STATUTO
. Pure nella varietà delle sue accezioni, la parola ha un significato sostanzialmente unico e indica l'atto formale e solenne, nel quale sono espressi i principî fondamentali intorno all'organizzazione e all'ordinamento giuridico di qualunque associazione, ente o istituto. Trattandosi di enti sovrani, cioè degli stati, quest'atto assume più comunemente il nome di carta costituzionale o di costituzione; per gli enti minori, invece, l'espressione statuto è di applicazione universale.
La stessa espressione, usata per indicare la costituzione dello stato, si trova talora nel diritto inglese, ove tuttavia assume anche il significato generico di atto emanato dal parlamento, ossia di legge formale.
L'applicazione più importante è propria dell'ordinamento italiano, nel quale è detta statuto la costituzione promulgata per lo stato sardo dal re Carlo Alberto il 4 marzo 1848 e divenuta successivamente la costituzione del regno d'Italia. Tale designazione sembra che sia stata preferita alle altre più generalmente usate, per richiamare il ricordo degli statuti dei comuni italiani del Medioevo, che avevano rappresentato la più ampia conquista delle libertà politiche e individuali (v. oltre). Fra le molte costituzioni emanate nei varî ordinamenti italiani nella prima metà del secolo XIX, quella piemontese non fu la sola designata col nome di statuto: già ebbero tale nome i decreti organici del Regno italico, emanati fra il 1805 e il 1810; statuti furono dette la costituzione napoletana del 1808, quelle toscana, romana e siciliana, rispettivamente del 5 febbraio, del 14 marzo e del 19 luglio 1848. Mentre questi statuti, come altre costituzioni contemporanee, furono di breve vita o addirittura effimeri, lo statuto del regno sardo resisté ai successivi avvenimenti storici, estendendo via via la sua efficacia, in conseguenza delle annessioni, che precedettero e seguirono la costituzione del Regno d'Italia, comprese quelle successive alla guerra mondiale. Per le origini e le fonti dello statuto albertino, v. italia: Ordinamento politico. Riguardo al suo contenuto, esso consta di 84 articoli, distribuiti in nove gruppi, il primo dei quali, senza titolo, contiene le dichiarazioni fondamentali intorno alla religione ufficiale dello stato, alla forma del governo, alle funzioni, prerogative e diritti del re e dei membri della famiglia reale. Le parti ulteriori sono dedicate, rispettivamente: ai diritti e doveri dei cittadini; all'ordinamento del senato e alle prerogative dei senatori; alla formazione della camera elettiva e alle prerogative dei deputati; al funzionamento delle due camere; alla nomina e alle funzione dei ministri; all'ordine giudiziario e alle garanzie dei magistrati. L'atto termina con due titoli di norme generali e di norme transitorie. Come si vede, la partizione riassume gli elementi essenziali dello stato costituzionale: il re, il popolo, i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, che governano lo stato: schema particolarmente semplice, che contrasta con quelli molto vasti e complessi di altre costituzioni, specialmente delle più recenti. Ispirandosi ai principî del costituzionalismo liberale, lo statuto albertino è in gran parte superato dalle più recenti dottrine politiche e, in modo positivo, dai nuovi principî dello stato fascista. Molte parti, tuttavia, restano pienamente conservate nel nuovo regime: così quelle che si riferiscono alla religione, al re, al senato, ai giudici e ad altre secondarie istituzioni. Si deve inoltre notare che alcuni principî, mentre avevano perduto, in tutto o in parte, il loro originario significato in forza delle tendenze parlamentari e ultraliberali, lo hanno pienamente riacquistato nel nuovo diritto fascista. Ciò deve dirsi specialmente per quanto riguarda l'affermazione del carattere ufficiale della religione cattolica nello stato e soprattutto la posizione del governo del re e dei ministri nei rapporti col re e con le camere.
Con ciò non si vuole intendere che, anche su tali punti, i nuovi principî siano semplicemente un ritorno a quelli statutarî: ma soltanto che essi si avvicinano in parte a tali principî, mentre rappresentano la negazione completa e il massimo superamento di quelli del regime anteriore. Tale superamento è più decisivo e investe gli stessi principî dell'antica costituzione in ciò che riguarda la posizione dei cittadini rispetto allo stato e il nuovo concetto del sistema rappresentativo, basato sul principio dell'unità politica della nazione e della sua composizione organica corporativa (v. fascismo).
Gli statuti degli enti e delle associazioni compresi entro lo stato assumono un diverso valore giuridico, secondo che appartengono a enti puramente di fatto, o a enti riconosciuti come persone giuridiche private o a quelli che hanno carattere di persone giuridiche pubbliche. Nel primo caso, lo statuto è atto giuridicamente irrilevante, o rilevante solo come mezzo di conoscenza dei fini dell'associazione e del conseguente giudizio sulla sua liceità (legge di pubblica sicurezza, art. 209): quando ricorrano particolari elementi di forma e di contenuto, gli statuti delle stesse associazioni possono avere gli effetti di un vincolo contrattuale. Tali effetti sono sempre da riconoscersi agli statuti delle persone giuridiche private, quali particolarmente le società commerciali. Nell'una e nell'altra ipotesi, gli statuti agiscono nel campo dell'autonomia meramente lecita del diritto privato; nel caso, invece, delle persone giuridiche pubbliche, lo statuto rappresenta la manifestazione più importante dell'autonomia pubblica o autonomia in senso stretto. Come tale, esso ha valore obbligatorio non solo per i componenti l'associazione, ma anche per tutti coloro che con essa vengono in rapporto, in quanto costituisce una norma giuridica oggettiva, una legge in senso materiale. L'autonomia in senso stretto è infatti la capacità, riconosciuta dal diritto agli enti pubblici, di organizzarsi per mezzo di proprie norme, alle quali è attribuita la stessa efficacia delle leggi sostanziali emanate dagli organi diretti dello stato e destinate a far parte del suo ordinamento. Nell'attuale diritto hanno questo carattere gli statuti delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, quelli degli istituti pubblici di istruzione, dei consorzî, delle associazioni sindacali, degli enti parastatali e, in genere, di tutti gli enti pubblici non territoriali.
Quanto agli enti territoriali, i comuni e le provincie, la loro organizzazione è determinata completamente dalle leggi generali e la loro autonomia non si manifesta negli statuti, ma soltanto in norme di secondaria importanza che si dicono regolamenti. Gli statuti degli enti pubblici devono essere approvati dalle autorità governative, di solito con la forma del decreto reale, che può essere quello stesso con cui è riconosciuta la personalità dell'ente o, dopo il riconoscimento, un decreto separato. Quest'approvazione ha soltanto il valore di un atto di controllo, il quale, secondo i principî generali, non trasforma l'atto approvato in un provvedimento diretto dello stato, ma si limita a permettere che esso dispieghi la sua efficacia giuridica. La stessa posizione che assumono gli statuti degli enti statuali nel diritto dello stato, trova corrispondenza in quella fatta agli statuti degli enti ecclesiastici nel diritto della Chiesa. Quanto al valore di questi ultimi rispetto al diritto dello stato, esso dipende, oltre che dal carattere legislativo o meno, che abbiano secondo l'ordinamento canonico, dalla categoria delle norme, in cui secondo l'oggetto possono rientrare: è noto infatti che il diritto dello stato riconosce ad alcune norme canoniche l'efficacia legislativa che esse hanno nel loro ordinamento.
V. anche: costituzione; italia: Ordinamento politico; società.
Bibl.: D. Zanichelli, Lo statuto di Carlo Alberto secondo i verbali del Consiglio di Conferenza, Roma 1898; U. Forti, Gli statuti degli enti autonomi, Napoli 1905; F. Racioppi e I. Brunelli, Commento allo statuto del regno, voll. 3, Torino 1909; G. Zanobini, Caratteri particolari dell'autonomia, Padova 1932; F. Battaglia, Le carte dei diritti dalla Magna Charta alla Carta del lavoro, Firenze 1934.
Statuti comunali.
Due grandiosi fatti segnano nella seconda metà del sec. XI l'inizio del Rinascimento italiano: il rinnovarsi dello studio del diritto giustinianeo salito ad altezze da secoli non tocche e lo sbocciare di una ricca fioritura statutaria che mirava a dare acconcia espressione alle nuove formazioni giuridiche. Entrambi derivarono dal bisogno di dar certa norma a una vita di affari, che non poteva più essere contenuta nell'ambito angusto della legislazione barbarica e delle consuetudini.
La legislazione statutaria fu l'argine opposto al pericolo che un culto esagerato del diritto giustinianeo, da legge di stirpe risollevato a dignità di lex communis, potesse calpestare le regole disformi imperanti nel costume e magari contro il pericolo che i nuovi Cesari, infervorati nei sogni del rinnovato impero e desiderosi di seguire in tutto l'esempio dei lontani loro predecessori, prendessero troppo sul serio la loro funzione legislativa non tenendo adeguato conto della realtà.
Gli statuti possono rientrare nel genere delle leggi: furono però a lungo contrapposti alle leges in senso stretto. Queste, in omne aevum valiturae; quelli, occasionali e senza previsione di perpetuità, e nondimeno distinti dalle provisiones o dai consilia destinati a esaurirsi nel momento stesso in cui ricevevano esecuzione. Statutum si disse anche l'accordo privato sovente introdotto con la formula: Stetit inter; ma più spesso ancora fu concepito come l'ipostasi di una volontà comune che si trasformava in norma di condotta per le parti che si erano accordate. Una communis sponsio come l'antica lex.
Gli statuti non sono nati nel sec. XI: trovano precedenti assai remoti. E, se anche non conviene risalire leggermente alle leges municipales dell'antichità, ben possono a essi avvicinarsi le fabulae che l'editto longobardo presuppone praticate fra colliberti e vicini come facoltà di regolare a proprio senno certi rapporti di comune interesse magari subdiscendendo a lege. Le vicinie si riannodano facilmente ai comuni.
Nel comune poterono, d'altra parte, passare i iura statuendi delle diverse autorità delle quali esso riassunse il potere, o che avessero giurisdizione (conti, duchi, marchesi) o che avessero solo la districtio (sculdascio, capitano di pieve, meriga, saltario, ecc.).
Gli statuti comunali rispecchiarono la diversa struttura e la diversa. competenza del comune. Si parla di statuti cittadini e rurali e alla loro volta gli statuti rurali si potrebbero suddistinguere in castrensi, vicinali, curtensi. I comuni vicinali, se non furono con privilegio esentati dall'obbedienza alla città, ebbero generalmente limitato il loro ius statuendi dal fatto che il territorio era subordinato alla città stessa: se pur ebbero una districtio, non ebbero mai una vera iurisdictio; i loro statuti furono essenzialmente amministrativi. Amministrativi avrebbero dovuto essere anche i castrensi, regolando i rapporti che derivavano ai castellani dalla relazione col castello e col suo signore: ma l'importanza quasi cittadina di molti castelli spiega come in parecchi statuti di castello (specialmente nelle Marche) fosse regolato lo ius curiae. Questo si trova spesso disciplinato anche negli statuti dei distretti rurali, che solevano già raccogliere più vicinie sotto una stessa giurisdizione (es., Valtellina, Valcamonica, Valsassina, Valsabbia, Valtrompia, ecc.).
Nell'interno del comune vi poterono essere anche statuti di corporazioni e magari statuti di famiglie.
Nel sistema medievale delle fonti gli statuti si subordinarono e si coordinarono secondo la gerarchia delle autorità cui era concesso lo ius statuendi. Lo statuto delle città prevalse su tutti gli statuti castrensi, vicinali, corporativi. E dove più città furono raccolte sotto il predominio di un'altra, lo statuto della dominante poté aver efficacia di diritto comune, da non confondersi col diritto comune costituito dalle leggi giustinianee e dalla loro interpretazione, entro tutto il territorio della dominante.
I più interessanti furono gli statuti di città. Prima della pace di Costanza per privilegio e dopo la pace di Costanza generalmente, passate nei comuni cittadini le regalie, lo ius statuendi si ampliò e intensificò, così che lo statutum acquistò valore di legge. Ora si poté anche ammettere che lo statuto potesse abrogare le stesse leges, le quali costituivano pur sempre il diritto comune.
I giuristi italiani dovettero inquadrare la legislazione comunale entro lo schema dottrinale che si erano formati intorno alle fonti del diritto. Forzando un po' la storia, ma non tanto quanto un tempo si credeva, la fecero apparire come derivante da una facoltà concessa dall'imperatore espressamente o tacitamente. Dopo tutto, le stesse leggi romane riconoscevano uno ius civile quod quisque sibi populus constituit e si richiamavano spesso non pure ad usus, ma a leges municipales.
Per questa via potevano riuscire a legittimare per lo meno gli statuti delle civitates. Ma seguirono anche un'altra via: lo ius statuendi fu messo in rapporto con la iurisdictio e, ammesso che questa si potesse acquistare attraverso la prescrizione ab immemorabili, fu anche ammesso che potesse essere acquisito lo ius statuendi.
Meglio ancora corrisposero alle esigenze del tempo coloro i quali e iurisdictio e ius statuendi derivarono dal diritto che ogni organizzazione avrebbe alla propria conservazione. Fu l'idea che, pur aduggiata in una forma scolasticamente pesante, brilla nell'opera di Baldo.
Di solito si considerano come elementi costitutivi degli statuti quelli che pur si considerano come elementi del diritto italiano: diritto romano, diritto germanico, diritto ecclesiastico e, per chi ci crede, diritto volgare. Lo statuto non aveva però ragione, salvo che non si trattasse di abrogare contrarie norme locali, di sancire le norme di diritto giustinianeo che già avevano efficacia di diritto comune. Poté invece ribadire il diritto romano pregiustinianeo per impedire che fosse sopraffatto dal giustinianeo. La difesa del diritto romano non avrebbe più avuto ragione di essere dal momento che il diritto longobardo aveva cessato di essere lo ius italicum. Fu, invece, mezzo opportuno per salvare la vita di certi istituti riconosciuti dalle leggi longobarde quando queste perdettero anche la prevalenza che potevano aver conservata in certe regioni. Anche l'adozione del diritto della Chiesa sarebbe stata superflua in quanto le sue norme fossero considerate come generali e prevalenti sulle stesse leggi civili: ma sovente, in momenti di attrito con l'Impero, fu la Chiesa stessa a imporre l'inserzione delle sue norme negli statuti.
Passiamo a considerare. gli elementi costitutivi dello statuto. È opportuno distinguere gli elementi formali dai sostanziali. Tra i primi si sogliono porre le consuetudini e i brevi. Se lo statuto ebbe come suo scopo la difesa del diritto locale contro l'invadenza sempre crescente del diritto comune, ben s'intende che esso abbia a un certo momento accolto in sé stesso anche le redazioni scritte delle consuetudini. Munite di formula statutaria, queste mutavano con ciò il fondamento della loro validità. Per la genesi dello statuto, ebbero in ogni caso un'importanza maggiore i brevi: cioè, la formulazione scritta delle promissiones o dei giuramenti che, secondo una tradizione la quale facilmente si connette alle pratiche dell'impero greco-romano, contenevano gl'impegni che i magistrati si assumevano di fronte al popolo e il popolo di fronte ai magistrati. Importantissimi soprattutto i brevi attinenti alle magistrature direttive del comune.
Dovendo controllare anche gli altri ordini, nei brevi dei consoli prima, e poi in quelli dei podestà e dei capitanei del popolo o del sindaco generale, dovettero riflettersi i principali statuti del comune. Qualche volta avvenne realmente che lo statuto comunale si identificasse col breve regiminis o anche col breve populi: più sovente, però, i brevi diedero invece materia allo statuto. La derivazione di essi è spesso indicata da una formulazione soggettiva di certi capitoli fra altri che, muniti di formula statutaria, hanno una formulazione oggettiva. Pongono, cioè, la norma e non dànno rilievo speciale al dovere sorgente da essa in chi la doveva applicare.
Nello statuto andarono del resto a confluire anche altri elementi: per es., i privilegi che il comune avesse avuti da altre autorità superiori: imperatori, marchesi, conti; le cosiddette franchigie (chartae libertatis, ecc.) o i trattati che esso avesse conchiusi con altri comuni o stati (securitates, pacta) o anche le convenzioni interne tra i diversi partiti, ecc.
Nell'interno del comune gli statuti furono posti da quegli organi che avevano volontà di formulare la volontà comune: dall'arengo in origine, poi dal consiglio maggiore con riserva della facoltà d'approvazione dell'arengo, poi dal consiglio maggiore stesso, poi dai consigli o dalle commissioni a cui l'arengo o il consiglio maggiore avessero fatto delegazione dei proprî poteri. Più si procede nel tempo e più si preferisee affidare la preparazione e la revisione degli statuti ad apposite commissioni di statutarii, capitularii, emendatori, tra le quali s'insinua l'elemento tecnico in sempre maggiori proporzioni. Nel comune dipendente, lo statuto ebbe sempre bisogno dell'approvazione dell'autorità superiore, la quale si riservava anche la facoltà di sopprimere o di aggiungere o correggere.
A mano a mano che si fa più attiva la legislazione centrale, anche la mole dello statuto si attenua. Il comune dominante o il principe provvede egli stesso alle esigenze, a cui prima aveva supplito il comune soggetto. Tutti gli elementi occasionali e transitorî cadono. Restano le norme le quali hanno veramente in sé una ragione di vita perenne. Gli statuti si solidificano in redazioni definitive. Le quali sovente, nel corso dei secoli XVII e XVIII, si sono ridotte a ordinamenti per il buon governo, affini agli attuali ordinamenti di polizia.
L'unificazione legislativa in rapporto al diritto penale, al diritto civile e alle procedure era già ben progredita prima che la rivoluzione francese portasse decisamente verso la codificazione.
Molti statuti cessarono di avere efficacia per l'estensione delle leggi francesi: qualcuno, specialmente in Piemonte, la ricuperò con la restaurazione. Ma non fu difficile alla codificazione più recente tagliar corto anche con essi. L'autonomia comunale, fuorché entro limiti ristretti, non aveva più ragione d'essere.
Tra la fine del sec. XVIII e la metà del XIX migliaia di statuti andarono perduti. Ma qualche migliaio si conserva ancora e l'Italia può dirsi, fra tutte le nazioni, ben fortunata in rapporto alla conservazione di codeste preziose memorie del suo passato giuridico.
Bibl.: E. Besta, in Storia del diritto italiano, sotto la direzione di P. Del Giudice, I, parte 2ª, Milano 1925, pp. 474-725 e l'ampia bibliografia ivi richiamata.
Statuto personale.
La distinzione fra statuti personali e statuti reali si preannuncia nei giuristi francesi della seconda metà del sec. XIII e specialmente in Pietro da Bellapertica: ma raggiunse contorni più precisi per opera di Bartolo da Sassoferrato e di Baldo degli Ubaldi.
La distinzione deriva la sua importanza dal fatto che servì a una prima, determinazione dei criterî, coi quali si sarebbe potuta determinare l'applicazione degli statuti a chi non era comunista: segnerebbe gli albori della dottrina del diritto internazionale privato. Statuti personali si dissero quelli che si riferivano alle persone; reali, quelli che si riferivano alle cose. Questo criterio di valutazione, del tutto esteriore, portò a inserire fra le due categorie una terza costituita dagli statuti misti. Malgrado le sue imperfezioni, la distinzione trovò fortuna e passò dalla giurisprudenza italiana in quella francese, spagnola, tedesca. Si cercò di approfondirne le ragioni, ma queste indagini posero anche in luce l'insufficienza del criterio a risolvere il problema per il quale si era fatto a esso ricorso. Il principio territoriale finì per dominare decisamente; il riguardo agli statuti personali è poggiato, piuttosto che sul diritto, sulla cortesia internazionale. Personali apparvero gli statuti che regolavano lo stato della persona e la sua capacità giuridica. E apparve addirittura come statuto personale, il complesso delle norme dalle quali poteva essere determinata la condizione giuridica delle persone.
La scienza del diritto internazionale incardina ora la sistemazione del diritto internazionale sopra altri criterî, badando, piuttosto che alle leggi, ai rapporti giuridici; ma quella distinzione non ha perso ogni importanza. Essa è passata nel campo del diritto coloniale. La determinazione del cosiddetto statuto personale degl'indigeni è sempre uno dei problemi più vivi.