FAUSTO (Fausto da Longiano), Sebastiano
Nacque forse nel 1502 (meno probabile la data del 1512 fornita dal Turchi, p. 32) a Longiano in Romagna (prov. di Forlì); nulla sappiamo della sua giovinezza e degli studi, che dovettero comunque includere una istruzione classica, vista l'opera di volgarizzatore svolta nella maturità.
Un fratello del F., Tullio, frate col nome di Domenico, nel 1531 era maestro stipendiato dal Comune. Fu autore di una Introduttione alla lingua volgare (s. n. t. ma Bologna 1529-33; cfr. Belloni-Trovato, pp. 285-288), grammatichetta di scarso valore storico-linguistico vicina per le fonti al più noto commento petrarchesco del F., e di una Citatione de' luochi onde tolsero le materie il conte Matteo Maria Boiardo e m. Ludovico Ariosto, che figura tra gli apparati della rara edizione Bindoni e Pasini 1542 dell'Orlando furioso, interessante per il tentativo di mettere in parallelo l'epica italiana e greco-latina alla ricerca di situazioni fisse tipiche del genere. Dalla lettera al F., premessa da M. Pasini alla Citatione, si ricava che Tullio morì tra il 1540 e il 1542. Le sue opere volgari e latine in possesso dell'editore furono allora spedite al fratello con l'impegno di essere rese in vista di una stampa ' ; ma gli scritti dovettero rimanere presso il F. che, come risulta da vari indizi, li utilizzò per le proprie opere.
La prima notizia sul F. risale al 1526, allorché figura come procuratore in un documento privato rogato nel paese natale. Nel 1531 era al servizio del feudatario di Longiano G. Rangoni, che, dopo la fine della milizia per il re di Francia, stava maturando a Venezia il passaggio, compiuto nei primi mesi del '32, al partito imperiale; per lui il F. si sarà occupato dell'amministrazione delle proprietà dei Rangoni sparse tra il Bolognese e il Modenese.
L'approdo a Venezia offrì tuttavia l'opportunità di inserirsi nella società letteraria della città, dove il F. esordì in maniera autorevole con la pubblicazione per Bindoni e Pasini nel 1532 di un commento al Canzoniere di Petrarca, sette anni dopo la ristampa, sempre a Venezia, del più fortunato dei commentatori cinquecenteschi. il lucchese A. Vellutello.
Il rilievo conferito all'esegesi, alle biografie del Petrarca e di Laura, alle notizie storiche e alle fonti classiche fanno del F. un attardato rispetto alle istanze inaugurate nella cultura veneziana dall'edizione bembina del Canzoniere (Aldo 1501), che mirava a restaurare le Rime nella purezza testuale eliminando i pesanti apparati eruditi umanistici. Per il F. invece, come già per il Vellutellol dato che, salvo rare eccezioni, non esistono gruppi di rime manifestamente connesse tra loro dal contenuto, è lecito, in mancanza di un autografo che fornisca la successione ne varietur, scorporare per ragioni metriche i sonetti dal resto delle rime, rubricate sotto l'etichetta generica di canzoni ed edite separatamente alla fine, prima dei Trionfi. Nei limiti di tale impostazione, l'opera resta apprezzabile per il vasto ed aggiornato materiale letterario recensito, testimonianza di un'attenzione vorace, e perciò spesso poco critica e venata da ostentazione e millanteria. Sono sue fonti l'edizione dell'Amleto leoccacciano dell'imolese G. Claricio (1520), la giuntina di Rime antiche del 1527, che rimetteva in circolazione duecentisti sino ad allora ignoti, il Petrarca latino attinto in tutta la sua estensione, Dante (Commedia, Vita nova, De vulgari eloquentia, commento del Landino). Il corredo editoriale, comprendente, oltre le vite di Laura e del poeta, un rimario, un elenco di epiteti ordinati sotto il lemma cui si riferiscono, un'appendice di sette disperse, contribuisce a configurare il volume come un prodotto destinato a un largo pubblico di non specialisti piuttosto che ai cenacoli letterari.
A Venezia il F. strinse amicizia con l'Aretino: il carteggio tra i due comprende cinque sue lunghe lettere (aprile 1532 novembre 1534) e tredici dell'Aretino (17 dic. 1537, novembre 1545-maggio 1548), oltre ad una lusinghiera menzione nella celebre lettera a G. G. Lionardi del 6 dic. 1537. In questo periodo il F. dovette inoltre conoscere G. Camillo, detto Delminio (cfr. lett. all'Aretino del 2 giugno 1534), di cui vide il Theatro, eretto a Venezia in casa del canonico Stefano Sauli. Dalle epistole all'Aretino emerge il profilo di un personaggio inquieto e ghiribizzoso, pieno di progetti ma privo di una stabile collocazione. A Bologna alla fine del 1532, nell'aprile 1533 si trovava ad Ariano, nel Ferrarese, impegnato in trattative con i membri di un'"Accademia della lingua volgare che si vuole creare in città", per la quale avrebbe dovuto tenere quotidianamente una lezione su Petrarca e una di grammatica italiana. Nel 1543 aveva composto un'opera "la quale ci dà a conoscere la pecoragine di quelli che indegnamente si usurpano questo venerando nome di poeta"; progettava un Dialogo de la lingua italiana, articolato in più parti, sull'origine della lingua, grammatica, metrica, ecc., e un Tempio de la verità, in 30 libri - "una fantastica faccenda" - che doveva essere una sorta di trattazione compendiosa destinata a confutare gli errori e le falsità di tutte le discipline, filosofie e religioni.
Queste ed altre opere annunciate come compiute o in via di composizione delle quali non resta traccia - il F. avrebbe concepito tra l'altro un dizionario, dei "libri de la lingua italiana", un trattato sul cavaliere e uno "sulla militia Romana" - fanno pensare, piuttosto che all'oltraggio del tempo, ad un atteggiamento esuberante e millantatore; tuttavia l'affinità di contenuti con le opere realizzate testimonia l'aggirarsi del F. intorno ad alcuni temi che in maniera non del tutto disorganica polarizzarono la sua attenzione.
Per gli anni successivi è difficile stabilire una cronologia sicura degli spostamenti del F., che frequentò diverse corti minori della Padania e dell'Italia centrale. Nel 1541 e nel 1548 si trovava presso i marchesi Pallavicino a Cortemaggiore, nel Piacentino. Tra le due date aveva trovato ospitalità presso il comandante delle truppe imperiali Valerio Orsini di Pitigliano e presso Giulia Trivulzio, vedova di Gian Giacomo, marchesa di Vigevano. Nel 1550 era alla corte di Iacopo (VI) Appiani, signore di Piombino, che, dopo aver perduto lo Stato a opera di Cosimo de' Medici, nel 1548 si era ritirato a Genova. Nel 1551 ottenne per tre anni, con lo stipendio di 150 ducati l'anno, l'insegnamento cittadino di lettere classiche ad Udine, incarico modesto, inferiore a una cattedra universitaria, nonostante la buona tradizione della scuola. Probabilmente il F. non portò neanche a termine la condotta, abbandonando le lettere per il mestiere delle armi. Militò verosimilmente sotto l'Appiani che, riavvicinatosi ai Medici, fu nominato all'inizio del 1552 capitano delle galere toscane e rimase in servizio per tre anni. Al suo seguito il F. dovette partecipare nel 1553 alla liberazione di Bastia in Corsica, assediata dai Francesi, e sarebbe stato inviato a Genova per annunciare il successo dell'impresa.
Licenziatosi dall'Appiani, nel 1556 era a Vicenza, accolto nell'Aristocratica Accademia dei Costanti sorta in quell'anno con un programma di rigido aristocraticismo (vi erano accolti solo membri di nascita nobile) alternativo a quello delll'Accademia Olimpica, in cui confluirà dopo un'esistenza effimera nel 1568. Qui conobbe A. Palladio e concepì l'edizione volgare delle Orationi di Cicerone (Venezia 1556), eseguita da un collegio di traduttori sotto la sua supervisione, e il Dialogo del modo de lo tradurre (ibid. 1556), dedicato agli accademici. Al 1557 risale un episodio registrato nella Historia de' suoi tempi di N. Conti (II, Venetia 1589, pp. 269 s.): il F. avrebbe persuaso il cardinale Cristoforo Madruzzo principe vescovo di Trento a prendere Ferrara difesa dagli eserciti del duca di Guisa e di P. Strozzi, con uno stratagemma "ridicolo e puerile" che il Conti giudica indegno di essere riferito, delineando un profilo del F. ("huomo più tosto versato nei suoi studi d'humanità... che dell'armi mai da lui in alcun tempo maneggiate") probabilmente veritiero.
Nel 1560 Emanuele Filiberto di Savoia lo chiamò a Torino come storico di corte deludendo le'aspettative di G. Muzio. Ma alla corte sabauda il F. non dovette trattenersi a lungo: ritornò a Padova, dove aveva soggiornato in precedenza, e vi morì forse nel 1565.
La personalità del F. presenta i tratti tipici del poligrafo: nella sua produzione si intrecciano trattati civili, scritti eruditi e grammaticali, traduzioni di classici e di moderni, opere storiche. Una possibile chiave di lettura unitaria ruota intorno ai due registri di una cultura di ascendenza umanistica acquisita con scarsa coscienza critica e di una ideologia aristocratica assimilata nelle piccole corti provinciali che il F. frequentò parassitariamente per buona parte della sua esistenza. Velleità sistematiche e limiti culturali che contraddistinguono i trattati civili del F. emergono in maniera esemplare nel trattato sul Gentil'huomo (Vinegia, L.F. Bindoni e M. Pasini, 1542), in cui trova posto una discussione teorica sulle virtù che compongono la nobiltà, mentre al momento di affrontare la materia più specifica del costume aristocratico l'opera si interrompe: una terza e una quarta parte in cui il F. si proponeva di discorrere "più minutamente le parti del gentil'huomo e de la gentildonna" non furono scritte.
Una visione altrettanto carente denuncia il trattato De lo istituire il figlio d'un principe de li X insino agli anni de la discretione (Venezia 1542). Il riecheggiamento esteriore dei principi della pedagogia umanistica (l'Institutio principis christiani di Erasmo, citata in chiusura), come il valore dell'esempio, applicato indistintamente alla storia, alle lettere e alla religione, seguono norme più empiriche, che si risolvono in sostanza nella raccomandazione a non effeminare l'animo del giovane principe col ballo, il gioco, le vesti ricercate e a trattare con fermezza ed equità i servitori. A costoro viene anzi riservata una parte cospicua dell'operetta che, a questo punto, da scritto di pedagogia si trasforma in trattato di economica. Più schiettamente erudita l'impostazione del trattato Delle nozze (Venetia, P. Pietrasanta, 1554), comPOsto per il matrimonio di Iacopo Appiani con Virginia Fieschi, che consiste in una spigolatura dei classici suddivisa in brevi capitoli, quesiti e precetti: il tutto su un piano modestamente aneddotico senza che la discussione si elevi a vaglio critico della documentazione.
Di eguale tenore una curiosa operetta De gl'auguri e de le superstitioni de gl'antichi (Venezia, C. Mavò, 1542; la prima parte fu ripubblicata da J. Jannson, Amsterdam 1641) sulle arti divinatorie, che si presenta come indagine erudita ma sfocia in una campionatura di curiosità priva di ogni rigore: alla suddivisione delle varie discipline oracolari secondo gli antichi e all'esame degli auguri seguono una sezione sull'interpretazione degli starnuti e una sui moti involontari del corpo, in fine è stampata una serie di tavole da cui trarre gli auspici prima di compiere qualche operazione (si va dal concludere affari al giocare a scacchi, al castrare cavalli), sicché l'opera può avere qualche interesse solo sul piano folklorico (il F. ricorda tra l'altro consuetudini in uso nel suo paese).
Più cospicuo il trattato sul Duello regolato a le leggi de l'honore (Venezia, Valgrisi, 1552), cominciato durante il servizio presso G. Rangoni e terminato più di un decennio dopo alla corte dell'Appiani, cui è dedicato. L'impreparazione sul piano tecnico-giuridico non consente al F. di affrontare il problema centrale della materia e cioè la legittimità del duello in rapporto alle leggi civili. Dopo aver esposto, come nel Gentil'huomo, concetti filosofici universali, il F. accantona l'esame del diritto, da cui non può che derivare la condanna del duello come "di cosa contro la publica utilità", e invoca il principio della consuetudine per legittimarlo nei termini di una "religione d'honore" proclamata come istanza etica superiore. In questa prospettiva il duello cessa di essere un istituto giuridico a cui ricorrere per difendersi da un'accusa grave e infamante (da assimilare per i giuristi all'ordalia o giudizio divino) e diviene lo strumento a disposizione del "cavaliere honorato" per tutelare la propria immagine pubblica e il prestigio sociale. Il primato riconosciuto alle virtù individuali del coraggio e del valore militare su valori come la nobiltà di schiatta e le lettere fa sì per il F. che lo sfidato non possa ricusare la provocazione di uno sfidante inferiore per grado o rango: a chiunque pratichi la nobile arte della guerra non per bassi fini di lucro è lecito affrontare il giudizio delle armi per mostrare il proprio valore.
Questo radicalismo cavalleresco rappresenta il contributo del F. al dibattito sul duello che si intensificava in Italia in una fase di assestamento dell'equilibrio tra potenze straniere, che tendevano a comprimere le autonomie delle piccole corti locali a favore di uno Stato unitario a struttura verticistica. In questa prospettiva andava scoraggiata la pratica autonornistica del duello come retaggio dell'ideologia cavalleresca che aveva permeato la cultura cortigiana preesistente e che ora si coloriva di sfumature anarchiche ed eversive. Tra i vari aspetti toccati, particolare rilievo rivestono nel Duello i problemi relativi alle armi (se debbano essere solo quelle da guerra, se possano essere modificate, quali caratteristiche debbano avere le offensive e le difensive, ecc). È evidente che la materia si prestava ad infinite obiezioni che non mancarono anche per il trattato del F.: nel 1557 uscì la Giustificatione intorno alla querella col signor don Roderigo de Benavides di R. de Merode signore di Frentzen, che chiamava in causa alcune opinioni del F. contestandole. Questi replicò nella seconda edizione del Duello (Venezia, Borgominieri, 1559; un'altra l'anno seguente), allegandovi un Discorso quali siano arme da cavaliere, in cui si rivolgeva a G. Muzio, ritenuto l'ispiratore dello scritto del Merode; l'anno dopo uscì la risposta del letterato istriano nella Faustina, caratterizzata da toni virulenti dovuti al risentimento personale. La replica del F. nella Seconda difesa in risposta a la Faustina del Mutio (Padova, G. Percacino, 1560) non modificò i termini della questione.
Il settore più ricco dell'attività del F. riguarda le traduzioni. Tra il 1542 e il 1562 uscirono per varie tipografie veneziane almeno tredici opere nelle sue versioni: Dioscoride fatto di greco italiano (1542); Aristotele, Meteorologia (1542); Platina, Vita e fatti di tutti i sommi pontefici (1543); F. Simonetta, La Sfortiade (1543); Cicerone, Epistole dette le famigliari e le Tusculane (1544); E. S. Piccolomini, Descrittione de l'Asia et Europa (1544) e Historie, costumi et successi della nobilissima Provincia dei Boemi (1545); Erasmo da Rotterdam, Apoftemmi (1546); Filone Alessandrino, Vita di Mosè (1548); G. Guevara, Vita, gesti, costumi, discorsi et lettere di M. Aurelio imperatore, dallo spagnolo (1551); P. Gerardo, Vita et gesti d'Ezzelino Terzo da Romano (1552); Cicerone, Orationi (1556, del F. solo le Verrine, le note introduttive e le appendici filologiche); Niceta Acominate, Istorie (1562, la versione del F. fu rimaneggiata dall'editore F. Sansovino; lo stesso anno uscì un'edizione Valgrisi per la traduzione di G. Orologi posteriore a quella del Fausto). La Vita di Ezzelino da Romano (che sulla base di un passo della Dichiaratione dei luochi... andrebbe assegnata a Domenico Tullio, cfr. Belloni-Trovato, p. 258), attribuita nella stampa ad un Pietro Gerardo padovano, e stata ritenuta a lungo una contraffazione basata sulla Cronica duecentesca di Rolandino, ma secondo l'editore di quest'ultima in Rer. Ital. Script., VIII, 1, A. Bonardi, la Vita non dipende che in parte dalla Cronica e "contiene alcune notizie originali le quali hanno carattere di autenticità" (p. XVII), provenienti da una fonte a noi ignota.
Fra le traduzioni di Cicerone, le Tusculane, uscite insieme con le Epistole per Valgrisi, a quanto si legge nella postilla ai lettori, sarebbero opera di un anonimo fiorentino e dal F. solo rimaneggiate per la stampa. Le Epistole, dedicate al nipote di Paolo III Ranuccio Farnese, non ebbero grande fortuna (una sola ristampa nel 1555) a causa della concorrenza con la traduzione uscita nei primi mesi del 1545 dalla tipografia di Aldo (ristampata lo stesso anno e più volte nei successivi; dal 1560 con modifiche sotto il nome di Aldo il Giovane, ma da attribuire a Guido Logli da Reggio).
Il confronto tra le due versioni consente di cogliere fl modo di procedere del F., da lui esposto ripetutamente nelle dediche delle traduzioni e infine illustrato nel Dialogo del modo de lo tradurre d'una in altra lingua secondo le regole mostrate da Cicerone. Nel Dialogo, in cui confluisce l'introduzione degli Apoftemmi di Erasmo anteriore di un decennio, il F., con una esposizione articolata che comprende l'analisi di passi del De oratore ed esempi dal latino, dal greco e dall'ebraico, teorizza una versione che rispecchi il senso dell'originale e ne renda al contempo le caratteristiche formali (ritmo, elocuzione, figure retoriche) fino a riprodurre l'ordine delle parole. La versione di Orazio, Ars poetica, 141-42 del primo verso dell'Odissea "dic mihi Musa virum..." viene già considerata un'alterazione del dettato per esigenze metriche rispetto al più aderente "virum. mihi dic Musa...". È chiaro che il criterio, nonostante gli sforzi argomentativi del F., si dimostra di difficile applicazione e gli esempi forniti finiscono spesso per smentire l'assunto generale. Il portato centrale dello sforzo teorico del F., la fedeltà al testo fino nelle sue cellule estreme, testimonia in sostanza i limiti di una riflessione linguistica che ha rescisso i suoi legami con il metodo umanistico e si sforza di elaborare nuovi principi e metodologie senza essere sostenute da una solida coscienza filologica, influenzata piuttosto da un'esperienza plurilingue e contaminatoria che trovava adeguato stimolo e sostegno nell'industria tipografica veneziana.
Infine, due epigrammi del F. ospita il Tempio della divina ... Giovanna d'Aragona…, a cura di G. Ruscelli (Venezia 1556, pp. 11 s. della sezione latina). Le epistole all'Aretino sono raccolte in S. Fausto, Lettere a messer P. Aretino, Rimini 1870. Il Dialogo del modo de lo tradurre è pubblicato in edizione critica commentata da B. Gunthmüller, in Quaderni veneti, n. 12, 1990, pp. 9-152.
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