SENOFONTE (Ξενοϕῶν, Xenŏphon)
Storico e moralista ateniese. Figlio di Grillo e di Pandora, del demo di Erchia, appartenente a famiglia della classe dei cavalieri, dunque aristocratico.
Un aneddoto di Strabone e Diogene Laerzio vorrebbe che egli avesse salvato la vita a Socrate nella battaglia di Delio del 424 a. C. e perciò costringerebbe a portare la data della sua nascita al 444 circa a. C. Ma l'aneddoto è falso, perché risulta dall'Anabasi che intorno al 401 S. non poteva essere che trentenne; e c'è forse nella invenzione qualche influenza sia del soccorso decisivo prestato da Socrate ad Alcibiade nella battaglia di Potidea (432), sia del reciproco aiuto dato da Alcibiade a Socrate dopo la stessa battaglia di Delio. Comunque, il fatto decisivo della giovinezza di S. è l'incontro con Socrate. Diogene Laerzio lo descrive nel famoso episodio di Socrate, che, incontrato il giovane S. in un vicolo, gli sbarra la strada col bastone e gli domanda dove si facciano virtuosi gli uomini; e al silenzio di S., lo invita a seguirlo.
Quanto e come S. sia stato discepolo di Socrate non sappiamo: l'unico momento in cui vediamo comparire l'immagine del maestro nella vita pratica di S. è di una qualche ambiguità, perché raccontato dallo stesso S. Invitato dal suo antico amico Prosseno di Tebe a prendere parte alla spedizione che Ciro il Giovane stava organizzando contro il fratello Artaserse re di Persia (401 a. C.), S. chiese consiglio a Socrate; questi lo rinviò all'oracolo di Delfi ma S. non seguì il maestro che a metà; interrogò, cioè, l'oracolo non per sapere se avrebbe fatto bene ad accettare l'invito, bensì a quale dio sacrificando avrebbe compiuto meglio il viaggio. Socrate dovette comprendere che con ciò S. aveva già fissato il suo destino, e lo esortò allora in un secondo momento a partire.
La singolare importanza dell'episodio sta nel farci appunto intuire insieme in qualche modo la fedeltà di S. a Socrate e il distacco di attitudini e di aspirazioni che fin dalla giovinezza si palesava nel discepolo. Al maestro, legato fino alla morte alla propria città, che si vanta anzi di non esserne, se non eccezionalmente, uscito, si contrappone l'errante e avventuroso S., tra le più precise personificazioni (negli stessi suoi limiti) dell'individualismo del sec. IV, che Socrate non era stato l'ultimo a provocare, pur non essendone apparentemente toccato. Ritorniarmo nel campo congetturale se noi vogliamo ricostruire le vicende politiche della giovinezza di S. prima della partenza per l'Asia, scorgere in taluni brani della narrazione della guerra peloponnesiaca nelle sue più tarde Elleniche (per es., il racconto della battaglia di Efeso del 410 a. C.) le tracce di un'esperienza personale, considerare infine il suo allontanamento da Atene come conseguenza dei suoi sentimenti oligarchici. Ma che S. fosse per nascita e educazione incline alli'oligarchia e che questi sentimenti potessero consertarsi con l'insegnamento di Socrate sembra ovvio; e sarà da aggiungere che appunto nel sec. IV l'oligarchia sbocca spesso nell'individualismo, staccando l'individuo dalla sua città per lanciarlo alla conquista di una sua posizione personale nel mondo.
Un simile atteggiamento non implicava punto, anzi per le sue premesse contraddiceva qualsiasi tendenza a una ribellione spirituale: solo un approfondimento rigoroso delle esigenze socratiche avrebbe potuto portare a tanto. Di fatto, S. ci appare in tutto quanto è constatabile del suo pensiero attaccato alle tradizioni religiose e morali, con uno spirito di oculata amministrazione in quel che concerne la vita pratica. Nuovo è solo il riferimento costante che tutta questa tradizione assume non più alla vita della polis, ma alla vita singola dell'individuo. È perciò anche caratteristico il valore che acquista in lui la famiglia, di fronte allo scadimento del valore dello stato: più tardi egli si preoccuperà molto dell'economia familiare e descriverà la propria religiosità come conchiusa nel cerchio della famiglia. Lo stesso deve dirsi della prima qualità che S. dimostra uscendo di patria: la qualità di soldato. Questa tipica virtù della polis (e la polis stessa era, si può dire, nata insieme con gli ordinamenti oplitici) perde ogni contatto con la città, diventa saggezza e abilità personale. Ciò S. dimostra nella pratica all'estremo. Nell'esercito di Ciro, che era poi già così lontano da un'armata cittadina, egli non entra nemmeno con un posto fisso in un ordinamento: non è, dice egli stesso, né stratego, né locago, né soldato semplice, è quindi un ufficiale liberamente aggregato al comando. E in teoria, se si leggono i ritratti di capitani che S. dà nell'Anabasi si constata come appunto la sua attenzione fosse concentrata nelle qualità personali. Tutto lo svolgimento della carriera di S. come militare conserva questo carattere. Dopo la battaglia di Cunassa e la morte di Ciro (401 a. C.) e l'uccisione a tradimento di quelli che fino allora erano stati i comandanti tra i Greci, egli viene scelto tra i nuovi strateghi che devono riportare in salvo, dalla Babilonia al Ponto, "i Diecimila" Greci e finisce col diventare il principale loro animatore e guida, sebbene formalmente comandi per la maggior parte del percorso solo la retroguardia. Può essere che nel suo libro S. abbia esagerato i suoi meriti. Resta sempre nelle linee generali che si deve a lui se in una marcia così lunga e pericolosa, non insidiata, è vero, da regolari eserciti persiani (è già significativo che ciò non avvenisse), ma turbata dagli attacchi a tradimento delle tribù indigene, l'esercito greco sapeva avanzare con le spalle coperte. S. aveva la convinzione teorica e la consapevolezza pratica della superiorità degli ordinamenti militari greci: tipica la sua fiducia costante negli ordinamenti falangitici, anche in un momento in cui le truppe armate alla leggiera, appunto soprattutto fra i mercenarî, crescevano di prestigio. Nell'ultima e più avventurosa fase della marcia, lungo il Mar Nero, da Trapezunte a Perinto, l'autorità di S. si accrebbe: se anche egli rifiuta il comando supremo, di fatto spesso lo detiene e sa portare senza scrupoli i suoi uomini al saccheggio e alla violenza, quando occorra: o anche forse quando non occorra. Ciò del resto non contrasta con la coscienza morale di un greco comune. Notevole che più di una volta tra le difficoltà dell'avanzata gli si affacci in mente di fondare una città nuova, di cui è sottinteso che egli debba essere lo ctiste. Nell'inverno 400-399 si arruola con i superstiti 6000 al servizio del principe spodestato Seute di Tracia e collabora attivamente al suo brigantaggio. La primavera dopo Tibrone, mandato in Asia da Sparta, arruola questo esercito al suo servizio; e da allora S. comincia quell'altro libero impegno a fianco dei generali spartani - poi Dercillida, poi il re Agesilao - che si continuerà dall'Asia, in una impresa che poteva sembrare panellenica, all'Europa, in operazioni militari nettamente antiateniesi. Accanto ad Agesilao, con cui strinse un'amicizia fondata su una reciproca comprensione e su una schietta ammirazione, partecipò nel 394 alla battaglia di Coronea contro Tebe alleata di Atene. L'opinione comune che allora si dovette determinare quella riprovazione pubblica di Atene, con la condanna all'esilio e la confisca dei beni, di cui Senofonte dà solo breve cenno (Anabasi, VII, 7, 57) e che le fonti più tarde considerano invece conseguenza della partecipazione all'impresa di Ciro, è stata confutata da U. Kahrstedt. La causa e la data della condanna sono ignote: solo si può dire che S. fu condannato prima della spedizione e per ragioni non connesse con quella. S. ne venne compensato con il dono da parte degli Spartani di una tenuta presso Scillunte, in cui egli andò a risiedere per gran parte del tempo, facendosi dopo Coronea saltuaria e dopo la pace di Antalcida (387) praticamente nulla la sua collaborazione militare con Agesilao. I suoi interessi materiali erano legati, come i suoi ideali politici, con Sparta. Pure in una tale situazione è ovvia la connessione logica con le tendenze aristocratiche, le quali d'abitudine in Grecia si orientavano verso Sparta. Ma forse giova di più notare da un lato come rimanesse sempre in S. un distacco, per la sua stessa forma mentis individualistica e teorica, nei confronti di Sparta, dall'altro come, seguendo il destino della politica spartana, S. dovesse perdere quell'orizzonte panellenico, che implicitamente aveva affermato con la sua partecipazione all'impresa dei Diecimila e che naturalmente era ben esplicito nella prima fase della politica di Agesilao. Consegue la stranezza che, mentre anche per la sua influenza, si rinsalda tra i Greci la convinzione che i Persiani siano militarmente incapaci di tenere testa ai Greci (Isocrate nel Panerigico considera appunto la spedizione dei Diecimila come la prova della facilità di una spedizione panellenica contro la Persia), gli sviluppi degli accenni di S. a questo tema, che culminano nelle frasi finali della Ciropedia, sono preclusi a lui: un problema politico generale della Grecia non è mai chiaro al suo spirito. L'esperienza spartana dà invece a lui una decisione nel problema monarchico, che non è propria forse di nessuno degli altri teorici greci contemporanei della politica, che pure si orientano verso la monarchia: tuttavia anche in questo tema non è inutile già fin d'ora ricordare, accanto al tono risoluto della Ciropedia, le maggiori esitazioni del Gerone, dove il problema si poneva senza i veli del romanzo storico.
A Scillunte S. stette con la moglie Filesia e i figli Grillo e Diodoro, ai quali però almeno parte dell'educazione fu data a Sparta, per consiglio di Agesilao. Celebre è la descrizione che S. ha dato di questo suo ozio sereno (Anab., V, 3, 8 segg.), e celebre merita effettivamente di essere perché ha già una spiccata intonazione ellenistica. L' attività letteraria poté, s' intende, essere una delle occupazioni prevalenti. Non sembra però, dal punto di vista dello sviluppo spirituale, che in questi anni vada collocato il riaffermarsi potente nella memoria di S. del maestro Socrate. La sconfitta spartana a Leuttra (371), per un significativo destino, fece perdere nello stesso tempo a S. il suo podere, rioccupato con Scillunte dagli Elei, e la sua fiducia nell'avvenire di Sparta, che già la costituzione della seconda lega navale aveva scosso (testimoni la Costituzione degli Spartani e forse il libro II delle Elleniche): accentuò per converso, come vedremo, il senso di una giustizia divina a tutto vantaggio del suo moralismo e quindi anche dell'influenza di Socrate, che forse solo ora si ripresenta in tutta la sua forza. Del resto Sparta si doveva avvicinare ad Atene; il che rendeva più facile anche una conciliazione pratica con la città natale, consacrata dal sangue di Grillo morto a Mantinea per Atene e per Sparta nel 362 e in qualche momento giuridicamente confermata con la cassazione del decreto di bando. La riconciliazione con Atene non è naturalmente dissociabile dal ritorno a Socrate.
Ad Atene S. non sembra andasse più, sebbene la sua famiglia vi sia poi tornata a risiedere: egli si trasferì prima a Lepreo, poi a Corinto. È però un messaggio spirituale ad Atene l'ultimo scritto, che è anche l'ultima testimonianza della sua vita, Le Entrate (Πόροι) del 354 circa, per cui S. giunge a riconoscere ad Atene il primato politico in Grecia. Segno pure - nella vecchiaia - di una notevole freschezza spirituale, che non doveva dare ulteriori frutti e coopera a farci sentire quanta ricchezza di problemi recettivamente, ma non del tutto passivamente accolti, aveva portato con sé nella sua vita S.
Se noi in questo schizzo della sua vita abbiamo potuto solo indicare rapidamente e incertamente la posizione delle sue opere è conseguenza diretta dell'oscurità che permane sulla loro cronologia. Analisi interna e criterî statistici sono stati adoperati senza ancora assoluta forza di convinzione. È molto probabile che la prima opera di S. sia l'Anabasi (Κύρου 'Ανάβασις), pubblicata sotto lo pseudonimo di Temistogene. Essa doveva probabilmente rettificare la narrazione non favorevole a S. data da Sofeneto in un racconto analogo (la ragione dello pseudonimo sta nell'intenzione di nascondere lo scopo personale). L'Anabasi è appunto un libro di memorie, in cui la parte dedicata più propriamente all'anabasi, cioè alla "salita", alla spedizione di Ciro il Giovane, è contenuta tutta nel primo libro, mentre gli altri sei sono di "catabasi", di ritorno verso il mare e descrivono la marcia dei Diecimila. Lo scritto è unitario dal punto dì vista del contenuto come dello stile, vivo, con ricchezza di ritratti - che per la prima volta forse entrano in un'opera storiografica - con uno sforzo di realizzare le situazioni materiali e morali dei partecipi senza desiderio di alcun riferimento a più vasti ordini di fatti: c'è già anche intera quell'"ingenuità" stilistica senofontea che vuol reagire ai gorgiani e stabilire una semplicità d'idee e di mezzi formali, ed è nella retorica la conferma della trasposizione di elementi culturali arcaicizzanti in un nuovo mondo. Sostenuta nei momenti migliori da una qualche epicità (la scena famosa dei Greci che raggiungono il mare) o idillicità (gli ozî di S. stesso in Scillunte) è poi nei momenti peggiori di un infantilismo accentuato: il che tutto, già dicemmo, è anticipazione prosastica dell'ellenismo. Nonostante questa unità - e per la confusione che già regnava tra gli antichi intorno alla persona di Temistogene - si sono fatte molte ipotesi sulla stesura dell'opera (di cui sarebbe preesistita una redazione in quattro libri): tutto questo è poco convincente. Anche sulla data s'inclina di regola a ritenere che la descrizione di Scillunte presupponga che S. avesse già perduto quel suo podere e perciò sia stata scritta dopo il 371; ma l'illazione, che ha il suo unico sostegno nella narrazione in tempo passato (frequente presso quegli scrittori antichi che si ponevano dal punto di vista del futuro lettore), non sembra giustificata, e invece la data più probabile è appunto quella degli anni di Scillunte.
Certo il grosso delle Elleniche presuppone già questo scritto: donde la giustificata illazione che S. sia diventato storico da memorialista, allargando e approfondendo l'esperienza che gli aveva suggerito la stesura dell'Anabasi. Nelle Elleniche sono facilmente distinguibili tre parti: la prima, costituita dai primi due libri, che, riconnettendosi alla storia di Tucidide, e cioè partendo dagli avvenimenti del 411 a. C. e giungendo fino alla restaurazione della democrazia in Atene, imita in qualche modo lo stile rigido di Tucidide; la seconda, costituita dai libri III-V,1, 35 all'incirca (fino alla pace di Antalcida), che ha un tono assai affine all'Anabasi per vivezza e personalità di stile e per il tono memorialistico; la terza degli ultimi tre libri fino alla battaglia di Mantinea del 362, che, stilisticamente in mezzo fra le altre due parti, se ne distingue però per un'elaborazione meno accurata e per restringersi da una storia generale della Grecia a una storia del Peloponneso con interpretazioni e lacune (per es., è dimenticata la fondazione di Messene e Megalopoli) suggerite da una malferma tenerezza per Sparta. Una teoria classica, che risale al Niebuhr, vede nei primi due libri la parte più antica dell'opera, a cui più tardi sarebbero stati aggiunti i libri successivi: fa partire dunque S. come storico da Tucidide. Ma in realtà l'influsso di Tucidide è superficiale, e sarebbe erroneo derivare la personalità storiografica di S. da quella del grande predecessore: al tentativo organico di comprensione delle varie forze agenti nella storia greca si sostituisce una cronaca partigiana, seppure mai volutamente malfida e sostenuta dalle buone qualità del tecnico militare. Il complesso degli indizî sta invece per la tesi che i libri III-V,1, quasi una continuazione dell'Anabasi siano stati scritti immediatamente dopo di essa, forse dopo il 380 (come sembra provare il passo III, 5, 25); più tardi S. abbia aggiunto i primi due libri, e tra il 358 e il 355 (a cui ci riporta sicuramente il passo VI, 4, 37) abbia concluso l'opera con la terza parte, ritoccando naturalmente il resto. Di tale elaborazione sembra conferma il contenuto stesso dell'opera, la quale nei libri III-IV è sostenuta da una fiducia senza scosse in Sparta, mentre da un lato alla fine del libro II ha implicite parole di ammirazione per la democrazia ateniese e dall'altra nel libro V spiega la decadenza di Sparta succeduta alla sconfitta di Leuttra con il peccato, religiosamente parlando, di aver preso a tradimento la rocca di Tebe. Nelle parti che sembrano più tarde delle Elleniche è dunque traccia di quell'avvicinamento ad Atene, che è conseguenza della trasformata condizione spirituale e materiale di S.
A ciò possiamo collegare la Costituzione di Sparta (Λακεδαιμονίων πολιτεία), e in senso più lato gli scritti socratici: l'Apologia di Socrate, il Simposio e i Memorabili di Socrate ('Απομνευμονεύματα Σωκράτους). La Costituzione di Sparta è un'esaltazione della costituzione di Licurgo, ma nel penultimo capitolo afferma che gli Spartani non le obbediscono più, e perciò i Greci si stanno stringendo contro di loro in una nuova lega: evidente allusione al ricostituirsi della lega navale ateniese nel 378. Dunque questo capitolo risale al 378 circa, dopo che già era avvenuto lo scandalo dell'occupazione della rocca di Tebe. Ma molti studiosi moderni inclinano a separare questo capitolo dal resto, supponendo che a un'originaria incondizionata apologia di Sparta S. avesse aggiunto più tardi, ammaestrato dall'esperienza, una riserva. L'ipotesi non è giustificata, e falsa il carattere dell'opera che è di transizione: legata all'ammirazione per la costituzione di Sparta, ma con la chiara consapevolezza della crisi dei suoi valori. Probabilmente da questa crisi escono gli approfondimenti teorici, per cui S., avvicinandosi ad Atene, si riavvicina anche soprattutto al maestro ateniese: Socrate. In tal modo l'orizzonte di S. si allargava, egli veniva a contatto con i maggiori problemi del pensiero contemporaneo, si trovava impegnato in questioni comuni con gli altri discepoli di Socrate - Platone e i Cinici in ispecie - e con Isocrate e la sua scuola. In S., più scarso di originalità, la devozione al maestro, la rivendicazione della sua memoria dovevano prendere una posizione prevalente: l'Apologia di Socrate è appunto una narrazione (non un'orazione come quella di Platone) sull'ultima fase della vita di Socrate e ne è stata spesso infirmata l'autenticità, ma ormai si può ritenere a torto; il Simposio dà una discussione intorno all'amore, di cui è protagonista Socrate, accompagnata dalla descrizione generale di un banchetto; i Memorabili infine raccolgono in quattro libri un certo numero di ricordi su Socrate e soprattutto suoi discorsi di carattere morale e politico. Che i due primi scritti siano paralleli a quelli di Platone sul medesimo tema è ovvio, e ormai generalmente ammesso è che essi sono posteriori ai platonici, il che però data l'incertezza della cronologia platonica, non è di grande aiuto per la collocazione cronologica. Abbastanza sicura è invero la cronologia dei Memorabili, perché essi, almeno nel capitolo III, 5, presuppongono l'egemonia tebana e più precisamente la prima fase di essa, intorno al 369-66 a. C. É dunque per lo meno legittimo supporre che l'attività "socratica" di S. sì ricolleghi tutta a questi anni.
Non è possibile qui riprendere la celebre questione se e in quanto S. meriti la preferenza su Platone per la ricostruzione del pensiero socratico. Ovvio è ormai che S. ha un suo pensiero come Platone, sebbene di profondità incomparabilmente minore, e quindi è ridicolo fidarsi di lui come di un relatore obiettivo del pensiero del maestro. Resta nel fondo viva quell'esigenza già affermata da Schleiermacher che una ricostruzione dell'insegnamento socratico deve tener conto di quel che gli attribuisce S., ma in modo da spiegare che da Socrate deriva Platone. In linea generale è poi anche chiaro che S. aveva solo interessi etici e religiosi e quindi non può aver accolto ed elaborato che idee di Socrate su questi temi: infatti la teoria che si svolge soprattutto nei Memorabili è fondata sulla precisazione del contenuto di alcune virtù, subordinate direttamente o indirettamente al dominio di sé (ἐγκράτεια), mentre tutta la speculazione sul concetto, che gli altri socratici hanno derivato dall'insegnamento del maestro, non ha quasi eco. È stato perciò anche asserito (K. Joël) che in realtà S. ripete l'interpretazione di Socrate propria dei Cinici; ma si tratta solo di una affinità con l'identico problema etico dei Cinici, senza contare che in questi la posizione teorica è assai più profonda e il problema del concetto ben determinato. Dei Memorabili è stata spesso posta in dubbio l'unità; ma analisi più accurate hanno invece dimostrato che essi sono mossi da un pensiero unitario assai affine a quello dell'Apologia. Come questa difendendo Socrate dall'accusa di avere parlato superbamente in sua difesa, vuole dimostrare che tale sua apparente superbia era conseguenza dell'aver deciso di morire, perché così gli ordinava il Divino, e quindi era testimonianza della sua stessa religiosità, i Memorabili tendono da un lato a liberare Socrate dall'accusa di aver voluto introdurre nuove divinità in Atene, dall'altro a dimostrare che egli non potesse corrompere la gioventù: e questa seconda accusa è confutata non solo negativamente, ma positivamente, esemplificando l'insegnamento socratico sui varî temi della vita morale (cioè, per dare il termine greco, della ἀρετή) e dimostrandone la profonda pietà. Socrate insomma vale per S. come il modello dell'uomo che deriva dalla sua religiosità tutte le qualità per praticare la virtù e insegnarla. Il valore individualistico di quell'ideale del saggio che qui si delinea è apparentemente attenuato, di fatto rafforzato da un altro scritto di cui è protagonista Socrate, l'Economico (Οἰκονομικός), stilisticamente tra i più perfetti di S., in cui il problema dell'amministrazione della casa si pone già con implicita considerazione della famiglia come organismo etico autonomo, donde anche il valore spirituale che vi ha la donna, in confronto alla concezione greca comune. Dal contatto con i problemi dei Socratici S. era anche riportato a una rimeditazione del problema politico, che egli in un momento più antico aveva creduto soddisfatto dall'accettazione della costituzione licurghea. In un dialogo, il Gerone (Τέρων), scritto, a quanto sembra, intorno al 366 per Dionisio il giovane di Siracusa, S. si sforzava di rendersi conto del valore della tirannide come forma non di oppressione, ma di governo illuminato, e in ciò faceva concorrenza ai platonici e agli isocratici, che sul terreno teorico - come sul pratico di acquistare influsso e favore presso i monarchici e tiranni del tempo - lavoravano nella medesima direzione. Ma l'elaborazione più compiuta, nello stile di un ben misurato atticismo, è la Ciropedia (Κυροπαιδία), in otto libri, la cui conclusione deve essere datata intorno al 360: e poiché questa conclusione non può essere staccata dal resto (come dimostra, se non altro, l'analogia composizionale con la Costituzione di Sparta), tutta l'opera deve risalire a quegli anni. In forma di romanzo storico S. delinea uno stato ideale: gli serve perciò il regno del primo Ciro, già idealizzato nella tradizione, sopra tutto da Ctesia. Impossibile ora dire quanto S. stesso credeva che ci fosse di autentico o di falso nei particolari che egli attribuisce a Ciro e al suo tempo: per taluni particolari dubitano anche i moderni. Nel complesso S. stesso sapeva di avere creato una costruzione ideale, e lo fa capire appunto nella conclusione in cui separa i suoi Persiani ideali dai Persiani imbelli del suo tempo. Ciro è un Socrate trasferito sul trono: la monarchia illuminata è ora consapevolmente illuminata dalla filosofia. Sullo sfondo stanno gli ordinamenti politici, che S. trasceglie ad arbitrio da quegli che gli paiono migliori del suo tempo: come l'organizzazione dei pari che sono intorno al re, chiara imitazione dei pari (o "simili") di Sparta, o come gli ordinamenti militari di tipo oplitico ateniese. Ciò che però è veramente caratteristico è che per la costruzione di uno stato ideale S. non scelga una città, ma una monarchia universale, come la persiana: egli nello stesso tempo dunque precede lo svolgimento dell'individualismo nel cosmopolitismo che sarà del pensiero ellenistico e la costituzione dei grandi imperi ellenistici con i loro ideali del re-filosofo. Per il momento l'opera, destinata a così grande popolarità, era fuori tempo, e perciò quando, nel 355-54, S. si riavvicinò ad Atene e fu desideroso di cooperare alla restaurazione del suo prestigio scosso dalla guerra sociale e in genere alla pace della Grecia, dovette prendere tutt'altra via: il che conferma come S. stesso non fosse ben consapevole della novità instaurata con la Ciropedia. La pubblicistica contemporanea di Isocrate incitava Atene a mettersi alla testa di un'organizzazione collettiva della pace. S., che risente senza dubbio l'influsso del Della pace (Περὶ εἰρήνης) di Isocrate appena uscito, cerca i mezzi con cui Atene possa, continuando a essere prospera, abbandonare quella politica di sopraffazione, da cui finora aveva derivato la sua prosperità: propone dunque nelle Entrate (Πόροι, vectigalia) principalmente un piano di riorganizzazione dello sfruttamento delle miniere ateniesi d'argento del Laurio, che aumenti fortemente i redditi della città; piano senza esperienza economica, perché presuppone la possibilità di un incremento indefinito della produzione in miniere già votate alla decadenza. Quando gli Ateniesi avessero rinunciato all'impero, avrebbero potuto mettersi alla testa di una "pace comune" e fare intanto cessare la guerra sacra allora in corso, che doveva particolarmente turbare l'animo pio di S.
Al di fuori di questi scritti politici stanno ancora alcuni opuscoli. Innanzi tutto l'Agesilao, una biografia-apologia dell'amico re di Sparta, scritto poco dopo la sua morte, cioè circa il 360 a. C. Gareggia con gli scritti encomiastici di Isocrate (in specie l'Euagora) e utilizza il materiale storico delle Elleniche che si venivano intanto compiendo: il criterio di giudizio è dato naturalmente dal carattere morale di Agesilao. Tra il tecnico-militare e il pedagogico stanno i due scritti sulla cavalleria, l'uno destinato ai comandanti, l'Ipparchico (‛Ιππαρχικός) e l'altro al comune cavaliere, Intorno l'ippica (περὶ ἱππικῆς) composti certo poco prima della battaglia di Mantinea. S. segue l'indirizzo militare del tempo, che tendeva a un rafforzamento delle cavallerie di contro alle fanterie, ma ci mette il suo orgoglio per l'arma aristocratica. Lo stesso spirito aristocratico è nel Cinegetico (Κυνηγετικός), un elogio della caccia. Ma più importa che nell'Ipparchico l'ippica e nel Cinegetico la caccia siano considerate ammaestramento non solo di virtù, ma di pietà verso gli dei. I tre scritti si possono perciò ritenere specificazione degli ideali etici e religiosi di S. in quei campi che erano più alieni dal pensiero socratico. I dubbî sull'autenticità del Cinegetico sono infondati, sebbene non si sia risolto ancora il problema della doppia redazione del suo proemio.
La fortuna di S. ha la sua chiara origine in tutti quei germi di civiltà ellenistica, e quindi ellenistico-romana, che l'opera sua conteneva: e anche, naturalmente, nell'accessibilità che la chiarezza del suo stile e la superficialità del suo pensiero permetteva. Nell'età ellenistica, a cominciare dagli stoici, S. è soprattutto ammirato come filosofo (più tardi come di filosofo scriverà la sua vita Diogene Laerzio): Cicerone ne traduce l'Economico. Dal sec. I l'atticismo lo fa ammirare anche come stilista, sebbene l'atticismo di S. non fosse puro, e talvolta anzi - soprattutto in certe parti delle sue opere anche in ciò inuguali - egli già preludesse alla κοινή linguistica ellenistica. E perciò risorge anche la sua fama come storico (tipico imitatore Arriano), che poi perdurerà in età bizantina, nell'attenuarsi di quella come filosofo. Portato in Occidente dall'Aurispa e presto tradotto (per es., in latino la Ciropedia da Poggio Bracciolini e dal latino di Poggio in italiano dal Boiardo, in latino pure dal Bruni le Elleniche), l'umanesimo ne apprezzerà di nuovo prevalentemente gli aspetti filosofici; la fine del Seicento e il Settecento nella sua chiarezza spirituale e nella sua religiosità moraleggiante troveranno valori capaci di soddisfare - ora come storico o come filosofo - uomini così diversi quali Bossuet o Shaftesbury e Winckelmann o l'ingenuamente moralista storico Rollin.
Bibl.: Ed. principe: Giuntina, Firenze 1516 (poi l'Aldina, Venezia 1525); complessiva più recente edizione di E. C. Marchant, Oxford 1900 segg. Inoltre le edizioni delle Elleniche di O. Keller, Lipsia 1890, e C. Hude, ivi 1930; dell'Anabasi, della Ciropedia e dei Memorabili di C. Hude, Lipsia 1931-34; degli opuscoli minori di G. Pierleoni, Roma 1934. Ed. commentata italiana delle Elleniche di V. Puntoni, Torino, 2ª ed. 1922; ed. e trad. francese dell'Anabasi di P. Masqueray, Parigi 1930 segg. Lessico di F. W. Sturz, Lipsia 1801-1804; cfr. inoltre il Lexilogus di G. A. Sauppe, Lipsia 1868.
Per la bibliografia moderna, v. i regolari rendiconti nei Jahresberichte f. die klass. Altertumswiss. del Bursian, inoltre le storie della letteratura (tra cui Christ-Schmidt) e della filosofia greca (tra cui Zeller-Nestle e Ueberweg). Inoltre tutte le opere su Socrate (v.). Le migliori opere generali su S. sono: K. Joël, Der echte und der xenophontische Sokrates, I-II, 2ª ed., Berlino 1893-1901, nonostante la tesi sia errata, e K. Münscher, Xenophon in der griechisch-römischen Literatur, Lipsia 1920, se anche diretto soprattutto a comprendere la fortuna di S. - Inoltre E. Scharr, Xenophons Staats- und Gesellschaftsideal und seine Zeit, Halle 1919. Tra le opere particolari più recenti, si cfr. Th. Marschall, Untersuch. zur Chronologie d. Werke Xenophons, diss., Münster 1928; A. Opitz, Quaestiones Xenophonteae de Hellenicorum atque Agesilai necessitudine, Breslavia 1910; G. De Sanctis, La genesi delle Elleniche di S., in Ann. Scuola normale Pisa, s. 1ª, II (1932), p. 1 segg.; G. Colin, X. historien d'après le livre II des Héll., Parigi 1933 (Annales de l'Est, II); A. Körte, Die Tendenz von Xenophons Anabasis, in Neue Jahrbücher, 1922, p. 15 segg.; J. Mesk, Die Tendenz der xenophontischen Anabasis, in Wiener Studien, XLIII (1925), p. 136 segg.; A. Boucher, L'Anabase de Xénophon. Retraite des Dix-mille. Avec un comment. hist. et mil., Parigi 1913; J. Morr, Xenophon und der Gedanke eines allgriechischen Eroberungszuges gegen Persien, in Wiener Studien, XLV (1927), p. 186 segg.; L. Castiglioni, La Ciropedia, in Rend. Accad. Lincei, 1922, p. 34 segg.; id., Intorno all'Economico, in Riv. filol. class., XLVIII (1920), pp. 321 segg., 475 segg.; E. Edelstein, Xenophontisches und platonisches Bild des Sokrates, Berlino 1935 (sui Memorabili e l'Apologia); H. v. Arnim, X. Memorablien und Apologie des S., in Danske Videnskabernes Selskab, VIII, i (1923); A. Körte, Aufbau und Ziel von X. Symposion, Lipsia 1927; F. Ollier, La république des Lacédémoniens (con testo), Lione 1934 (ma cfr. A. Momigliano, Per l'unità logica della Λακεδαιμονίων πολιτεία di S., in Riv. filol. class., 1936); id., Le Mirage Spartiate, Parigi 1933, p. 377 segg.; J. H. Thiel, Πόροι, diss., Amsterdam 1922 (con testo); E. Ekman, Zu Xenophons Hipparchikos, diss., Upsala 1933; R. Walzer, Sulla religione di S., in Annali Scuola normale Pisa, n. s., V (1936); A. Momigliano, Per la storia della pubblicistica sulla κοινὴ εἰρήνη, II, ivi (sulle Entrate). Per la critica del testo basti rimandare a A. W. Persson, Zur Textgeschichte X., Lund 1915; L. Castiglioni, Studi intorno alla storia del testo dell'Anabasi, in Mem. Ist. lombardo, XXIV (1931), p. 109 segg.; G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, p. 302 segg. - Per il processo di S., U. Xahrstedt, Staatsgebiet und Staatsangehörige von Athen, Gottinga 1934, pp. 99-100.