l’ancora attuale prevalenza di studiose – ha preso le mosse attraverso pratiche di indagine e di scrittura che si legavano, in modo più o meno stretto, all’esperienza dei movimenti femministi (nella misura in cui questi esprimevano una critica teorica al sistema patriarcale del passato e intendevano denunciarne e scardinarne l’assetto anche attraverso forme di attivismo). Tuttavia l’esigenza di ricostruire il passato delle donne era avvertita come un’operazione che dovesse svolgersi all’insegna del massimo rigore scientifico. Si trattava non solo di recuperare uno spazio di visibilità, dilatando alle donne il campo della memoria, ma anche di riattivare un’attività intellettuale, quella di scrivere di storia, da cui queste erano state espunte come autrici a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, da quando cioè la storiografia si è posta come disciplina accademica, positivista, scientifica, distanziandosi dalla storiografia romantica e dalla matrice letteraria (G. Pomata, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, «Quaderni storici», 74, XXV, 1990). Nel far ciò, si puntava il dito sulla soggettività dello storico e, in particolare, sulla rilevanza della sua identità sessuale contro ogni pretesa di ritenere non solo neutro lo sguardo dell’osservatore e ininfluente la sua partecipazione al fenomeno osservato, ma anche indifferente la sua identità di genere, perlopiù reputata, rispetto ad altre appartenenze, un dato privato e pertanto trascurabile.
Da qui muovono le prime ricerche condotte da studiose universitarie e diffuse in riviste scientifiche. Soprattutto nel corso degli anni Ottanta, infatti, mentre si avviano filoni tematici di grande spessore, si organizza anche la pubblicazione di riviste specializzate – come, tra le molte, «Gender and History» (1980), «Memoria» (1981), «L’Homme» (1990), «Clio» (1995) –, che rinunciano all’approccio multidisciplinare praticato da riviste già esistenti, come per es. «Donna Woman Femme» (1975). A queste sedi si affiancano contributi singoli e a sezioni monografiche di riviste di storia generale come «Quaderni storici» (dal 1980) e «Rivista di storia contemporanea» (dal 1985). In Italia, la separatezza tra produzione scientifica e impegno militante «femminista», cioè tra cultura e politica, è stata abbastanza rigorosa, e, sebbene discussa nella comunità delle storiche, non ha conosciuto una ribalta pubblica ed è stata ribadita anche quando si è costituita la Società italiana delle storiche (1989). Diverso, invece, è quanto sembra essersi verificato altrove, specie negli Stati Uniti, il cui insieme eterogeneo di studiose è stato ispiratore e interlocutore privilegiato delle esperienze europee. Tuttavia è innegabile che, anche in Italia, la consapevolezza della propria soggettività e identità di genere abbiano indicato l’agenda dei temi da affrontare. Prima di indicarli, conviene segnalare come le tradizioni storiografiche «nazionali» abbiano contribuito a indirizzare la ricerca nei vari paesi, tanto più che sia la storia delle donne sia la storia di genere hanno fatto ricorso a metodologie della ricerca convenzionali. Questi due filoni di studio, quindi, non hanno inaugurato un metodo specifico, ma hanno adottato nuovi presupposti, un diverso ordine delle rilevanze e uno specifico questionario cui sottoporre la raccolta dei dati e la loro interpretazione. Ciò è avvenuto mentre la storiografia, nel suo complesso, sperimentava una generale torsione che la apriva a settori nuovi della ricerca, a una diversa articolazione tematica e a differenti gerarchie di postulati. Non a caso, quindi, la storia sociale ha rappresentato un alleato degli studi sulle donne e un volano importante per favorirne il rafforzamento e la diffusione, contemplando al suo interno l’interrogativo su «i molteplici modi con i quali le donne hanno potuto re-interpretare e rielaborare i […] significati» dei contenuti, dal carattere storico e mobile, del maschile e femminile (E. Varikas, Genere, esperienza e soggettività. A proposito della controversia Tilly-Scott, in «Passato e presente», 26, 1991).
Il confine tra storia delle donne e storia di genere, che appunto si definiva insieme allo svolgersi dell’attività di ricerca, è rimasto perlopiù ambiguo. Non sempre le rispettive premesse sono condivise e gli obiettivi, diversi, coerentemente individuati e perseguiti rispetto al nome dato a ciò che si stava facendo. D’altronde, postulare la storia di genere come una versione più matura (e moderna) della storia delle donne non è propriamente possibile (Scott, La storia delle donne, cit., p. 52) e, per certi versi, è operazione discutibile. Infatti, la storia di genere ha conosciuto anche, in alcuni settori perlopiù statunitensi, una deriva scettica, mostrando l’attitudine a considerare le donne solo come la costruzione dei «discorsi» religiosi, giuridici, letterari, filosofici, medici ecc. di cui erano oggetto. In tal modo è stato privilegiato l’esame del «significato» piuttosto che lo studio delle donne quali soggetti operanti di fatto nella realtà del passato. La storia delle donne, invece, ha insistito sulla identità collettiva delle donne e sulla separatezza della esperienza storica femminile da quella maschile. Permane tuttavia una fondamentale e per certi versi insolubile ambiguità tra i due campi di studio. Da un lato, infatti, la dizione «storia di genere» è stata spesso usata per schermare l’oggetto autentico della ricerca condotta, cioè le donne (o la condizione femminile) e per presentare il proprio operato come sessualmente neutro, insospettabile di «militanza femminista» e, in definitiva, scientifico, specie agli occhi dell’accademia. Si tratta di una contraddizione che ha condotto a esiti opposti, invece, laddove, come per es. negli Stati Uniti, la individuazione del soggetto di studio (in questo caso le donne) rientrava nella politica accademica di protezione e incoraggiamento degli studi settoriali. D’altro lato, l’ambiguità deriva anche dalla persistente difficoltà di formulare il concetto di «genere», attorno al quale si spendono studiose di diverso indirizzo teoretico e filosofico, e di individuare e definire in modo stabile e costante la soggettività «femminile» (S. Piccone Stella, C. Saraceno, Introduzione. La storia di un concetto e di un dibattito, in Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, 1996). Le storiche hanno scelto, almeno in Italia, di porsi in modo pragmatico di fronte alle differenze rilevabili nel passato e, per questo motivo, in definitiva l’oggetto di studio sembra essere sovente, al di là delle etichette, un’analisi congiunta di uomini e donne o delle relazioni tra i sessi.
Per quanto riguarda i temi che raccolgono l’interesse della ricerca, questi individuano i contesti e gli eventi in cui l’esperienza storica femminile si sperimenta e in cui, contemporaneamente, si costruiscono in modo relazionale le identità di genere: la famiglia, il lavoro, la cittadinanza, la sfera pubblica e quella domestica, ma anche la guerra, il corpo e la maternità, la storia religiosa, l’istruzione, l’associazionismo e il diritto. L’obiettivo, in questi studi, è stato tanto di accumulare dati e ricavare informazioni che fornissero ricostruzioni attendibili sul vissuto delle donne, quanto di individuare i «discorsi» che avevano contribuito alla costruzione culturale dei sessi (assumendo con reciprocità la controparte maschile e femminile), la loro interpretazione e peculiare traduzione nella esperienza storica di individui e gruppi sociali.
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