Indirizzi e metodologie che si richiamano al composito universo della psicologia analitica elaborata da C.G. Jung. Secondo A. Samuels il neojunghismo si divide in tre scuole (la scuola classica, la scuola evolutiva e la scuola archetipica) e utilizza due metodologie terapeutiche: la prima che rinvia a un’attenzione alle dinamiche interazionali che si svolgono all’interno del setting analitico, la seconda a un interesse nei confronti del simbolismo del sé e dell’emergere di immagini archetipiche. Il rapporto tra scuole e metodologie non è, per Samuels, univocamente determinato, nel senso che le diverse scuole non operano una scelta prevalente di metodologia clinica, potendo coesistere, all’interno della medesima scuola, differenti opzioni pragmatiche rispetto alla terapia. La scuola classica tende, nella visione di Samuels, a mantenere gli aspetti originari del pensiero di Jung, così come espressi nell’insieme delle opere, con un atteggiamento che, negli autori più consapevoli, non occulta le contraddizioni indubbiamente presenti nel pensiero del maestro e, in casi meno felici, mira invece a superarle con una rimozione fideistica o un’impropria semplificazione. La scuola evolutiva, legata prevalentemente alla figura di M. Fordham, tenta di integrare la scarsa considerazione mostrata da Jung verso le fasi di sviluppo della mente infantile attraverso una formulazione della psicologia analitica più attenta ai contributi provenienti, su questo argomento, dalla scuola britannica delle relazioni oggettuali. Anche l’analista tedesco E. Neumann, autore per molti versi classificabile all’interno del raggruppamento precedente, ha dato origine, nelle fasi più mature del suo pensiero (Das Kind, 1978), a un complesso tentativo di conciliazione del modello evolutivo freudiano con l’approccio junghiano. La scuola archetipica, dipendente dal contributo di J. Hillman, si colloca in una relazione di continuità solo parziale con il punto di vista junghiano; propone una revisione della psicologia e della psicopatologia incentrata sull’attività ‘immaginale’ dell’uomo, da intendersi come contrapposta alle attività finalizzate e normative dell’Io. Il cosiddetto ‘fare anima’ di Hillman (inteso come collegamento con l’immediatezza dell’esperienza sensoriale e come attenzione alla molteplicità di intenzioni e prospettive che albergano nella nostra coscienza, in una feconda decostruzione simbolica degli aspetti e delle vicende della realtà) ha costituito un punto di riferimento importante nella pratica della psicoterapia junghiana.
Una realtà neojunghiana feconda prende le mosse in Italia dalla riflessione critica sviluppata da M. Trevi sul complesso dell’opera junghiana. Il percorso di Trevi ha costituito un essenziale punto di riferimento per un nutrito gruppo di analisti junghiani che hanno rilanciato la portata euristica e clinica di temi e concetti junghiani quali il complesso (A. Ruberto), la costitutiva antinomia dello psichico (L. Aversa), la centralità dell’affetto nella guida a un’azione terapeutica efficace (M. I. Marozza e A. Iapoce), la teoria dei tipi psicologici (E.V. Trapanese), la configurazione intenzionale dei complessi e la sua incidenza nello strutturarsi di ogni mente individuale (M. La Forgia). Da ricordare anche la monumentale ricategorizzazione del lessico junghiano realizzata da F. Pieri e l’opera di U. Galimberti di ricollocazione dell’approccio junghiano nella cultura filosofica e psicopatologica del 20º secolo. Il neojunghismo italiano ha tentato, dunque, di reinserire il pensiero junghiano nella psicanalisi contemporanea, storicizzandone da una parte alcuni aspetti e puntando, dall’altra, a una espansione di significati presenti in nuce in alcuni plessi dell’opera junghiana, nella prospettiva di aprire quest’ultima a un nuovo, stimolante apporto alla teoria e alla prassi psicoterapeutica.