FOGACCI, Severiano
Nacque ad Ancona il 23 ag. 1803 da Giovanni, caffettiere, e da Giovanna Frosi. Rimasto presto orfano del padre, entrò nel locale seminario al quale cinque anni dopo preferì i corsi di eloquenza del ginnasio pubblico: si era infatti evidenziata la sua inclinazione per gli studi di letteratura, quella latina e quella italiana delle origini, cui si affiancava la passione per il verseggiare nelle forme, nei generi e secondo gli schemi propri dell'età romantica (una delle sue prime prove, pubblicata a Bologna nel 1828, era un idillio intitolato Fileno ovvero L'abbandono funesto). Com'era frequente nell'Italia del tempo, anche nel F. gli interessi culturali non restavano disgiunti dall'attenzione per le condizioni della penisola e dall'insoddisfazione per l'assetto che lo Stato pontificio aveva raggiunto con la Restaurazione: l'affiliazione alla carboneria, avvenuta nel 1824, doveva appunto esprimere questa speranza di cambiamento.
Nel 1826 il F. si trasferì a Bologna, chiamatovi a svolgere le funzioni di segretario da uno zio materno che comandava la piazza militare. Qui fu impiegato, presso il comando di divisione della città; e il 4 febbr. 1831 fu lui a leggere alle truppe pontificie l'atto di dedizione agli insorti che le impegnava a sostenere la ribellione a Roma in nome della lotta contro il potere temporale. Facile già allora agli slanci patriottici, si mise in marcia il 9 seguente con un corpo di volontari che, partito per liberare Ancona, fu invece dirottato verso il Sud per cooperare al tentativo del gen. G. Sercognani di portare la rivoluzione fino a Roma. Ma a Otricoli, alla notizia dell'intervento austriaco e della successiva capitolazione firmata dal governo delle Provincie Unite, la colonna del F. si sciolse e i suoi componenti tornarono ad Ancona mentre vi entravano gli Austriaci. Costretto a scegliere tra il carcere e l'esilio, il F. si imbarcò su una nave diretta a Corfú. Vi sarebbe rimasto per più di quindici anni.
L'isola, allora soggetta al dominio inglese, ospitava una folta colonia di italiani, quasi tutti esuli del '31. Non era facile inserirvisi perché l'economia non era florida e il lavoro scarseggiava; il F. ebbe però la fortuna di conoscere l'alto commissario inglese, lord Mackenzie, che lo assunse come precettore d'italiano delle figlie: non era una gran risorsa ma al F. bastò per allontanare lo spettro della miseria, raggiungere una relativa stabilità e metter su famiglia (1838) con una donna che gli avrebbe dato tre figli. Intanto le doti intellettuali e lo spirito d'iniziativa lo segnalavano agli altri esuli come un punto di riferimento sia per il suo impegno filantropico (creazione di una cassa di soccorso per i più indigenti) sia per lo sforzo di tenere compatta la comunità italiana attraverso progetti di natura culturale. A motivare questo suo attivismo c'era la volontà di mantenere vivo e operante il pensiero della patria lontana e delle sue sventure, e quindi il livello associativo, tollerabile dalle autorità corfiote, serviva in realtà al F. per alimentare il livello politico, tanto più impegnativo dopo che egli era entrato in contatto con N. Fabrizi, il democratico che da Malta tesseva i fili di tutta la trama cospirativa nel Mediterraneo.
Si dirà più tardi che il F. era stato negli anni Quaranta il capo della Giovine Italia a Corfù. Tale affermazione va precisata nel senso che certamente egli fu in relazione con G. Mazzini il quale, ad esempio, nel 1843 gli inviava da Londra alcuni fascicoli del suo Apostolato popolare; ma proprio la lettura dell'Epistolario mazziniano dimostra che i rapporti tra i due non furono mai intensissimi né molto confidenziali e che probabilmente il F. era stato per Mazzini uno dei tanti punti d'appoggio nel Mediterraneo. Ben più significativo appare, semmai, il legame con il Fabrizi con il quale il F. tenne per anni (dalla fine del 1841 alla fine del 1846) un fitto carteggio imprniato essenzialmente sui temi della penetrazione della Legione Italica nell'Italia centrale (e in questo il F. tornava utile per le relazioni conservate con la zona di Ancona) e, più tardi, ricomposta la frattura tra Giovine Italia e Legione Italica, sulla necessità di ricondurre l'Esperia, ossia l'organizzazione dei fratelli Bandiera che aveva come base Corfú, sotto l'ascendente teorico della Giovine Italia per un lato, sotto quello militare-organizzativo della Legione Italica per l'altro. In tal modo si capisce come mai l'aspirazione massima del F. fosse che la Giovine Italia del Mazzini, la Legione Italica del Fabrizi e l'Esperia dei fratelli Bandiera lavorassero unitariamente alla futura insurrezione: "... abbracciai il partito dell'Esperia" - scriverà il 21 ott. 1843 a N. Fabrizi - "e in me stesso n'esultai sperando di procacciare alla Legione Italica e alla Giovine Italia un aumento notabile di forze, giacché ignoravo le convinzioni e le adesioni reciproche" (Roma, Museo centrale del Risorg., b. 514/4). Purtroppo in questa sua affannosa ricerca di concordia e nell'altra, complementare, di un infoltimento delle forze rivoluzionarie, il F. finiva per trascurare le ragioni della sicurezza e si fidava di personaggi come T.V. Micciarelli o G. Achilli o D. De Caesaris che presto si sarebbero rivelati per traditori. "... Io sono carbonaro, ed egli è carbonaro, e pronunziammo giuramento infrangibile": così il 3 sett. 1843 il F. spiegava al Fabrizi perché era convinto si dovesse dare credito al Micciarelli a dispetto delle voci e dei sospetti - poi confermati - circolanti sul suo conto.
Nella preparazione della spedizione dei fratelli Bandiera, che mosse da Corfú il 16 giugno 1844, il F. ebbe un ruolo di primo piano. Anche se diciotto anni più tardi avrebbe ricordato il suo vano tentativo di impedire l'impresa in ottemperanza a una ingiunzione inviatagli dal Fabrizi, al momento della partenza non aveva saputo frenare l'entusiasmo spingendosi fino a sostenere, dopo un intervento risolutore di N. Ricciotti, che quella era l'occasione per provocare l'insurrezione generale della penisola.
Seguirono anni di crisi e di ripiegamento. Il F., che nel 1841 in collaborazione con altri esuli aveva dato vita ad un Album Jonio, "giornale di scienze, lettere, arti e teatri", si rituffò allora negli studi letterari per preparare quel Florilegio dantesco, ampia antologia di saggi critici sulla Commedia, che avrebbe visto la luce ad Ancona nel 1847. All'inizio del 1846 la morte della moglie lo aveva profondamente prostrato: si capisce perciò come mai subito dopo l'elezione di Pio IX, si affrettasse a chiedere di poter fruire dell'amnistia e, sul finire del '46, a rimpatriare. Ad Ancona lo attendeva un posto di insegnante di lettere nel ginnasio.
Prima di lasciare Corfú aveva detto che non tornava "per essere pecora nel gregge" (a Mazzini, 10 dic. 1846) e di sentire sempre forte il richiamo della rivoluzione, ma poi l'impulso riformatore del nuovo papa lo convinse a spostarsi verso le tesi giobertiane. Il 2 febbr. 1847, nella sala del Municipio di Ancona, leggeva un suo carme a Pio IX in cui, mentre celebrava in versi di sapore dantesco quel pontefice "glorioso d'imperi ordinatore", esprimeva il convincimento che potesse essere la Chiesa a guidare l'Italia verso l'indipendenza. Su tale posizione, notevole in uno che aveva sempre combattuto il potere temporale, il F. sarebbe rimasto per tutta la prima metà del 1848, arruolandosi nella guardia civica anconetana e poi partendo volontario per la campagna del Nord, nel corso della quale raggiunse il grado di capitano e partecipò alla difesa di Treviso. Poi da Venezia, dove era accorso per difendere la città dagli Austriaci, nella primavera del 1849 si spostò in tempo per prender parte alla difesa di Roma col grado di capitano di stato maggiore: la fine della Repubblica Romana ad opera dei Francesi chiamati dal papa fu per lui il più amaro dei disinganni, ma non fu l'ultimo: il 21 marzo 1850, infatti, le autorità pontificie decretavano il suo arresto per o fellonia", reato addebitatogli per essere venuto meno all'impegno preso all'atto di chiedere l'amnistia. Gettato in una cella delle romane Carceri nuove, il F. vi rimase fino al 3 ott. 1850, quando fu rilasciato in ottemperanza agli articoli 125 e 126 del regolamento di procedura criminale.
Tornato ad Ancona, allontanato da ogni impiego pubblico e sempre sorvegliato dalla polizia, fu costretto ad una vita appartata. Ne approfittò per dedicarsi di nuovo agli studi ed ai componimenti d'occasione, cercando fortuna nei testi teatrali. Nel 1863 riprese e pubblicò un dramma, la Nonna, sacerdotessa d'Irminsul, che, rappresentato con successo nella sua città nel 1847, gli aveva poi procurato qualche noia con la censura pontificia; un anno prima aveva dato alle stampe ad Ancona una "scena drammatica", dedicata a Garibaldi, dal titolo Venezia, Roma e l'Europa. La politica aveva ormai in lui un semplice spettatore dimentico delle battaglie democratiche del passato: sembra che alla vigilia del 1859 si accostasse agli ambienti della Società nazionale, ma il contributo che poté offrire all'affermazione di quella battaglia politica fu pressoché nullo. A unificazione compiuta ottenne un posto di applicato nel provveditorato agli studi e successivamente riprese l'insegnamento, ma si distinse anche per l'assidua presenza in quelle organizzazioni massoniche e combattentistiche che cercavano di tramandare alle nuove generazioni il mito di un Risorgimento laico e popolare.
Il F. morì ad Ancona il 1° febbr. 1885.
Fonti e Bibl.: Sono quasi inesistenti lavori specifici sul F. (i soli profili reperibili sono il necrologio nel foglio anconetano L'Ordine. Corriere delle Marche, 1° febbr. 1885, e la "voce" di F. Giangiacomi in Diz. del Risorgimento naz., III, che cita come fonte una commemorazione di M. Micheli, S. F., Ancona 1886). E perciò molto importante il materiale conservato nell'Arch. del Museo centr. del Risorg. a Roma. Nella busta 514 sono raccolti il carteggio con N. Fabrizi, il copialettere del F. per il periodo 1844-46, e spezzoni di corrispondenza, in genere degli anni 1843-1846, con i fratelli Bandiera, G. Mazzini, A. Morandi, T.V. Micciarelli. Ai mesi della detenzione romana risalgono invece le 15 lettere ad A. Sbriscia (ibid., b. 62/15) che qualche cedimento al sentimentalismo e l'inclinazione a parlare soprattutto delle proprie preoccupazioni familiari rendono di relativo interesse. Il carteggio col Fabrizi è stato in piccola parte utilizzato dagli studiosi del movimento democratico, soprattutto in relazione alla preparazione del tentativo dei fratelli Bandiera: in particolare si vedano, per i riferimenti al F.: R. Pierantoni, Storia dei fratelli Bandiera e loro compagni in Calabria, Milano 1909, pp. 156, 247, 273, 290 s., 303, 311; T. Palamenghi Crispi, G. Mazzini. Epistol. ined. 1836-1864, Milano 1911, pp. 72 ss., 84, 99-102, 116, 172; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il "partito d'azione" 1830-1845, Milano 1974, ad Indicem. Poche altre notizie si desumono da A. Gogna Matelica, Le Marche nella storia del Risorgimento d'Italia 1848-1870, Macerata 1905, p. 70; G. Sforza, Il dittatore di Modena B. Nardi e il suo nepote Anacarsi, Milano-Roma-Napoli 1916, pp. CXLIX, 254 s., 259, 263 ss., 274, 301; Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini (vedi il volume di Indici a cura di G. Macchia, Imola 1972, II, ad nomen) e Stato degli inquisiti della S. Consulta per la rivoluzione del 1849 …, Roma 1937, I, p. 140.