Scienza indiana: periodo classico. Minerali e metalli
Minerali e metalli
Fino all'inizio del XX sec. la conoscenza della storia indiana a malapena risaliva a un tempo precedente il periodo del Buddha Gautama, cioè prima del V sec. a.C.; in seguito, con le scoperte di Harappa e Mohenjo-Daro, il panorama si estese fino al 3000 a.C. La fase matura (2750-1900 a.C. ca.) della civiltà dell'Indo, che alcuni archeologi preferiscono definire 'cultura di Harappa' poiché i primi manufatti di questa civiltà furono trovati nello stanziamento urbano di Harappa e perché tale cultura si estese al di là dei confini del sistema fluviale della valle dell'Indo, è caratterizzata dalla particolare perizia dimostrata nella produzione di oggetti metallici, specialmente di rame e di bronzo.
Nel 1947 gli archeologi indiani scoprirono Kalibangan e altri siti sul fiume estinto Sarasvatī. Recentemente, ulteriori scoperte hanno mostrato l'esistenza nel subcontinente indiano di molti siti pre-harappani, come Mehrgarh (Baluchistan), risalente al 7000 a.C., le cui civiltà contribuirono alla costituzione di quella di Harappa. Mehrgarh ha rivelato una cultura neolitica anteriore alla tecnica della ceramica, risalente all'VIII-VI millennio a.C.; sono stati ritrovati attrezzi di selce, mole, orzo, frumento, testimonianze della coltivazione di cereali, pezzi di ocra rossa, perline di conchiglia, di turchese, di lapislazzuli e un grano cilindrico di rame (data al 14C, 7786±120 a.C.). Alla seconda fase (cultura del VI-V millennio a.C.) appartengono perline di steatite, trapani di selce, anelli e perline di rame; mentre alla prima metà del V millennio risalgono dei crogioli per la fusione del rame che conservano ancora residui di metallo (data al 14C, 4745±90 a.C.). Le testimonianze di Mehrgarh hanno contraddetto la precedente opinione di D.P. Agrawal (1971) che le conoscenze metallurgiche provenissero all'India da Tal-i Iblis (Iran), sito che J.R. Caldwell (1967) fa risalire al 4000 a.C. Si può affermare ora con sicurezza che la metallurgia del rame fu elaborata localmente nel subcontinente indiano assai prima del 4000 a.C. Vi furono infatti nel distretto di Zhob grandi depositi di minerale di rame che venne fuso dagli abitanti di Mehrgarh.
La testimonianza più chiara sulla cultura eneolitica pre-harappana si è avuta nell'area di Ganeshwar-Jodhpur vicino a Jaipur. Questo sito ha restituito enormi quantità di oggetti di rame quali lame, punte di freccia e ami, utilizzati nella cultura pre-harappana di Sothi e più tardi nella cultura harappana. Scavi più profondi hanno rivelato una più antica cultura dell'età della pietra, provando che Ganeshwar passò dalla fase neolitica alla eneolitica prima dell'età di Harappa.
Mehrgarh era collegata attraverso le vie del commercio con il sito meridionale di Nal e il sito costiero di Balakot (vicino a Karachi), e nel Nord-ovest con il sito di Mundigak, in Afghanistan; ciò le forniva l'accesso all'Iran e all'Asia centrale. Braccialetti, anelli, perline e ciondoli, ottenuti dalla varietà indiana di śaṅkha o 'conchiglia' (Turbinella pyrum), furono utilizzati in tutti i successivi periodi di Mehrgarh e in quasi tutti i siti pre-harappani. G.F. Dales (1977) riferisce di perline di conchiglia nel primo periodo di Balakot e di piani di lavoro nel secondo periodo coperti di grandi quantità di braccialetti di conchiglia a tutti gli stadi di lavorazione. Il lapislazzuli e il turchese provenivano dall'Iran ma erano lavorati a Mehrgarh e Nal. Il ritrovamento nel sito di Nal di perline di lapislazzuli non levigate, non traforate e sommariamente modellate, insieme con perline finite ‒ cilindriche, discoidali e irregolarmente esagonali ‒ prova che i materiali grezzi importati erano lavorati sul posto. La maggior parte del lapislazzuli raccolto dagli harappani era usualmente esportato in Mesopotamia attraverso la costa del Makran. Testi cuneiformi mesopotamici elencano il lapislazzuli come una merce, oltre a rame, avorio, ecc., che proviene da Meluhha, nome che con ogni verosimiglianza indicava la civiltà dell'Indo. Queste relazioni commerciali proseguirono e si intensificarono notevolmente nell'età harappana.
Durante il periodo della civiltà harappana (3200-1200 a.C.), le principali città furono Mohenjo-Daro, Harappa e Kalibangan. Mohenjo-Daro fu la più vasta in assoluto e ha restituito una cospicua varietà di materiali. L'industria delle perline di pietre semipreziose era assai diffusa nella civiltà harappana, la quale faceva uso di cristallo di rocca o quarzo (SiO2), di varietà di calcedonio (SiO2·nH2O, talora di aspetto ceroide) come la corniola (dal colore pallido della sarda al rosso cupo; l'arrossamento si deve alla disidratazione dell'ossido ferrico giallo idratato nel processo industriale), il crisoprasio (verde mela a causa del nichel), il prasio (da lucente a verde smeraldo), l'eliotropio (prasio con macchie rosse), l'agata (a strisce, calcedonio di diversi colori), l'onice (agata con zone colorate a bande), e di altri minerali, come il feldspato/microclino (KAlSi3O8), l'amazzonite (verde, microclino con striatura geminata), la nefelina o sodalite. Il lapislazzuli, il turchese e la giadeite erano probabilmente importati. Tra gli altri materiali si avevano ceramiche, creta, mattoni, pietra calcarea, calce e gesso, nonché malta, porcellana e pasta di vetro, che suggeriscono l'uso di reh o incrostazione di fiume alcalino e fondente colorante, arenaria, steatite contenente talco, basalto, bitume (śilājit) una 'medicina' organica simile al carbone, pigmenti come il gesso bianco, l'ocra giallo-rossa, l'ossido di manganese porpora-nero, la glauconite o clorite verde, un silicato di ferro che si trova nel basalto di Bhuswal nell'India centrale, ecc.
Sebbene la città di Harappa non mostri la stessa varietà di materiali rinvenuti a Mohenjo-Daro, essa ne presenta taluni particolari: corallo, mica, löllingite (Fe As2) per la metallurgia del bronzo, scarti di bronzo usati come fonte di stagno, pietra calcarea gialliccia, granito grigio, animali giocattolo di terracotta, ceramiche di struttura più rifinita e così via. Harappa fu un importante centro di manifattura, essendovi molte più fornaci che a Mohenjo-Daro; le fornaci Fa, Fe e Fj producevano senza alcun dubbio metalli, poiché vi sono stati trovati crogioli e scorie. I lingotti di rame grezzo trovati a Harappa provenivano probabilmente dalle aree del Rajasthan e di Hakra (letto del fiume Sarasvatī, ora in Pakistan).
Chanhu-Daro fu un importante centro di laboratori nei quali si producevano sigilli e perline di steatite, ossia pietra saponaria, il cui principale costituente è il talco (Mg3Si4O10(OH)2), che fra quelli noti è uno dei materiali più morbidi. La steatite del Gujarat contiene un silicato di alluminio di tipo caolino, anch'esso molto morbido; Hedge (1982) ha dimostrato che quando questa sostanza è riscaldata, s'indurisce (da 1 a 7 secondo la scala Mohs di durezza) a causa della formazione di silice (cristobalite) ed enstatite (silicato anidro di magnesio).
Per produrre i sigilli, la roccia di steatite era tagliata e poi spesso ricoperta di pasta. Hedge (1982) ha ipotizzato che il metodo di lavorazione delle microperline cave di steatite fosse il seguente: "Una pasta di steatite di aspetto simile al talco finemente triturata era probabilmente compressa attraverso perforazioni di 1 mm di diametro che avevano fili di 0,5 mm di diametro di rame o bronzo nel centro per produrre tubi cavi. Questi erano poi tagliati in piccoli pezzi, fatti seccare e induriti con una cottura a temperatura maggiore di 900 °C".
Gli harappani utilizzavano vari ornamenti d'oro. Un uso frequente dell'argento fu limitato alla tarda età harappana; il piombo era impiegato per i pesi e anche per ottenere un miglior risultato nella fusione del rame. La tecnologia del rame è naturalmente la più degna di nota. L'arsenico, lo stagno e il nichel erano usati per amalgamare il rame, ma le loro fonti sono difficili da localizzare. Tra i campioni archeologici si hanno löllingite e scarti di bronzo (fonte di stagno). Agrawal (1971, 1984) ha analizzato 117 manufatti di rame, tra i quali l'8% conteneva arsenico e il 4% nichel. Soltanto il 30% conteneva dello stagno; il 20% dei manufatti analizzati conteneva l'8-12% di stagno, e ciò suggerisce una certa standardizzazione nel processo di alligazione.
Il repertorio harappano di attrezzi comprende rasoi, coltelli, scalpelli, sottili punte di freccia e di lancia, asce e ami. L'esame metallografico dei manufatti ha mostrato che gli harappani conoscevano il raffreddamento lento della fusione, ricottura e lavorazione a freddo, e così via; conoscevano anche il sistema 'a cera persa', come è mostrato dalle statuette di 'danzatrici' provenienti da Mohenjo-Daro.
La natura locale dell'industria harappana del rame è stata accuratamente indagata. Agrawal (1971, 1984) ha formulato una correlazione molto utile tra minerali e manufatti; egli ha ipotizzato che il celt di Chanhu-Daro e le punte di lancia di Mohenjo-Daro fossero di calcopirite di Khetri, poiché tutti e tre contengono tracce di antimonio e di piombo, ma non ferro e arsenico. K.T.M. Hedge eseguì l'analisi spettrografica di due campioni di oggetti di rame (un'ascia e una lastra) provenienti dal sito tardo-harappano di Ahar e del rame di Khetri; questi campioni mostrano tracce di elementi quali piombo, nichel, cobalto, ferro, manganese, zinco, ecc., e assenza di elementi quali oro, argento e stagno. Questa correlazione positiva minerali-manufatti suggerisce che il metallo di Ahar possa essere fatto dei minerali di Khetri, sebbene le prove addotte non possano essere considerate definitive. Per avere dati conclusivi sulla tecnologia locale, sarà necessario cercare miniere, unità di produzione metallurgica, manufatti a diversi stadi di lavorazione, cumuli di scorie e indagare la correlazione tra scorie e minerali. Fortunatamente molte testimonianze relative alla metallurgia locale sono state ricavate da Mehrgarh, Ganeshwar-Jodhpur, Chanhu-Daro, Ahar, Khetri (per il rame), Atranjikhera, Ujjain (per il ferro), Zawar (per lo zinco), ecc. Ad Ahar, per esempio, sono stati trovati cumuli di scorie che sono stati in seguito analizzati.
Quanto al periodo di transizione tra l'età di Harappa e l'epoca storica, e precisamente il periodo che va dal 2000 all'800 a.C., vari esperti hanno sostenuto che il crollo della civiltà harappana non fu dovuto a un'invasione dall'esterno, ma a ripetute inondazioni, a movimenti tettonici che portarono al disseccamento e alla scomparsa del fiume Sarasvatī, alla guerra civile e al crollo del commercio. Gli harappani si spostarono pertanto a est e a sud in cerca di riserve d'acqua durevoli. Durante tale periodo di transizione s'incontrano due culture eneolitiche, quella del 'Cumulo di rame' nell'Est, che amalgamava il rame in specie con l'arsenico, e quella 'Peninsulare' nel Sud, che preferiva lo stagno e il piombo; grazie alla ricerca di nuovi materiali grezzi ed elementi per le leghe, tali culture realizzarono scoperte casuali. Il sito post-harappano di Rangpur (Gujarat), datato 2000-1300 a.C., mostra oggetti di rame contenenti una piccola quantità di nichel: un celt contiene il 2,1% di nichel e un chiodo il 5,88%. Il nichel di questi campioni è probabilmente derivato dal minerale di Rupavati nelle vicinanze, non apparendo come un'aggiunta intenzionale.
Anche la storia dell'utilizzazione dello zinco ha inizio in questo periodo. Non si può escludere che il più antico esempio di ottone al mondo appartenga al sito harappano di Lothal; 4189 oggetti di rame appartenenti a Lothal (1500 a.C.) contengono il 6,04% di zinco. Il sito harappano di Rosdi mostra una produzione di scalpelli, celt, aste e braccialetti costituiti sino all'1,54% da zinco. Una parte di carro proveniente dal sito di Dwarka (1500 a.C. ca.) contiene, insieme con il rame, il 10,68% di zinco, l'1,32% di piombo e lo 0,43% di ferro. Nel sito dell'Età del ferro di Atranjikhera (1000 a.C. ca.) sono stati rinvenuti due oggetti di lega di rame pesante: uno contiene il 6,28% di zinco e l'11,68% di stagno, l'altro il 16,20% di zinco e il 20,72% di stagno.
Nel Ṛgveda (Veda degli inni) traspare la transizione dall'Età neolitica all'Età eneolitica; vi è menzionato un attrezzo per tagliare la pietra (Ṛgveda I, 191, 15); si parla di Kārmāra, in origine un tagliapietre (ibidem, IX, 112, 2), che gradualmente divenne un fabbro; si accenna al vāśī, un'ascia con una superficie piatta e un bordo inclinato il cui equivalente moderno è la basulā (in hindi) del falegname. Inoltre, se il passo del Ṛgveda X, 101, 10, si riferisce a una aśmanmayī vāśī, o 'ascia di pietra', il passo VIII, 29, 3, contiene l'espressione vāśīm āyasīm, o 'ascia metallica'.
In questo testo si riscontra anche un certo interesse per lo scavo e le miniere (khanitra), l'estrazione di tesori (nidhi) e di gemme (maṇi, ratna), e così via. Anche le conchiglie (śaṅkha) e la madreperla (kṛśana) erano alquanto apprezzate.
Ayas nel Ṛgveda significa 'metallo' in generale; āyasī, gli 'equipaggiamenti metallici', che nell'era ṛgvedica erano probabilmente di rame e di leghe di rame come il bronzo. Oro e argento sono nominati come tali, ma non è noto se fossero considerati metalli; la letteratura vedica descrive comunque vari manufatti di rame e di bronzo, e ornamenti d'oro e d'argento. Il Ṛgveda (V, 9, 5) definisce inoltre il fuoco come 'una culla di gemme' che fonde l'oro, e descrive il soffiatore (dhmātṛ) o il fabbro che soffia per produrre una fiamma intensa in una fornace. In seguito, lo Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri; I, 1, 2, 7; I, 6, 3, 16) introduce il termine bhastrā per indicare il mantice di cuoio usato per soffiare aria nella fornace.
Lo Śuklayajurveda (Veda bianco delle formule sacrificali) fu probabilmente la prima opera indiana a menzionare il metallo nero (śyāmāyasa o kṛṣṇāyasa), vale a dire il 'ferro'; vi troviamo anche menzione del loha o 'rame', del sīsaka o 'piombo', del trapu o 'stagno' (Śuklayajurveda, 18.13). La Chāndogyopaniṣad (Upaniṣad dei cantori; VI, 1, 5-6) riconosce che i metalli sono dotati di alcune proprietà intrinseche indipendenti dalle forme che essi possono assumere; afferma inoltre che è possibile saldare l'oro con l'aiuto del borace, il piombo con l'aiuto dello stagno, e così via (ibidem, IV, 17, 7).
Nell'Atharvaveda (Veda degli Atharvan; IV, 10, 1-7) è contenuta una discussione sulla genesi della conchiglia e della perla. Lo Śatapathabrāhmaṇa (VI, 1, 3, 1-5) propone anche una teoria dell'evoluzione della materia.
La Chāndogyopaniṣad riporta che Uddālaka Āruṇi, il quale potrebbe essere vissuto nell'VIII sec. a.C., ipotizzò che ogni cosa nell'Universo si fosse evoluta a partire da tre elementi e che anche la mente fosse un prodotto della materia; dunque, se si ammette la storicità di questa figura, avrebbe preceduto Talete di quasi due secoli. Ancora la Chāndogyopaniṣad (VII, 1, 2) nomina varie discipline quali la matematica (rāśi), la fisica (bhūtavidyā) e la mineralogia (nidhi).
La datazione dei più antichi siti indiani dell'Età del ferro mostra che la scoperta e l'uso di questo materiale iniziarono attorno al 1200 a.C. in almeno tre centri indipendenti: il Karnataka nel Sud, l'Uttar Pradesh e il Rajasthan nel Nord, il Bengala occidentale e il Bihar nel Nord-est. Le prove che sono state rinvenute di antichi esperimenti corroborano la teoria dell'origine indigena. Poiché il ferro non poteva essere fuso facilmente in uno stampo, la carburizzazione di sottili lamine di ferro nel fuoco di carbone e la successiva laminazione e saldatura per forgiatura di strati alterni di lamine non carburizzate e carburizzate si sono dimostrate una eccezionale e utile scoperta indiana, assai anteriore all'era del coltello laminato egizio (900-800 a.C.).
La prima testimonianza d'indurimento mediante la tempra e della struttura martensitica (caratteristica dell'acciaio) così ottenuta è fornita da un falcetto di ferro del III millennio proveniente da Pandu Rajar Dhibi (Bengala occidentale). I modelli di strumenti di ferro continuarono, con il tempo, a evolversi. Prakash e Tripathi (1986) dividono il periodo d'evoluzione in tre fasi: dal 1200 al 600 a.C. (I fase), dal 600 al 100 a.C. (II fase), dal 100 a.C. al 600 d.C. (III fase). La meravigliosa colonna di ferro saldato di Delhi, della quale si parla più avanti, fu eretta da Candragupta Vikramāditya (375-413 d.C.); la sua stupefacente resistenza alla corrosione è dovuta sia alla composizione chimica sia ‒ e forse soprattutto ‒ a una pellicola protettiva formatasi sulla superficie durante la saldatura.
Miniere, gemme e minerali
Nel subcontinente indiano la prima urbanizzazione ebbe luogo durante l'età harappana, e la seconda dopo un millennio, ossia durante il periodo storico iniziato attorno all'800 a.C. Non è esatto affermare che in India l'Età del ferro abbia dato origine alla seconda urbanizzazione; piuttosto, la seconda urbanizzazione affrettò il progresso dell'Età del ferro, cui fece seguito l'Età del ferro carburizzato e dell'acciaio. L'urbanizzazione e il progresso tecnologico furono invece determinati dalla crescita del commercio e dei legami culturali con il mondo esterno, che prese forza nel subcontinente attorno all'800 a.C.
Una caratteristica distintiva di questa seconda urbanizzazione fu il profondo interesse della società per l'estrazione di materiali dal sottosuolo e la metallurgia, vale a dire per i minerali, le gemme e i metalli. Sebbene si tratti di un testo grammaticale, l'Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli) di Pāṇini contiene molti termini legati alla tecnologia dei materiali. Vi sono menzionate la scoperta (upajñā) e le sue applicazioni (upakrama); si fa riferimento, inoltre, alle miniere (khani) e al loro prodotto, il minerale (khanija). Il forno di fusione è denominato pūtigandhi, dal cattivo olezzo (gandhi) a causa del biossido di zolfo che è uno dei prodotti gassosi del forno di depurazione (pūti). La scoria è detta pūtikiṭṭa, cioè residuo (kiṭṭa) del sistema di depurazione. Bahubhastrikā è il forno dai molti (bahu) mantici (bhastrikā). Sattva ('essenza') significa metallo, poiché questo è l'essenza dei minerali metalliferi.
Sebbene si occupi fondamentalmente di economia politica, l'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) di Kauṭilya è anche un notevole compendio sull'estrazione e sulla metallurgia, in esso sono trattati vari temi: la gestione di miniere, le vene di minerali e pietre preziose, l'oro, l'argento, il rame e le relative leghe e la fabbricazione di manufatti metallici. L'autore dell'Arthaśāstra classifica le pietre preziose sulla base del colore e della brillantezza: quarzo incolore, diamante, berillo o vaidūrya verde (già nominato da Pāṇini), zaffiro blu, rubino rosso (padmarāga o 'loto rosso'), topazio o puṣyarāga (giallo curcuma), bālasūryaka o lapislazzuli rosso cremisi, ecc. Il nome 'berillo' stesso deriva dal sanscrito vaidūrya, o meglio dal termine dravidico veḷuriya. Pāṇini nell'Aṣṭādhyāyī (4.3.84) menziona il fatto che il minerale proveniva dalla località di Vidura (lett. 'lontano'), nell'India meridionale, e che quindi poteva essere definito con il derivato vaidūrya. Vidura è stato identificato con l'attuale distretto di Salem. Il berillo che era esportato a Roma proveniva dalle miniere di Coimbatore (Tamil Nadu). Nei testi pāli il minerale era noto come veḷuriya e questa parola dravidica era fatta derivare da veḷ ('bianca') ur ('città'), ossia il luogo che forniva i cristalli bianchi di quarzo cristallino e calcedonio, e anche il berillo (che è pure incolore, quando non contiene impurità come ferro e cromo, che ne fanno il popolare berillo verde). In arabo e in persiano questo significato originale è mantenuto, infatti, billawr designa un cristallo bianco come il quarzo. Al di fuori dell'India, il veḷuriya verde era noto come bērýllos in greco e beryllus in latino; il medio alto germanico brille designava l'occhiale verde che l'imperatore Nerone era solito utilizzare. La quantità maggiore di monete romane è stata rinvenuta in India nel distretto di Coimbatore, e ciò prova l'intenso commercio indo-romano di quarzo e gemme di berillo.
L'era dei Nanda e dei Maurya (V-II sec. a.C.) fu un periodo di fioritura per la mineralogia e la metallurgia in India: ciò è testimoniato non soltanto dagli scritti di Pāṇini e Kauṭilya, ma anche dalle scoperte archeologiche di Tassila. Situata a nord di Rawalpindi, in Pakistan, questa località mostra le tracce di una lunga e intensa civilizzazione, proseguita dal 500 a.C. al 400 d.C. e cioè dall'era dei Nanda e dei Maurya all'era dei Gupta.
A Tassila sono stati ritrovati gioielli d'oro e d'argento, pietre preziose, intarsi, incisioni, monete di metallo e perline.
Per la fabbricazione delle perline i principali minerali utilizzati erano corniola, agata, quarzo, malachite, lapislazzuli, granato, diaspro, ecc.; evidentemente, il lapislazzuli continuava a essere importato, la corniola era prodotta localmente, e il berillo era esportato. Anche le perline di conchiglia e di terracotta erano piuttosto comuni; quelle di vetro sono di diciassette colori, tra i quali ricorrono maggiormente il verde e il blu; presumibilmente si trattava d'imitazioni del berillo e del lapislazzuli.
Nel sito di Tassila è stato rinvenuto un ampio numero di manufatti di ferro e di rame, sia puri sia di lega; i principali elementi utilizzati per l'alligazione erano stagno, piombo, antimonio, nichel e zinco; tracce di ferro e di arsenico sono presenti nel rame quali impurità. Tassila produceva lega di saldatura contenente il 50% di piombo, il 46% di stagno e il 3% di rame; l'1% ca. di antimonio in vari campioni di rame non fa pensare a una alligazione volontaria. Con ogni probabilità era utilizzato il minerale di rame ricco di antimonio di Badakshan, Balkh e Kabul; questo tipo di minerale era anche all'origine del vetro bianco opaco di Tassila (5,08% di Sb2O3) e della polvere blu di turchese (2,42% di Sb2O3; 3,6% di CuO). Durante il periodo medievale, il solfuro di antimonio di questa regione fu utilizzato in una lega khārsini ad alto contenuto di antimonio. A Tassila la lega di 'rame bianco' (nota come bai dong in Cina e packtong in Europa), nei campioni dell'inizio del III sec. a.C., conteneva nichel nella misura del 9%, e successivamente nella percentuale piuttosto costante del 19-21%. Questa lega duttile era molto apprezzata per la sua brillantezza argentea e utilizzata per l'oreficeria, il conio, ecc. La presenza di antimonio e nichel nei manufatti di rame di Tassila testimonia, inoltre, i contatti commerciali con Afghanistan e Cina.
Si è già detto dell'ottone a Lothal, Dwarka e Atranjikhera; l'India continuò a produrre questo materiale mediante la cementazione, e precisamente attraverso la riduzione simultanea del minerale di rame e zinco nel medesimo forno. Dal momento che l'ossido di zinco è facilmente riducibile alla temperatura usuale del forno di fusione, lo zinco metallico è prodotto allo stato di vapore, poiché ha un basso punto di ebollizione, ossia 917 °C. I vapori di zinco sono dunque assorbiti nel rame in modo tale da produrre l'ottone di cementazione.
Con vari esperimenti si è provato che il processo di cementazione non può dare più del 28% di zinco. Non si può ignorare, pertanto, l'eccezionale importanza del vaso rinvenuto nel tumulo di Bhir a Tassila e datato IV sec. a.C., che fu quindi fabbricato prima dell'arrivo dei Greci in India. Questo campione di bronzo contiene il 34,34% di zinco (molto più della misura critica del 28%), oltre a una certa quantità di stagno e di piombo. Il campione deve essere stato fabbricato tramite il mescolamento di zinco puro e di rame puro, e fornisce una testimonianza incontrovertibile della presenza di zinco metallico nel IV sec. a.C. È dunque accertato che fu per prima l'India a ottenere lo zinco metallico (rasaka) attraverso un processo di distillazione analogo a quello praticato per il mercurio metallico (rasa). Gli antichi Persiani tentarono invano di ridurre l'ossido di zinco in un forno aperto, giacché il vapore di zinco ridotto reagiva rapidamente con l'aria dando origine a polvere bianca di ossido di zinco. Gli Indiani scoprirono empiricamente l'arte della riduzione e condensazione del vapore di zinco in una storta chiusa (in merito alla consolidata metallurgia indiana dello zinco, v. oltre: par. 7).
L'antica miniera di minerale di zinco a Zawar, 30 km a sud-est di Udaipur, ha restituito legname datato 430±100 e 380±50 a.C. (attraverso il metodo del 14C). L. Willies (1989) ha fornito una vivida descrizione delle antiche miniere di zinco del Rajasthan, in specie di quella di Zawar Mala, dove Hedge ha identificato molti vasi a forma di pera della capacità di 5 l risalenti all'ultimo quarto del I millennio a.C.
Sembra che i Greci abbiano riportato nel loro paese campioni di zinco indiano; infatti, nel corso degli scavi dell'agorà di Atene, un rotolo di lamina di zinco fu trovato in un deposito sigillato e fu datato III-II sec. a.C.; l'analisi mostrò che si trattava di zinco quasi puro, con l'1,3% di piombo, lo 0,06% di cadmio, lo 0,016% di ferro, lo 0,005% di rame e tracce di manganese, magnesio, stagno, argento e antimonio. Poiché è accertato che i Greci non produssero nulla di simile durante il III-II sec. a.C., molto probabilmente essi trasportarono tale materiale dall'India, che fu l'unico paese al mondo a produrre, a partire dal IV sec. a.C., zinco puro e ottone ad alto contenuto di zinco.
La scienza delle gemme iniziò in India con l'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) di Kauṭilya, benché non manchino riferimenti ad autori piū antichi quali Mahākāla o Vyāḍi. Il commercio indo-romano fiorì con l'inizio dell'era cristiana e continuò a prosperare nei secoli seguenti; anche a seguito di questo commercio, in India furono redatte varie opere sul ratnaśāstra ('scienza delle gemme'). Il testo tamil Śilappadikaram risale al II sec. d.C.; assai rilevanti sono la Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta) di Varāhamihira e la Ratnaparīkṣā (Esame delle gemme) di Buddhabhaṭṭa, ambedue del V sec.; una produzione significativa sull'argomento proseguì sino al XIII secolo.
Gli antichi Indiani erano attratti sia dalla brillantezza sia dal colore delle pietre preziose, e proprio sulla base del colore ne tentarono una classificazione. Questo procedimento causò una certa confusione, giacché due pietre dalla composizione completamente diversa potevano avere il medesimo colore; fu perciò introdotto il criterio della durezza relativa. Anche il peso specifico fu riconosciuto come un'importante proprietà delle gemme. Era inoltre conosciuto il dicroismo, ossia la proprietà di talune pietre trasparenti di mostrare due differenti colori, allorché guardate da direzioni perpendicolari. Venne osservata anche la birifrangenza (dvicchāyā) di minerali come la calcite. Gli Indiani lavorarono un'ampia varietà di pietre a partire dal diamante, la pietra più dura (10 nella scala di Mohs), per continuare con il corindone (9), il talco (1), la perla, e così via.
Le miniere indiane di diamanti furono oggetto di indagine nei testi del ratnaśāstra; la letteratura più antica fa riferimento agli ākara ('miniere di diamanti') e ad ākarāvanti, espressione derivata dal nome della città mineraria di Avantī. Le proprietà cristalline del diamante erano state osservate: 8 sfaccettature simmetriche (samaphalaka), 12 spigoli acuti (dhārā), 6 angoli solidi (koṇa), ecc. (Rayaṇaparikkhā; Finot 1896). I diamanti erano classificati in termini di trasparenza, colore e 'casta'. Il prezzo di un cristallo era approssimativamente proporzionale al cubo della massa o della dimensione.
Sia il diamante sia la polvere di corindone erano ampiamente usati come abrasivi; il corindone fu usato per levigare i pilastri di arenaria di Aśoka ed esportato a Roma per il taglio del marmo e la levigatura delle gemme. Il reticolo puro dell'ossido di alluminio (Al2O3) corrisponde al kuruvinda ('corindone') incolore; alcune sostituzioni nel reticolo con il cromo lo rendono padmarāga rosso ('rubino'); il ferro o il titanio nel reticolo lo rendono indranīla blu ('zaffiro'). La sostituzione abbassa in certa misura l'energia libera di superficie e la durezza. Sebbene questa teoria non fosse nota, Buddhabhaṭṭa (Ratnaparīkṣā) osservò correttamente che il corindone è leggermente più duro del rubino e dello zaffiro. Lo zaffiro che presenta asterismo è iridescente perché riflette la luce dalla superficie di cavità tubolari microscopiche: l'Arthaśāstra (II, 11, 31) descrive questo fenomeno con il termine śravanmadhya.
I Romani erano affascinati dalle merci indiane come il berillo e il quarzo, e dal gruppo di pietre di calcedonio come la corniola, l'agata e, soprattutto, dalla gemma delle gemme, vale a dire la perla d'ostrica indiana. Esistevano elaborate procedure di controllo della buona qualità delle perle; questo implicava il riscaldamento dei campioni in liquidi specifici e il lavaggio e lo sfregamento con stoffa, operazioni mediante le quali si rimuoveva la brillantezza delle perle di qualità inferiore. Le perle piccole erano valutate sulla base del peso di ampie raccolte, quelle più grandi erano valutate individualmente, come nel caso dei diamanti. Le collane di perle indiane, i cui nomi mutavano a seconda della grande varietà di fogge, erano apprezzate in tutto il mondo. Kauṭilya e Megastene testimoniarono che gli Indiani esportavano perle e importavano corallo. Plinio il Vecchio osservò (Naturalis historia, 32, 11) con una certa sorpresa che il corallo rosso, non particolarmente richiesto nell'Impero romano, era apprezzato in India quanto la perla bianca a Roma. Egli si dilunga nella descrizione di quanto le perle indiane fossero adorate dalle donne romane.
I centri di commercio indiani funzionavano da canali della diffusione di pietre preziose non soltanto indiane: rubini, zaffiri, zirconi e tormaline provenivano da Sri Lanka, la callaina o turchese dalla "parte posteriore dell'India" (Plinio non sapeva dunque che proveniva dal Khorasan, in Persia).
La maggior parte degli autori dei testi del ratnaśāstra meditò sull'origine delle pietre preziose; essi generalmente condivisero la teoria mitologica secondo la quale esse derivavano dal cadavere del demone Bala. Nella sua Bṛhatsaṃhitā, Varāhamihira suggerì una spiegazione più scientifica secondo la quale le pietre preziose erano il frutto delle "qualità caratteristiche della Terra". Tale idea non fu seriamente presa in considerazione, poiché gli esperti indiani tendevano generalmente a collegare la scienza delle pietre preziose all'astrologia e alla divinazione.
L'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) descriveva sia le pietre preziose sia altri minerali, come anche i metalli e le leghe. Nell'era cristiana i testi del ratnaśāstra trattarono esclusivamente le pietre preziose (ratna), mentre gli altri argomenti furono lasciati al rasaśāstra ('alchimia'). L'Arthaśāstra usa il vocabolo rasapāka per designare la fusione di metalli che ha come prodotto un liquido (rasa). Questo argomento era già stato affrontato dagli esperti di medicina come Caraka, i quali ricercavano il rasa ideale, ossia l'elisir che avrebbe potuto prolungare indefinitamente la vita. Essi credevano nel valore terapeutico di sostanze sia organiche sia inorganiche, come i metalli e i composti metallici; aspiravano inoltre a convertire i metalli vili in oro. Questo sogno alchimistico fu alimentato da Nāgārjuna, il quale affermò nel Rasaratnākara che il minerale di zinco, arrostito per tre volte con il rame, converte quest'ultimo in 'oro' (ottone, in realtà).
Numerosi testi redatti tra il VII e il XIII sec. d.C., il cosiddetto periodo tantrico, inseguivano il sogno alchimistico. La farmacologia hindu continuò a progredire per altri tre secoli, che rappresentano il periodo iatrochimico; essa abbandonò poi le aspirazioni alchimistiche e si concentrò in particolare sulle medicine derivate da minerali e metalli.
Il Rasārṇava (Oceano dell'elemento essenziale), testo risalente al XII sec., descrive vari apparati, crogioli, forni, ecc. per la lavorazione di minerali e metalli; vi si afferma che le fiamme sono colorate a causa dei sali di rame, stagno, piombo, ecc. (Rasārṇava, 49). Sono descritti i procedimenti per ottenere il metallo dal mākṣika (ibidem, 7, 12-13) e dal vimala (ibidem, 7, 20-21), ossia piriti contenenti rame, e dal sasyaka (ibidem, 7, 41-44), il solfato di rame; si formula poi la stupefacente osservazione che tutti e tre i prodotti sembrano essere identici e consistere in tāmra, cioè rame. Nel V sec. d.C. Praśastapāda aveva sostenuto nel suo Padārthadharmasaṅgraha (Sintesi delle proprietà delle categorie) che gli atomi (aṇu) formano, attraverso diadi (dvyāṇuka) e triadi (tryāṇuka), corpi grossi (che attualmente si definirebbero molecole) e che "questo dà origine a diverse qualità nelle sostanze".
Il Rasārṇava (7, 89-90) elenca sei metalli: oro, argento, rame, ferro, stagno e piombo, in ordine crescente di suscettibilità alla corrosione; descrive quindi poeticamente l'alta reattività dello zolfo con la maggior parte dei metalli: "Non c'è un tale elefante del metallo che non possa essere ucciso dal leone dello zolfo" (7, 142).
Il Rasaratnasamuccaya (Summa dei gioielli delle essenze, XIII-XIV sec.) mostra un ulteriore progresso nella tradizione del rasaśāstra; il testo riporta molti dettagli sulle pietre preziose, sui minerali, sui metalli, sulle leghe, sull'ossidoriduzione nei sistemi minerale-metallo-ossido metallico, sulla conversione in solfuri, ecc. Si descrivono complesse operazioni per la conversione di minerali in medicine accettabili dal corpo, quali la purificazione del minerale, l'estrazione del metallo, la liquefazione, la distillazione, l'incenerimento, ecc. Il testo contiene inoltre la descrizione di diversi tipi di crogioli fatti di argilla refrattaria (vahnimṛttikā), forni, utensili e attrezzature da usare in laboratorio. Esso definisce poi i concetti di lega o metallo misto (miśra loha o yukta) e trattamento termico attraverso la tempra (śastrapāna); menziona leghe di cinque metalli (pañcaloha) od otto metalli (aṣṭadhātu) soprattutto per la fabbricazione di icone utilizzate per gli auspici.
Tra i minerali non preziosi e i prodotti naturali sono elencati cinabro, calomelano, antimonite, orpimento, realgar (in molti casi importati in virtù del loro valore medico). Sono ricordati, inoltre, mica, piriti, calcopiriti, vari minerali di zinco, sostanze corrosive come allume, vetriolo verde e blu (solfato ferroso e solfato di rame), borace (un fondente), sali come culikā lavaṇa ('cloruro di potassio'), sorā ('nitrato di potassio'), srotāñjana o sohtā ('carrollite', che è un solfuro di rame-cobalto), ocra rossa, e così via. Essi avevano nomi sanscriti ben precisi; per alcune delle pietre preziose l'India adottò i nomi arabi e persiani.
La tecnologia dello zinco raggiunse uno stadio elevato soprattutto nel Regno hindu di Udaipur con il XIII secolo. Gli scavi di Zawar hanno rivelato un vasto sistema di forni con storte lunghe 30-35 cm, il cui diametro è di 10-15 cm. Vi erano 36 storte in una disposizione di 6×6 contenute entro le piramidi tronche di ciascun forno. Esse erano sorrette verticalmente su mattoni perforati attraverso i quali i tubi dei refrigeranti passavano nei più freddi collettori di zinco sottostanti. Questa disposizione di storte per la distillazione secondo la quale l'unità di condensazione è posta al di sotto è descritta nel Rasaratnasamuccaya (Summa dei gioielli delle essenze; 2, 157-166; 9, 48-50). Le storte somiglianti a melanzane di Zawar sono poi simili alla vṛntākamūṣā, ancora descritta nel Rasaratnasamuccaya (10, 22-23).
La sfalerite con dolomite e quarzo impuri era estratta, frantumata, polverizzata e mischiata con una piccola quantità di sale comune e una grande quantità di sostanza carboniosa. Il prodotto era caricato nelle storte (circa 1,5 kg per storta), preparato con i tubi del condensatore a forma di imbuto, e riscaldato esternamente, possibilmente a 1250 °C per sei ore. Il vapore di zinco ridotto veniva condensato e successivamente raccolto. È probabile che per ogni storta si ottenessero 200-500 g di zinco, o 7-18 kg a ogni fusione di 36 storte. Una parte di ossido di zinco era convertita in fasi di silicato ben identificate e non poteva perciò essere recuperata come metallo ridotto.
Esistono ora 800.000 t di detriti a Zawar, che contengono 600.000 t di storte consumate, ciascuna storta pesa 3 kg ca. e può aver prodotto 500 g di zinco. Si stima pertanto che a Zawar siano state prodotte 100.000 t di zinco durante un periodo che va dal XIII sec. al XVIII sec. d.C.
Questa tecnologia si estinse alla fine del XVIII sec. a causa delle ripetute invasioni dei Maratti. Durante gli anni che vanno dal 1720 al 1743 vi fu un trasferimento di tecnologia da Zawar a Bristol. Si sostiene infatti che alcuni inglesi visitarono Zawar e che il procedimento seguito da William Champion, nel 1743, "fosse molto vicino nei dettagli al procedimento indiano di Zawar"; si nota inoltre come questo trasferimento di tecnologia fosse "un sorprendente esempio di continuità e della natura reciproca dello sviluppo scientifico e tecnologico nel mondo" (Craddock 1985).
La tecnologia di Zawar è stata mantenuta segreta; Abū 'l-Fażl della corte di Akbar non sapeva nulla dei dettagli. Ancora nel 1751 il Dictionary of Trade and Commerce di Postlewayt ammetteva la sua ignoranza circa la tecnologia dello zinco. Mentre il resto del mondo produceva ottone attraverso la cementazione, che non permetteva di ottenere più del 28% di zinco, solo in India si produceva ottone ad alto contenuto di questo elemento. Gli artigiani di Bidar (a 83 km da Hyderabad) produssero durante il XV sec. la lega bidrī, che conteneva ben il 76-98% di zinco, il 2-10% di rame, talvolta l'1-8% di piombo, l'1-5% di stagno e tracce di ferro. I vasi realizzati in lega bidrī erano scuriti con l'applicazione di una pasta di cloruro di ammonio, nitrato di potassio, cloruro di sodio e solfato di rame. La composizione precisa della patina amorfa nera non è nota, tuttavia il microscopio a scansione elettronica rivela che la superficie, spessa 10 µm, contiene il 30% di rame in contrasto con il 3% contenuto dalla massa. Prima di questo procedimento di scurimento sul vaso era inciso un disegno appropriato, e su questo erano intarsiati o incrostati argento, ottone oppure oro. Dopo lo scurimento, la lavatura e la lucidatura, l'oggetto ‒ un hugga, una brocca, una ciotola o una scatola per il pān ‒ appariva come un corpo nero denso e lucido che contrastava con l'interno e l'intarsio più brillanti, sia bianchi (argento), sia gialli (ottone od oro).
Le informazioni generali su scienza e tecnologia in India durante il periodo musulmano sono assai scarse. La maggior parte delle notizie utili sull'India premoderna deriva dagli scritti degli osservatori inglesi del XVIII-XIX secolo.
Sappiamo dell'abbondanza di pietre preziose nell'India medievale grazie al resoconto del bottino di 'Alā᾽ al-Dīn Ḫalǧī in India meridionale (1310-1312 d.C.) e della sua collezione di pietre preziose fornita da Amīr Ḫusrō nel suo Ḫazā᾽in al-futūḥ (Tesori di vittoria) e da ṭhakkura Pheru (n. 1270) nel suo Rayaṇaparikkhā.
Vi erano in India cinque gruppi di miniere di diamanti: il gruppo di Cuddapah sul fiume Pennar, i gruppi di Nandial, Ellore o Golconda sulla Krishna, Sambalpur sulla Mahanadi e il famoso gruppo di Panna nel Bundelkhand. N. Dutt (1953) enumera le varie ragioni cui è imputabile il declino dell'industria indiana del diamante: esaurimento delle vene diamantifere, problemi d'acqua negli scavi, natura oppressiva dell'amministrazione politica e mineraria, mancanza di programmazione, superstizione tra i minatori e scoperta di giacimenti in altre parti del mondo (come in Brasile nel 1728).
L'azione di separazione di materiali di densità differenti o di concentrazione in velo liquido lungo le anse dei fiumi indiani aveva determinato depositi, nei secoli, di minerali pesanti quali i diamanti e l'oro; solo gli sforzi delle masse di lavoratori hanno purificato le materie preziose attraverso ingenti fatiche. Ouseley pubblicò (1839) una nota sul processo di lavaggio per la polvere d'oro e i diamanti a Hirakund (nome che significa, alla lettera, 'miniera di diamanti') sul fiume Mahanadi vicino a Sambalpur. Egli descrisse il processo manuale e suggerì una meccanizzazione che utilizzasse setacciatura, disposizione tramite gravità e separazione su tavola a scossa, artifici che non erano mai stati usati nell'India medievale.
Le riserve di sale in Panjab sono state sfruttate per secoli: le cave principali si trovavano a Bhaur Khel, Malgin, Jatta, ecc. Le miniere della Salt Range come quelle vicino a Pind-Dadan-Khan, 160 km ca. a nord-ovest di Lahore, erano sfruttate da tempo immemorabile.
Reh è il termine indiano usato per indicare i sali efflorescenti accumulati nell'acqua del suolo e del sottosuolo in ampie zone del paese. I principali costituenti negli esempi di reh provenienti da Moradabad, Meerut, Kanpur, ecc. e nell'acqua madre del lago di Sambhar e nel lago di Lonar consistevano d'incrostazioni di carbonato di sodio (Na2CO3), di bicarbonato di sodio (NaHCO3), di cloruro di sodio (NaCl) e di solfato di sodio (Na2SO4). Il campione di Lonar conteneva inoltre il 4-10% di ossido di potassio (K2O) e i miscugli grezzi erano lisciviati e concentrati. I prodotti finali alimentavano molte industrie dell'India medievale, come quella della ceramica NBPW, del vetro, del sapone, dell'imbiancamento e della tintura, della lavorazione del cuoio, dei farmaci, ecc.
Il salnitro è un deposito biogeologico contenente non soltanto nitrato di potassio (KNO3), un importante costituente della polvere da sparo, ma anche nitrati di sodio e calcio oltre a vari cloruri. Dopo la lisciviazione, la filtrazione e l'evaporazione, il soluto veniva impiegato per l'acqua di raffreddamento. L'uso principale consisteva comunque nel raffinamento del salnitro. La cristallizzazione frazionata del nitrato di potassio (che a differenza di altri costituenti è non igroscopico) permise il suo uso nella polvere da sparo; questa tecnologia era utilizzata in India dagli Inglesi e dagli Olandesi. La fabbricazione del vetriolo blu (solfato di rame), dell'allume e del vetriolo verde o copparosa verde (solfato ferroso) da prodotti e residui dell'attività baterica fu largamente praticata in India.
Si è già menzionata l'estrazione del minerale di zinco nell'India antica e medievale. V. Ball (1881) ha registrato molti resoconti sulle miniere di piombo, rame e ferro; esistevano molte antiche miniere di piombo nell'India meridionale, in Afghanistan, Baluchistan e Rajasthan. Laddove i pozzi e le gallerie della miniera di Feringal in Afghanistan "testimoniavano un grado assai sorprendente di conoscenza mineraria", le miniere di piombo di Ajmer erano in cattivo stato: "il corso tortuoso della vena precludeva la praticabilità della rimozione dell'acqua di miniera" (Dixon 1831).
Esistono poi numerose miniere di rame molto antiche, che non sono state ancora datate con il metodo del 14C. Pheru e Abū᾽l-Fażl ῾Allāmī registrarono fusione di rame rispettivamente a Babbai e Singhana. Si ritiene che circa 6 milioni di t di minerale di rame siano state estratte nell'area di Khetri durante il periodo che va dal 1590 al 1895 e più di 100.000 t di rame devono essere state prodotte nello stesso periodo.
Ferro e acciaio al crogiolo
Fu Ball (1881) a registrare la diversità dei minerali di ferro estratti, purificati e lavorati dai fonditori dell'India premoderna. Nell'India medievale erano usati tre tipi di forni per la fusione: piccoli altoforni (alti 1,2-1,5 m), grandi altoforni (generalmente alti 3 m ca.) e letti di fusione aperti a forma di ciotola. Si ottenevano tre tipi di prodotti: acciaio grezzo saldato, ferro puro saldato e acciaio ad alto contenuto di carbonio lavorato in crogioli, ossia il wootz di cui parleremo poco più avanti. Il Rasaratnasamuccaya (Summa dei gioielli delle essenze; 5, 70-99) cita tre tipi di ferro: muṇḍa (acciaio saldato) che poteva essere kuṇṭa o kaḍāra, meno duttile e contenente del carbonio, kānta, magnetico od ottenuto dalla magnetite, tīkṣṇa, ferro o acciaio fuso negli stampi, il quale, di nuovo, era noto in sei varianti.
È probabile che vi siano state interazioni tra industrie indiane e industrie straniere del ferro e dell'acciaio durante il periodo dei Mughal. Alcuni dei forni per la produzione del ferro dell'India meridionale ricordano i forni di fusione Stückofen in Germania; non può essere esclusa un'influenza olandese nella forma di questo tipo di forni. Gli Olandesi erano consumatori e anche produttori (sulla costa dell'Orissa) di ferro e acciaio indiani. L'industria del ferro del Kathiawar disponeva di forni di foggia inusuale: "qualcosa di simile a un forno a riverbero", il cui sviluppo potrebbe essere stato coadiuvato da tecnici europei. Un'influenza cinese era evidente nell'Assam superiore, dove i fabbri utilizzavano apparati piuttosto diversi da quelli usati nel resto dell'India. Erano impiegate macchine soffiatrici ‒ cilindri soffiatori ad azione singola o doppia ‒ le quali facevano aumentare notevolmente la temperatura del forno alimentato a carbone.
B. Bronson (1986) è giunto alla conclusione che la produzione del wootz abbia avuto inizio non più tardi del II sec. d.C. Alcuni scavi hanno rivelato nel Tamil Nadu crogioli risalenti al 250 a.C. L'Arthaśāstra (Trattato sull'utile; II, 12, 23; II, 17, 14; III, 17, 8; IV, 1, 35) menziona più volte il vṛtta, che è il ferro cementato o acciaio. Vṛtta significa 'cerchio' e designa il crogiolo a sezione trasversale circolare nel quale il ferro saldato era fuso con il carbonio; la parola fu mutata in wootz nell'India meridionale (wuz in gujarati, ukku in telugu).
Esistevano due processi per la fabbricazione del wootz. Quello praticato nello Sri Lanka, Tamil Nadu e Karnataka consisteva semplicemente nel cementare il ferro saldato nei crogioli. I Persiani erano interessati al secondo tipo di lavorazione, praticato a Golconda o Konasamudram (Hyderabad) e descritto dettagliatamente da Voysey (1832). Quest'ultimo riferisce di un processo di co-fusione con il quale il ferro fuso "moderatamente compatto" di "frattura bianca brillante", probabilmente dotato di una percentuale di carbonio maggiore del 3%, era convertito in wootz (vari esempi di lingotti, lame, pugnali e spade) attraverso la sua fusione con il ferro saldato. Voysey osservò una fusione prolungata fino a 24 ore e tempre ripetute; ciò suggerisce che il prodotto finale non era semplicemente ferro cementato, ma una lama di acciaio malleabile "sufficientemente soffice da essere lavorato" come una spada damaschinata.
O.D. Sherby e J. Wadsworth (1985) hanno suggerito che gli agglomerati di wootz ad alto contenuto di carbonio fossero probabilmente forgiati a una temperatura non troppo alta, e precisamente tra 650 °C e 850 °C, e quindi sottoposti a un trattamento di raffreddamento, al fine di produrre la spada damaschinata. Essi hanno provato la loro ipotesi attraverso esperimenti di riproduzione. Ciò è anche confermato dalla vivace descrizione, databile al 1679, del viaggiatore francese Tavernier: "L'acciaio usato dai Persiani è portato da Golconda, ed è l'unico tipo di acciaio che può essere damaschinato [...], quando l'operaio lo mette nel fuoco, non ha che da farlo diventare rosso come una ciliegia; se egli dovesse dargli il medesimo calore che gli diamo noi, diverrebbe così duro che, lavorato, si romperebbe come vetro". Il fatto che caratterizza il wootz è la ricottura a una temperatura minore di 850 °C, che lo rende tanto duro quanto duttile. I tentativi effettuati da famosi scienziati quali Michael Faraday di riprodurre il wootz sono falliti, giacché la ricottura era eseguita a una temperatura maggiore.
Tre secoli prima di Tavernier, il Rasaratnasamuccaya (5, 75-82) descriveva vari tipi di acciaio (tīkṣṇa); pogaras fa riferimento a linee simili a capelli che potrebbero essere strisce di cementite; la varietà khara era friabile con "una superficie con fratture brillanti simili a mercurio" (ibidem, 5, 76); la varietà hṛnnāla era molto dura, e la varietà vajra era piena di duro pogaras. L'acciaio migliore era il kālāyasa: "nero bluastro, denso, levigato, pesante, luminoso con l'orlo affilato non rovinato dal martellamento". Questa descrizione è sufficientemente simile a quella delle spade d'acciaio damaschinate "di un colore blu opaco e con linee serpeggianti" (Sherby 1985), che hanno perline di cementite compresse e allungate in una matrice di perlite-grafite-martensite. L'eccellenza del wootz indiano fu attestata da un grande scienziato come Michael Faraday.
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