Scienza indiana: periodo vedico. La medicina nell'Atharvaveda
La medicina nell'Atharvaveda
Il testo vedico più ricco di nozioni di carattere medico è l'Atharvaveda (Veda degli Atharvan). In esso compaiono elementi di patologia, terapeutica e fisiologia che avranno vasta risonanza nella letteratura medica posteriore; vi si fa uso, inoltre, di un lessico anatomico che sarà adottato e ampliato dagli autori di testi āyurvedici, cioè appartenenti alla medicina indiana classica. Si potrebbe dire quindi che l'āyurveda affondi le sue radici nell'Atharvaveda. Gli stessi testi classici di medicina affermano esplicitamente questo legame: "Quando ci si chiede quale fra i quattro Veda ‒ Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda, Atharvaveda ‒ è seguito dai dotti in medicina, la risposta è che i medici ripongono la loro devozione nell'ultimo fra i quattro, perché esso tramanda una terapia fatta di offerte, benedizioni, oblazioni, pratiche di buon auspicio, sacrifici, osservanze religiose, espiazioni, digiuni, mantra ['formule'], e così via. Questa terapia è prescritta per giovare alla longevità" (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XXX, 20-21).
Medicina āyurvedica e religione atharvanica non sono accomunate da un'identità formale e metodologica, ma piuttosto da uno stesso orientamento poiché entrambe sono rivolte al beneficio dell'āyus. Questo termine, che costituisce il primo elemento, con una trasformazione fonetica, del composto āyur-veda, di solito è tradotto con la parola 'vita' o 'longevità' e sta a indicare una vita non soltanto lunga, ma anche piena, soddisfacente, ricca di salute e di ogni cosa si possa desiderare.
In modi diversi l'Atharvaveda e l'āyurveda perseguono quindi lo stesso fine, ossia aiutare l'uomo a vivere bene la sua vita per circa cent'anni, quelli che gli sono concessi in questa era cosmica, il kaliyuga. Sia l'Atharvaveda sia i testi dell'āyurveda sono pensati come da sempre esistenti, come Verbi sacri che eternamente costituiscono ed esprimono l'essenza stessa delle cose. In particolari circostanze essi si manifestano nella storia umana, rivelandosi a dèi, semidèi o veggenti la cui mente è pura. I veggenti trasmettono oralmente le parole a discepoli degni di ascoltarli, che, a loro volta, faranno rivivere le parole ricevute enunciandole fedelmente ad altri. Proprio la modalità della trasmissione orale, di per sé complessa perché alle semplici parole unisce gesti, esperienze, esempi concreti e molto altro ancora, pone un severo limite a chiunque si proponga una ricerca sulla lettera dei testi vedici e āyurvedici e sul loro contesto storico. Ciò è vero in particolare per gli elementi di medicina che si trovano nei primi di essi, perché tutto quanto si riferisce al corpo e alla sua cura ha aspetti pratici non secondari. Nell'Atharvaveda, per esempio, ricorrono nomi anatomici che designano parti difficili da identificare con assoluta sicurezza; oppure sono descritti gruppi di sintomi dei quali rimane dubbio il collegamento con una specifica patologia. Anche i semplici e le sostanze medicinali possono risultare difficilmente identificabili, e così i principî in base ai quali una sostanza può essere sostituita con un'altra.
Victor Henry ha osservato che i documenti dell'India concernenti il rito lasciano incertezze sulla struttura del cerimoniale, pur informando su dettagli minimi. Questo si verifica in quanto non sono trattati metodici, ma mnemotecnici; sono stati composti per operatori che conoscevano perfettamente il loro compito a grandi linee, ma erano soggetti a lasciarsene sfuggire, qua e là, un dettaglio accessorio. Effettivamente, sia riguardo all'Atharvaveda sia riguardo all'āyurveda si ha spesso l'impressione che la natura orale dei testi abbia svolto un ruolo importante nel plasmarli. In particolare, è proprio a motivo della trasmissione orale e della volontà di esprimere qualcosa di atemporale e universale, da applicare poi al proprio contesto individuale, che la forma dell'invocazione religiosa nel Veda e quella della classificazione astratta nell'āyurveda sembrano precludere quella dimensione autodidattica alla quale il lettore occidentale è stato abituato dalla letteratura scientifica tipica della sua propria cultura.
Gli studiosi del XX sec. hanno lungamente dibattuto sul metodo da seguire per interpretare i passi dell'Atharvaveda relativi alla medicina. Sono stati seguiti principalmente tre metodi: il primo prende in considerazione soltanto il testo vedico e le sue testimonianze interne; il secondo legge il Veda alla luce dei suoi commentari, anche se di molto posteriori; il terzo, infine, utilizza, oltre al testo e ai commentari, anche i trattati di āyurveda.
Il terzo metodo, esposto e messo in atto da Jean Filliozat nell'opera La doctrine classique de la médecine indienne, è quello che ha dato i risultati migliori, anche perché in genere i testi indiani di medicina presentano strofe riassuntive, facili da memorizzare, e parti in prosa che discutono e spiegano accuratamente i vari argomenti, in modo molto simile ai primi trattati scientifici greci. È evidentemente più agevole (là dove possibile e non in contrasto con il resto del Veda) interpretare un termine anatomico atharvanico, presente in un'invocazione religiosa, alla luce di una dettagliata trattazione, per esempio, di tipo terapeutico.
Certamente esistono due problemi in relazione a quest'ultimo metodo: il primo è di ordine cronologico, in quanto l'Atharvaveda è anteriore di molti secoli ai primi testi medici che ci sono pervenuti. Il più antico di questi, la Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka), non è certamente opera di un solo autore: secondo la tradizione è stato composto da Agniveśa e poi integrato da Dṛḍhabala. Nell'insieme risale forse ai primi secoli dell'era cristiana, pur raccogliendo materiale molto più antico; dunque sarebbe posteriore di parecchi secoli all'Atharvaveda.
Il secondo problema riguarda la tipologia dei testi; mentre l'Atharvaveda è un testo religioso, i trattati di medicina hanno già un'impostazione fondamentalmente specialistica e laica, fanno parte della letteratura tecnica degli śāstra ('trattati'). Se si studia l'Atharvaveda confrontandolo con la medicina indiana classica, ma senza tener conto di questa diversa 'specializzazione' di base, si rischia di accumulare parecchi dati tutto sommato non utilizzabili, perché poco comprensibili. La duttilità della lingua sanscrita (in cui queste opere sono composte) accentua la capacità che i vocaboli hanno di assumere significati diversi a seconda del contesto, e questo vale in particolar modo per i termini medici.
A questi due problemi si è cercato di dare una risposta con numerose ricerche che hanno analizzato la letteratura non medica risalente al periodo intermedio fra l'Atharvaveda e la Carakasaṃhitā, ossia i testi buddhisti, alcune Upaniṣad, i testi giuridici e i Purāṇa. D'altra parte, sono stati studiati alcuni aspetti religiosi e rituali derivati dai Veda o da altre fonti connesse in vario modo con la medicina, per esempio la demonologia, spesso collegata alle epidemie, alla pediatria e alla psichiatria, oppure la presenza nei testi āyurvedici di prescrizioni circa la recitazione di mantra ('formule') e l'uso terapeutico di yantra ('diagrammi').
Nei Veda tre tipi di divinità hanno a che fare con le malattie: quelle benefiche e guaritrici, come i gemelli Aśvin, per molti aspetti simili ai Dioscuri greci; demoni che provocano la malattia, come i rakṣas che fanno abortire; e dèi che possono sia alleviare la malattia sia causarla, come Rudra. In generale, lo stato patologico del corpo è comunque causato da un'entità divina o demoniaca, ma coincide con un'anomalia nel pensiero o nel comportamento dell'uomo in procinto di ammalarsi. Nel soggetto che viola intenzionalmente o accidentalmente l'ordine cosmico (ṛta), in colui che non esegue correttamente il rituale vedico oppure commette azioni moralmente negative, la malattia insorge come una conseguenza naturale e inevitabile, a meno di applicare i rimedi prescritti nei Veda. Nell'Atharvaveda, la malattia è messa esplicitamente in relazione con la trasgressione rituale e morale: "O Soma e Rudra, cacciate quella che ovunque si diffonde, la malattia che è penetrata nella nostra casa. Tenete lontana, ben lontana la Perdizione [Nirṛti]. Togliete via da noi qualsiasi peccato commesso. O voi, Soma e Rudra, deponete in noi, nei nostri corpi, tutti questi rimedi. Slegate, togliete da noi il peccato commesso, legato al nostro corpo, qualunque esso sia stato" (VII, 42, 1-2). E ancora, in una strofa che loda l'efficacia terapeutica dell'acqua e delle erbe: "Le acque sono [il rimedio] supremo, divine sono le erbe medicinali; da ogni parte del [tuo] corpo hanno cacciato via la consunzione provocata dal peccato" (ibidem, VIII, 7, 3).
Questo rapporto di causa-effetto fra il peccato e la malattia non è posto in evidenza solo nell'Atharvaveda ma in molti altri testi successivi. Ve ne sono alcuni, come il Jñānabhāskara (Sole della conoscenza), che elencano metodicamente le malattie corrispondenti a ciascuna colpa. Nei testi della medicina classica, invece, si preferisce dire che la malattia non è causata in modo deterministico soltanto dal peccato, altrimenti l'intervento professionale del medico o del farmaco sarebbe inutile. Lo stato patologico è provocato da vari fattori, il più importante dei quali è un errore mentale (prajñāparādha) che fa adottare comportamenti nocivi. Certamente l'errore mentale può esser stato generato da un karman negativo, ma ciò non inficia l'azione terapeutica del medico che cura il paziente. A ogni modo, un grave carico di colpe può contribuire a rendere incurabile il morbo e ad accorciare in modo irreparabile la vita del paziente. In tal caso il medico deve formulare una diagnosi corretta e una prognosi obiettiva, onde evitare l'accanimento terapeutico (Carakasaṃhitā, Vimānasthāna, III, 29 e segg. e Cakrapāṇidatta ad Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 3).
Il sacerdote che invoca le divinità dell'Atharvaveda per curare le malattie opera su un piano diverso da quello del medico; si potrebbe dire che la sua azione si esplica sul piano metafisico, il quale è visto come la radice del piano fisico, così come l'infrazione morale è considerata la radice primaria della malattia del corpo. La forza negativa della disarmonia spirituale è personificata e assume i contorni di un demone, mentre l'energia purificatrice e curativa volta a contrastarlo è evocata con il rituale, la meditazione, i mantra ('formule'), e si manifesta con l'aspetto delle divinità invocate. Ecco che, in questo contesto, la terapia può configurarsi sia come una preghiera sia come un esorcismo che scaccia i demoni dal corpo malato.
La medicina vedica, quindi, ha sempre un carattere morale, perché la malattia è uno fra i sintomi della disarmonia con l'ordine cosmico; su questo sfondo agisce l'atto religioso, con cui i sacerdoti allontanano il male che è entrato nel corpo. Il morbo è personificato come un demone, nominato e, mediante il potere del Veda, dominato dal sacerdote. Una delle entità menzionate con più frequenza è la demonessa Nirṛti, che personifica la disarmonia e il disordine, ovvero l'opposto di ṛta ('ordine cosmico'); è una grāhi ('colei che afferra, che possiede'): "Se è in fin di vita, se è morto o se è stato condotto dinanzi alla morte, io lo tolgo dal grembo di Nirṛti. Io l'ho salvato per farlo vivere cento autunni" (Atharvaveda, III, 11). Importanti sono anche i rakṣas, che possono presentarsi come demoni 'divoratori' (astrin) oppure 'abortivi' (bhrūṇahan). Nei testi della medicina classica i demoni sono chiamati graha; essi intervengono specialmente nelle malattie infantili e in quelle mentali; le demonesse, invece, ricevono l'appellativo di mātṛkā e provocano principalmente malattie epidemiche.
Al di là delle radici morali della malattia, nei testi vedici ci sono indizi dei primordi di una teoria eziologica umorale, anche se non enunciata nella maniera chiara e compiuta della medicina classica. Infatti nell'Atharvaveda sono presenti alcune allusioni indirette, ma senz'altro non casuali, a tutti e tre i cosiddetti 'umori' (doṣa), ovvero le entità patogene āyurvediche, vento, bile, flegma. Per esempio, i gonfiori e le affezioni edematose dell'organismo sono designate con il termine balāsa, che poi diventerà uno dei nomi āyurvedici del flegma (śleṣman); il fuoco svolge un ruolo riconosciuto nelle patologie febbrili ed è collegato alla bile (pitta), così come lo sarà nei testi āyurvedici; il vento, in quanto prāṇa, è già considerato un elemento organico fondamentale, ed è menzionato con nomi diversi a seconda delle funzioni svolte. Questi primi passi nella direzione che sarà in seguito fatta propria dalla medicina classica sono possibili in quanto i Veda riconoscono in vari modi una corrispondenza fra il macrocosmo e il microcosmo, fra gli elementi fisici esterni e quelli corporei interni.
Connesso all'idea di tale corrispondenza è il concetto di salute, che nell'Atharvaveda è sia positivo sia negativo; le divinità sono invocate affinché concedano: "voce alla mia bocca, soffio vitale al mio naso, vista ai miei occhi, udito alle mie orecchie, capelli non grigi, denti non rotti e molta forza alle braccia, vigore alle mie cosce, velocità ai miei polpacci, stabilità ai miei piedi, illese tutte le mie [membra]. Che io possa essere infaticabile" (Atharvaveda, XIX, 60, 1-2).
D'altro canto, poiché l'ordine cosmico è assenza di perturbazioni e violazioni, la salute è anche assenza di peccato, di demoni, di veleni e di parassiti, è la protezione dai nemici, è il procrastinare la morte. Anche secondo l'āyurveda la salute consiste sia in qualcosa di negativo, sia in un traguardo positivo da raggiungere, essa è un equilibrio naturale originario non perturbato dal patologico sviluppo di uno o più umori, ma si ottiene attivamente attraverso la prevenzione e la cura degli squilibri, usando sostanze antagoniste agli umori in eccesso.
Negli inni dell'Atharvaveda le affezioni da eliminare sono caratterizzate dalla presenza di uno o più sintomi che non sempre permettono di riconoscere una malattia ben determinata. Talvolta, per individuare meglio la natura del male, è necessario tenere presente il contesto anche mitico in cui esso è descritto.
Si prenda a esempio il morbo indicato con il termine yakṣma, che di solito è tradotto con 'consunzione', 'deperimento', 'tubercolosi'. Esso occupa un posto importante nella patologia ed è anche qualificato con gli aggettivi 'regale' (rāja-yakṣma) e 'ignoto' (ajñāta-yakṣma) (Atharvaveda, III, 11, 1), oppure è menzionato al plurale (ibidem, IX, 8, 10). Lo Śuklayajurveda (Veda bianco delle formule sacrificali) menziona cento yakṣma, e questo fa pensare che la parola venisse usata anche come termine generico per indicare varie malattie. Lo yakṣma affligge ogni parte del corpo, ma in particolare i polmoni, provocando mal di cuore, febbre, dolori, e colpisce anche il bestiame. Nei testi āyurvedici lo yakṣma 'regale' è un deperimento organico derivante da diversi disturbi, tra cui la tubercolosi polmonare. È chiamato 'regale' perché è la stessa malattia di cui soffriva, secondo il mito, il re Soma o Candramas (la Luna). Il re aveva sposato le trentatré figlie del dio Prajāpati, ma era innamorato soltanto di una di esse, Rohiṇī, e trascurò le altre che, indignate, lo lasciarono tornandosene dal padre. In seguito a questa colpa, Soma fu colpito da yakṣma. Secondo l'āyurveda, la malattia del re Soma fu provocata, oltre che dalla collera del dio Prajāpati per il modo in cui erano state trattate le sue figlie, anche dallo sfinimento fisico a cui Soma fu condotto per aver troppo amato Rohiṇī. Gli Aśvin esorcizzarono il male trasferendolo al mondo umano. Da allora lo yakṣma colpisce anche gli uomini che si esauriscono per uno sforzo troppo intenso, che non soddisfano i bisogni naturali (fame, sete, sonno, ecc.), che dimagriscono eccessivamente o che si alimentano in modo irregolare (Carakasaṃhitā, Cikitsāsthāna, VIII, 3-13). I testi āyurvedici non menzionano l'ajñātayakṣma (yakṣma 'ignoto'), ma si può presumere che rappresentasse un deperimento organico di cui era difficile individuare la causa.
Altri esempi di malattie importanti sono hariman, l''avere un [colorito] giallo' (un sintomo dell'itterizia), e hṛddyota, 'dolore al petto', 'mal di cuore', entrambe menzionate in un inno dell'Atharvaveda (I, 22), perché una può essere considerata causa dell'altra. Sono curate in modo analogo, con una sorta di cromoterapia e con esorcismi, circondando il paziente con oggetti di colore rosso e trasferendo il suo colorito giallo al Sole o a uccelli di quello stesso colore, come alcuni pappagalli.
Il jāyānya è probabilmente una malattia della pelle, una dermatosi purulenta, oppure, in base alla sua etimologia, un disturbo di origine sessuale, venereo o congenito. Un inno vedico (ibidem, VII, 80 [76], 3 e segg.) lo presenta come qualcosa che si diffonde in ogni parte del corpo e danneggia le vertebre: "Ho portato via tutto il jāyānya che distrugge le vertebre, che va giù fino alla pianta dei piedi e che è attaccato alla cima [della testa]".
Il takman è stato identificato con la malaria; negli inni volti a scongiurarlo è descritto come caldo, ardente, bruciante e nello stesso tempo gelido, ricorrente una volta al giorno, oppure ogni due o tre giorni o in alcune stagioni; tuttavia è più corretto identificarlo con qualsiasi malattia caratterizzata da febbre e brividi (Atharvaveda, I, 25).
Fra gli altri morbi che sono elencati negli inni vedici si annoverano lo kṣetriya ('malattia ereditaria della pelle', o forse 'lebbra', 'scrofola', 'sifilide'), il balāsa ('edema', 'gonfiore'), l'akṣata ('tumore'), la śīrṣakti ('cefalea'), il pṛṣṭyāmaya ('lombaggine'), l'āsrāva ('flusso', 'poliuria', 'dissenteria', 'emorragia'), lo śūla ('dolore lancinante'), il karṇaśūla ('dolore auricolare'), il prameha (un nome generico per i disturbi urinari), il jalodara ('idropisia'), il kilāsa ('leucodermia' e malattie correlate), la kumbhikā (morbo che produce vescicole in varie parti del corpo), l'onomatopeico kāsa ('tosse'), i krimi ('vermi', 'parassiti'), l'unmadita e l'unmatta ('demenza', 'pazzia'). Inoltre alcuni inni fungono da antidoto contro l'azione dei veleni, in particolare di serpenti, scorpioni e insetti (per es., Atharvaveda, VII, 58 [56]).
Non mancano poi i riferimenti alle ferite e alle fratture, frequenti in tempo di guerra, ma anche possibili per cause accidentali, come una caduta o l'essere colpiti da un sasso; l'inno per queste occasioni impetrava così il risanamento della parte offesa: "Che il tuo midollo sia unito al midollo e la tua articolazione all'articolazione. La [parte] strappata di carne ricresca e insieme ricresca l'osso. […] Unisci pelo al pelo; congiungi la pelle alla pelle. Che il sangue ricresca insieme all'osso. Rimetti insieme ciò che è stato separato" (ibidem, IV, 12, 3-5).
Una prima forma di chirurgia è stata individuata nell'inno I, 3, che descrive il procedimento da attuare in caso di ritenzione urinaria, cioè l'inserimento di una canna sottile nell'uretra a mo' di catetere: "Noi conosciamo il padre della canna, Parjanya, dal potere centuplicato. Con essa darò salute al tuo corpo. Lascia che il flusso [di urina] scorra sulla terra, fuori di te, [facendo il suono] bāl […]. Io apro la tua uretra come la diga di un lago. Così, possa la tua urina essere completamente liberata, [facendo il suono] bāl".
Nell'Atharvaveda non sono descritte esplicitamente le terapie legate alle invocazioni e alle formule. Infatti, salvo rare eccezioni, non sono indicati i gesti da compiere insieme alla recitazione delle parole, come invece accade, molto sinteticamente, in opere posteriori quali il Kauśikasūtra (Aforismi di Kauśika). La lettura di questo testo non risolve ogni problema, perché richiede a sua volta commenti e integrazioni, tuttavia permette di capire quanto elaborata potesse essere la realizzazione dell'intera procedura.
Si tratta sicuramente di una terapeutica rituale che non coincide con quella āyurvedica, nonostante ci siano alcune affinità; piante medicinali invocate nel Veda continueranno a essere impiegate, magari in modo diverso, nella medicina classica; per contro, qualche rituale terapeutico è presente anche nei trattati di āyurveda. Il muñja (Saccharum munja Roxb.), per esempio, di cui fa menzione l'āyurveda, è anche citato quasi in apertura dell'Atharvaveda, nel secondo inno del primo capitolo. Dice il Veda, dopo aver chiesto protezione per il guerriero: "Come la canna dimora fra il cielo e la terra, così il muñja sta fra la perdita delle forze e il flusso [di sangue, feci o urine]" (Atharvaveda, I, 2, 4). Nei testi medici, d'altronde, il muñja ricorre spesso con il sinonimo di sara e śara, soprattutto nelle ricette di ricostituenti e afrodisiaci.
Nei repertori medici è segnalato come rinfrescante, utile a curare i disturbi ematici, urinari e oftalmici, l'erisipela, l'eccesso di bile, le scottature e la polidipsia. Dunque il muñja è effettivamente un rimedio usato per molti disturbi e non può essere casuale che sia stato lodato in apertura del Veda.
In generale, tuttavia, le erbe sembrano essere impiegate nei rituali vedici non soltanto per le loro reali qualità terapeutiche, ma anche per le qualità antagoniste al male da curare attribuite in base all'etimologia del loro nome o al loro aspetto. Si veda per esempio la rajanī, 'indaco', una pianta per tintura scura invocata nell'Atharvaveda (I, 23) per guarire una malattia della pelle che comporta macchie bianche. Quindi si fa ricorso a una terapeutica magico-religiosa che fa anche uso di piante dalla valenza simbolica.
Indagando invece sulla versione dei rituali terapeutici fornita dall'āyurveda classico, si scopre che in alcuni casi sono considerati come particolarmente validi, ma di fatto si fa loro riferimento di rado e in forma molto sintetica, come se non fossero propri del campo medico ma di un'altra branca dello scibile. Spesso tali rituali sono menzionati come ultima ratio, solo dopo aver elencato numerose terapie puramente fisiche. Un esempio può essere la cura per la febbre 'irregolare' (viṣama), cioè che compare a intervalli di tempo non regolari, per la quale è indicato il culto di Īśvara e di Umā con il loro seguito, la ripetizione dei mille nomi di Viṣṇu a mille teste, il culto di Brahmā, degli Aśvin, di Indra, di Agni, dell'Himalaya, del Gange e dei Marut (Carakasaṃhitā, Cikitsāsthāna, III, 310b-313a). In altri casi l'āyurveda, sempre dopo aver elencato diete e regimi medici, senza dare alcuna indicazione rituale rimanda direttamente ai Veda. È il caso della consunzione 'regale': "[Il paziente] che desidera la salute compia il sacrificio prescritto dai Veda, con il quale la consunzione 'regale' è stata curata nei tempi antichi" (ibidem, VIII, 189).
Tornando all'Atharvaveda, dal testo stesso si possono dedurre molti modi per curare le varie malattie con preghiere, piante, amuleti, unguenti, idroterapia; un tipico esempio della natura rituale delle cure è fornito dal Kauśikasūtra (Aforismi di Kauśika), che permette di capire come di fatto operi il terapista vedico. Per curare la temuta consunzione, occorre recitare il testo dell'Atharvaveda (II, 33): "Dai tuoi occhi, narici, orecchie, mento, cervello, lingua, io strappo via per te la consunzione che è nella testa. Dal tuo collo, nuca, vertebre, colonna vertebrale, spalle, avambracci, io strappo via per te la consunzione che è nel braccio". L'inno prosegue menzionando ogni parte del corpo e si conclude con queste parole: "strappiamo via completamente la consunzione che risiede nella tua pelle, in tutte le membra, in ogni pelo e in ogni articolazione". Nel frattempo si tolgono le bende che erano state avvolte attorno al paziente e lo si spruzza dalla testa ai piedi con acqua mista a sedimento di burro chiarificato; poi, mormorando l'inno (Ṛgveda, X, 163), il sacerdote tocca la testa, le orecchie, gli occhi, il mento e le narici del paziente con la mano unta di burro chiarificato reso puro dal rituale (Kauśikasūtra, XVIII, 5-6, 14).
Questo è un esempio di terapia dal carattere spiccatamente religioso e rituale, ma vi sono casi in cui la cerimonia risanatrice implica l'uso di sostanze dalle conclamate qualità terapeutiche. Si veda in questo senso la terapia delle fratture e delle ferite; essa richiede che, all'alba, il sacerdote spruzzi la parte lesa del paziente con acqua, recitando l'Atharvaveda (IV, 12), e gli somministri una mistura di burro chiarificato e latte, ungendo successivamente la ferita con la medesima mistura. Quindi, recitando alcuni versi dell'Atharvaveda (V, 5 e IV, 12) che contengono la parola lākṣā, il sacerdote fa bere al paziente un decotto di latte e lākṣā (Kauśikasūtra, XVIII, 5-6, 14). Ci sono varie ipotesi sulla natura della sostanza chiamata lākṣā; potrebbe trattarsi di una resina, di un lattice o di una lacca derivante da alcune piante, tra cui Ficus infectoria Roxb., Ficus lacor Buch.-Ham., Ficus religiosa L., Acacia catechu Willd., Butea frondosa Koen. ex Roxb., tutte menzionate spesso nei trattati āyurvedici per le loro qualità terapeutiche e a tutt'oggi impiegate come tonici, astringenti, disinfettanti. Per esempio, il decotto della corteccia di Ficus lacor si usa come lavanda per le ulcere, in iniezione per la leucorrea, in gargarismi per l'eccessiva salivazione.
Oltre agli inni che hanno un chiaro impiego terapeutico nei rituali, nell'Atharvaveda si possono trovare anche quelli non specificamente destinati a un singolo uso, ma tali da riferirsi ad altre usanze o credenze sulla cura di malattie per certi elementi che contengono. Uno dei più noti è l'inno con cui sono consacrate e lodate le acque: "Possano le divine acque, che scorrono giù dall'Himalaya e s'incontrano da qualche parte nell'oceano, concedermi la cura per il mal di petto. Qualsiasi malattia io abbia che mi procuri dolore agli occhi, ai calcagni o alla punta dei piedi, sarà curata dalle acque, le migliori fra le medicine. Tutte voi correnti, spose dell'oceano, regine dell'oceano, dateci la cura per quel [male]. Che noi si possa usufruirne" (Atharvaveda, VI, 24, 1-3). Questa e altre invocazioni sono state considerate indizi di una idroterapia forse già praticata presso la civiltà della Valle dell'Indo; in particolare, gli usi medicinali dell'acqua deriverebbero dalla tradizione medica degli abitanti di Harappa (Zysk 1998).
Un altro inno di grande interesse (Atharvaveda, VIII, 7) è quello in cui si rivolge una lode alle piante medicinali e, rendendo omaggio a tutte le piante di vario colore e forma, si chiede il loro aiuto in particolare contro la consunzione; si ribadiscono alcuni concetti che ricorrono in tutto il Veda, quali il legame causale fra colpa e malattia e l'aspirazione umana a una vita centenaria; inoltre, si mette in evidenza come le piante curino anche gli animali, in particolare le vacche e i cavalli. In questo inno è anche menzionato il 'vigore' (vīrya) delle piante, termine che forse non è ancora tecnico ma lo diventerà nella medicina classica. L'āyurveda, infatti, classificherà otto tipi di vīrya, ossia qualità che il cibo esplica una volta introdotto nel corpo, prima di essere digerito, come soffice, acuta, pesante, leggera, untuosa, secca, calda e fredda (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XXVI, 64-66). Con l'inno alle piante, infine, il sacerdote invoca sia le specie conosciute sia quelle ignote; infatti, le erbe sono apprezzate per il loro potere curativo non soltanto dall'uomo ma anche dal bestiame, da cinghiali, manguste, serpenti, aquile, cavalli e uccelli.
L'Atharvaveda contiene una ricca nomenclatura anatomica, che è stata poi utilizzata parzialmente e integrata dai trattati di āyurveda. I poeti vedici non dimostrano, ovviamente, di possedere una conoscenza approfondita dell'anatomia umana intesa in senso moderno; tuttavia, il significato dei termini anatomici vedici si può verificare soltanto parzialmente a causa della struttura del contesto in cui sono inseriti, cioè inni mitologici o terapeutici che enumerano e raggruppano le parti del corpo umano senza descriverle in dettaglio. Inoltre, a differenza della medicina tibetana, che fa spesso uso di immagini didattiche, sia l'Atharvaveda sia l'āyurveda antico erano privi di un apparato iconografico che consentisse d'identificare con sicurezza le parti anatomiche; per questo ci si affidava, come di consueto, alla tradizione orale trasmessa da maestro a discepolo.
Le conoscenze anatomiche erano limitate e le nozioni sugli organi interni piuttosto vaghe, anche perché all'epoca non si praticava l'autopsia. La chirurgia āyurvedica fa menzione di una pratica autoptica (Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, V, 47-49), ciò tuttavia non significa che tale pratica fosse molto diffusa, neppure fra i chirurghi. Si conosceva meglio, invece, l'anatomia di animali come il cavallo, dissezionati in occasione di sacrifici cruenti.
Gli studiosi occidentali si sono comunque occupati ampiamente di questo argomento. Nel 1907 August Hoernle pubblicò un saggio sull'osteologia indiana, in cui metteva a confronto l'inno X, 2 dell'Atharvaveda e i testi di Caraka e di Suśruta. Hoernle notò una certa somiglianza fra passi che menzionavano venti nomi di ossa sia nel Veda sia in Caraka (Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, VII), e ne dedusse uno stretto rapporto fra i due testi (Hoernle 1907). Jean Filliozat documentò l'inaccettabilità di questa tesi, accolta anche da altri studiosi, mostrando le forzature a cui Hoernle aveva sottoposto la traduzione del testo vedico affinché confermasse le sue teorie. In sostanza Filliozat basava la sua argomentazione sul fatto che l'inno vedico in questione non è un elenco tecnico di ossa, ma un discorso mitologico che menziona a una a una le parti del corpo dell'Uomo cosmico, chiedendo chi ha creato ciascuna di esse; è il contesto, dunque, che determina necessariamente il carattere generico della terminologia anatomica ivi contenuta e che prova l'impossibilità di uno stretto legame fra i due testi. In generale, poi, per la corretta traduzione di un termine anatomico non ci si può affidare alle glosse di commentatori molto posteriori, e neppure all'etimologia, perché nel corso del tempo può essersi smarrito completamente quel rapporto fra nome e parte designata che magari in origine era stato trasparente.
Per compilare un dizionario attendibile dei termini anatomici vedici conviene dunque non limitarsi a gruppi di termini presenti in un singolo inno, ma selezionare da tutto il testo vedico parole la cui traduzione sia limitatamente problematica. Alcuni nomi molto comuni indicanti parti del corpo sono stati trasmessi dai Veda a tutta la letteratura sanscrita e non soltanto a quella medica; si veda, per esempio, aṅgulī ('dito'), uṣṇihā ('protuberanza cranica'), udara ('addome'), kapāla ('cranio'), kara ('mano'), cakṣus ('occhio'), garbha ('matrice, embrione'), danta ('dente'), nās ('naso'), pad ('piede'), bāhu ('braccio'), majjan ('midollo'), mukha ('bocca'), medas ('grasso'), yoni ('vagina'), loman ('capello', 'pelo'), śarīra ('corpo'), hṛd ('cuore').
Altri termini che hanno nel Veda più significati, o almeno un significato complesso, suscettibile di varie interpretazioni, sono stati adottati dall'āyurveda come termini tecnici riferentisi a una realtà particolare. Un esempio significativo è quello della nomenclatura dei canali, che si possono chiamare nāḍī, dhamani e hirā o sirā, e possono essere vuoti oppure riempiti di varie sostanze. Già nel Ṛgveda (Veda degli inni) si menziona la nāḍī o nāḷi nel senso di flauto, cennamella (X, 135, 7); nell'Atharvaveda le nāḍī sono canali vuoti oppure, al duale, i canali seminali in cui risiede la virilità (VI, 138, 4), mentre nell'āyurveda sono generalmente condotti tubolari come quelli che portano il nutrimento dalla madre al feto o come i tubicini di un apparecchio per suffumigi (Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, III, 27; Uttaratantra, XXI, 3). Tuttavia il termine nāḍī non è usato per descrivere la fisiologia mistica, oggetto invece della speculazione dei testi vedici più tardi, dello yoga e del tantrismo.
Il termine dhamani nel Ṛgveda ha il significato di 'soffio' (II, 11, 8), mentre nell'Atharvaveda prende quello di 'vaso sanguigno'. Soltanto impropriamente si può tradurre questo termine come 'vena' o 'arteria', perché la nozione moderna di circolazione sanguigna era sconosciuta alla medicina dell'India antica, come del resto alle altre medicine classiche; invece, non s'ignorava che i liquidi fluissero da una parte all'altra del corpo (Atharvaveda, X, 2, 11). I vasi erano talvolta distinti in base alle loro funzioni, ma anche secondo il colore, la grossezza, il numero e l'orientamento nel corpo. In un inno utilizzato per fermare le emorragie si parla di cento dhamani e di mille canali detti hirā (ibidem, I, 17); in un altro, al contrario, sono menzionate mille dhamani e cento hirā (ibidem, VII, 35, 2). La denominazione dei diversi vasi, dunque, non era ancora fissata stabilmente e poteva variare a seconda del contesto. Suśruta, a ogni modo, pur riferendo l'opinione che i vasi sanguigni sono indifferentemente chiamati sirā, dhamani o śrotas, preferisce distinguerli in base alle funzioni. Le dhamani principali sono ventiquattro e si dipartono dall'ombelico, dieci verso l'alto, dieci verso il basso e quattro in senso orizzontale. Le dhamani dirette in alto portano i suoni, le sensazioni tattili e visive, il gusto, l'odore, l'inspirazione, l'espirazione, lo sbadiglio, la fame, il riso, la parola, il pianto, ecc.; giungendo al cuore si triplicano e conducono anche i tre umori, il sangue e il rasa ('essenza di ciò che è stato mangiato e bevuto'). Le dhamani rivolte verso il basso conducono l'umore 'vento', l'urina, le feci, lo sperma, il sangue mestruale, ecc.; comprendono quindi anche i due condotti che portano lo sperma ai testicoli, svolgendo quel ruolo dall'Atharvaveda attribuito alle nāḍī. Le dhamani oblique, infine, si dividono in centinaia o migliaia di canali più piccoli e si diramano in tutto il corpo per andare a finire nei follicoli. L'esistenza di questi canali spiegherebbe, secondo Suśruta, l'effetto delle medicine applicate in uso esterno. Gli śrotas hanno funzioni simili a quelle delle dhamani, in quanto conducono le medesime sostanze, ma partono dal cuore (Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, IX, 3-12). Le sirā invece sono settecento, portano i tre umori e il sangue a tutto il corpo e, come le dhamani, si diramano dall'ombelico verso l'alto, il basso e trasversalmente. La classificazione delle sirā in base al colore (rosso, blu o bianco) e alla temperatura ha fatto pensare che non le si potesse identificare con un tipo preciso di vasi secondo l'anatomia moderna. Il salasso però si praticava proprio sulle sirā e dunque alcune devono essere identificate come vene (ibidem, VII-VIII).
Un altro termine di grande interesse per confrontare concezioni anatomiche vediche e āyurvediche è ojas ('vigore', 'forza', 'vitalità', 'potenza'). Nell'Atharvaveda, l'ojas è al primo posto fra le richieste alla divinità perché conceda all'uomo le qualità migliori: "Tu sei l'ojas. Concedimi l'ojas!" (II, 17, 1). Un altro inno definisce il re 'ojas degli dèi' (ibidem, III, 5, 1). Ojas è anche il potere degli oggetti; è la forza risanatrice del jaṅgiḍa, una pianta medicamentosa usata per amuleti, e nel contempo il potere malefico della malattia (ibidem, XIX, 34, 5). Nell'āyurveda, invece, l'ojas è il 'succo vitale', una sostanza particolare che risulta dalla trasformazione metabolica di tutti gli altri elementi corporei e che è indispensabile alla vita. Caraka lo descrive come 'dimorante nel cuore'; Suśruta come 'untuoso, bianco, freddo, sostanzioso, fluido, puro, soffice'. Quando il feto è all'ottavo mese l'ojas si sposta tra il feto e la madre attraverso i canali del nutrimento e, proprio a causa della sua instabilità, in questo periodo la nascita è pericolosa (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XVII, 73; Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, IV, 24; Sūtrasthāna, XV, 14). L'ojas è stato identificato con l'albumina, perché Caraka dice che è presente nelle urine dei diabetici, ma questa teoria non è coerente con l'embriologia āyurvedica, secondo cui l'ojas entra per la prima volta nel feto all'ottavo mese di gravidanza. Dunque è difficile trovare un equivalente preciso del termine ojas nell'anatomia moderna, in quanto il valore generico, nel Veda, di 'potere, vitalità', si specializza nell'āyurveda a indicare quella sostanza fluida che risulta dal metabolismo di tutte le altre, senza la quale la vita non è possibile.
Il marman nell'Atharvaveda è un punto particolarmente vulnerabile di un corpo o di un oggetto. Diventa quindi il nome per i punti vitali che devono essere colpiti per annientare i nemici in guerra: "Le loro armi cadano a terra. Che essi non riescano neppure a tirare una freccia. Allora siano presi da un tremendo terrore: le frecce li colpiscano nel punto vitale" (VIII, 8, 20; XX, 35, 6). Talvolta si prega Indra di sterminare in questo modo i nemici (ibidem, V, 8, 9); oppure si scongiura Agni di perforare con la fiamma i punti vitali degli stregoni malefici avversi (ibidem, VIII, 3, 17). Nella terminologia āyurvedica, d'altronde, si elencano centosette marman da evitare assolutamente in caso di operazione. Se ne distinguono cinque tipi: quelli che, se colpiti, provocano istantaneamente la morte del paziente; quelli che la provocano dopo un certo tempo; quelli che sono fatali allorché il corpo estraneo penetrato in essi è estratto; gli invalidanti; i molto dolorosi (Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, VI). Alcuni di questi punti corrispondono ai cakra ('ruote') dello yoga, oppure ai punti dell'agopuntura e della moxibustione cinese; anche le arti marziali indiane, cinesi e giapponesi ne tramandano una conoscenza spesso segreta.
Un altro termine rilevante che l'anatomia āyurvedica ha ereditato dall'Atharvaveda è pitta, la 'bile', uno dei tre 'umori' che causano le malattie. C'è un inno che riporta questo termine, anche se forse in senso metaforico. Esso recita: "O Agni, tu sei il pitta delle acque" (Atharvaveda, XVIII, 3, 5). Quanto agli altri due 'umori', il vento e il flegma, il primo ricopre un ruolo importante nella fisiologia mistica con il nome di prāṇa, mentre il secondo non è menzionato dall'Atharvaveda, dove però è citato il balāsa, altro nome con cui Suśruta indica il flegma, che nel Veda è una malattia edematosa la quale può manifestarsi nelle membra e nelle giunture e affliggere il cuore.
Definire le teorie fisiologiche esposte nell'Atharvaveda è compito estremamente complesso, sia perché il testo non contiene esplicite trattazioni di questa materia, a differenza di quanto accadrà nei libri di medicina, sia per il fatto che la fisiologia vedica non è fondata, come quella āyurvedica, sull'aumento e la diminuzione delle sostanze corporee, ma è un'articolata rete di esperienze e oggetti meditativi spesso designati metaforicamente. La fisiologia del corpo umano esposta dai testi medici non può quindi derivare direttamente da quella dei Veda. È opportuno invece rilevare una delle idee centrali della fisiologia vedica che l'āyurveda adotterà con numerose conseguenze, ossia la corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo.
Già nel Ṛgveda si descrive il mondo come un gigantesco corpo umano eretto, in cui il cielo è la testa, l'atmosfera l'ombelico e la Terra i piedi. Dalla sua mente trae origine la Luna, dall'occhio il Sole, dalla bocca Indra e il fuoco, dal suo prāṇa il vento (X, 90, 13-14). Nell'Atharvaveda si legge: "Il mio occhio è il Sole, il mio respiro è il vento, il mio sé è il cielo, il mio corpo è la Terra" (V, 9, 7). Oltre a questa corrispondenza più volte ribadita, fra gli elementi cosmici e la salute umana si riconosce un legame che può essere considerato come la lontana origine delle teorie fisiologiche mediche. Gli elementi cosmici vedici, tuttavia, non hanno quella fisionomia precisa, determinata dalle loro qualità, che assumeranno nell'āyurveda; hanno il volto ambiguo di divinità e aspetti della mente che pervadono la realtà esperita e come tali sono invocati affinché concedano forza, vita, progenie, nutrimento, ricchezza (ibidem, IV, 39).
Fra i cinque elementi della cosmologia indiana (spazio, aria, acqua, fuoco, terra), tre meritano particolare attenzione, perché possono essere stati i lontani progenitori degli 'umori' āyurvedici: il vento, il fuoco e l'acqua. Dell'acqua come fonte di salute per l'essere umano si è già detto; i fuochi (agni) sono descritti come presenti nelle acque, nelle nuvole, nell'uomo, nelle piante, nella Luna e negli animali (Atharvaveda, III, 31, 1-2). Vari miti illustrano la figura del dio Agni, colui che consuma l'oblazione e la porta agli dèi, e spiegano perché egli si nasconde nelle piante e nelle acque. Agni è menzionato di frequente in tutto l'Atharvaveda; talvolta è un dio, talaltra il fuoco, oppure il simbolo di qualcosa che purifica, ma può anche consumare e distruggere. Nell'āyurveda è rappresentato dalla bile, l'unico 'umore' caldo, che ha sede nello stomaco e nell'intestino tenue, e dalla capacità di digestione, agnibala (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XX, 9; V, 3-4).
Il vento è il prāṇa e il prāṇa è il respiro. In un inno dell'Atharvaveda si rende omaggio al prāṇa come a un dio ed è identificato con il Sole, la Luna e tutte le divinità più importanti, dicendo, fra l'altro, che può essere chiamato vāta, 'vento' (XI, 4, 15). Inoltre, si distinguono già vari tipi di respiro, come farà poi l'āyurveda; Suśruta parla di prāṇa ('soffio anteriore'), apāna ('soffio discendente'), vyāna ('soffio pervadente'), udāna ('soffio ascendente'), samāna ('soffio equilibratore'). L'Atharvaveda menziona più spesso il primo o i primi due (per es., XI, 4, 13), e poi i primi tre (XI, 5, 24), oppure questi più il samāna (X, 2, 13), o questi più l'udāna (XI, 8, 4). Il preciso significato di questi nomi del soffio non può essere dedotto dal contesto, ma è ipotizzabile che si tratti di funzioni specializzate del prāṇa, le quali in seguito saranno elencate e utilizzate dai trattati di yoga e di medicina.
L'Atharvaveda, pur essendo un testo religioso e non medico, contiene in nuce molti tratti della medicina indiana classica. I testi āyurvedici rivendicano apertamente la loro filiazione dal quarto Veda non soltanto nel tentativo di acquisire maggiore autorità, ma per una parentela effettiva, sebbene l'orientamento e la 'specializzazione' di questi testi siano profondamente diversi. Il lessico anatomico e patologico è stato spesso riutilizzato dall'āyurveda e reso più tecnico, mentre la terapia rituale è stata in gran parte considerata appannaggio specifico del clero e sostituita da terapie psicofisiche basate su filosofie ortodosse, in particolare sul Vaiśeṣika e sul Sāṃkhya. Non è facile accertare il grado di specificità o genericità della terminologia medica usata nell'Atharvaveda, né la variabilità in rapporto al contesto; inoltre, non ci sono rimasti testi medici antichi in grado di fornire ulteriori modalità di verifica. Ciò nonostante è evidente che il Veda, sapienza rivelata e radice spirituale della civiltà indiana, contiene quello stesso amore per la vita pienamente vissuta che ispirerà i veggenti cantori dei testi medici. Essi diranno che senza un corpo sano e longevo non si può raggiungere la liberazione, concordando in questo con i poeti atharvanici, che supplicano gli dèi affinché concedano loro una vita meravigliosa, lunga almeno cent'anni.
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