SCHEMATA (σχῆματα, gestus)
Senofonte (Mem., 3, 10) ci presenta Socrate a colloquio con Parrasio e con lo scultore Kleiton (Policleto?) e, parlando dell'arte; egli dimostra loro che il carattere e l'anima umana debbono necessariamente potersi esprimere in un'opera d'arte, perché si manifestano chiaramente negli atteggiamenti e nei gesti. Questo vale in modo particolare per i Greci, per i quali non solo la mimica, ma il corpo intero è espressione del mondo interiore, come dimostra d'altronde la rappresentazione scenica mediante le maschere. Il gesto è dato dalla posizione e dal movimento del corpo umano, che rispecchiano uno stato d'animo o una emozione interiore. Nell'arte antica si deve distinguere fra il gesto rituale, e quello libero e spontaneo; fra i primi molti furono ripresi dal Vicino Oriente e nobilitati via via sempre di più dai Greci, come mostra, ad esempio, il gesto di Astarte nell'Afrodite di Cnido (v. prassitele). Il gesto può interessare singole membra o tutto il corpo. Anche il gesto partecipa della tendenza dell'arte antica alla tipizzazione. La conoscenza del contenuto simbolico del gesto spesso rappresenta la chiave per decifrare un'opera. Ad esempio, l'arte arcaica era solita caratterizzare una divinità attraverso il suo attributo, mentre l'arte classica la distingue dagli altri abitatori dell'Olimpo per l'atteggiamento e il gesto.
I gesti della preghiera. - Al contrario di oggi, i gesti della preghiera sono molto numerosi. A seconda dell'epoca prevale l'uno o l'altro atteggiamento, in maggioranza già diffuso presso i popoli dell'antico Oriente. L'arte figurativa può riprodurre un attimo soltanto di una successione di movimenti, perché la preghiera aveva più fasi, fra queste gli artisti ne sceglievano una come momento particolarmente significativo. Sappiamo ad esempio degli antichi Egizî che durante la preghiera assumevano le più diverse posizioni (H. Bonnet, Reallexikon der ägyptischen Religionsgeschichte, s. v. Gebet).
Nella Creta minoica il gesto della preghiera aveva andamento danzante e nel rituale avevano probabilmente una importanza preponderante le danze sacre (come ha dimostrato il Matz). Nelle statuine del Medio Minoico spesso una o ambedue le braccia sono poggiate sul petto, e questo gesto compare sporadicamente ancora in epoca greca. Più frequente è l'atto di coprirsi gli occhi con la mano, perché la vista della divinità non può essere sopportata dall'uomo (cfr. E.A.A., ii, fig. 279); si tratta di un gesto molto importante per comprendere la religione cretese, che, pare, aveva come punto culminante la invocazione e la epifania della divinità. In alcune figure di sigilli tardominoici ambedue le braccia sono levate in alto in modo estatico, o sono protese lateralmente, come nel gesto dell'orante cristiano. E. Bielefeld ha trattato estesamente dei gesti di preghiera dei Greci. Sono straordinariamente varî, ma nelle rappresentazioni figurative di essi bisogna tenere conto del fatto che gli artisti deformavano gli atteggiamenti reali a seconda delle proprie intenzioni, e ciò è tanto più vero quanto più l'opera d'arte è valida. Così presso i Greci il gesto di adorazione più importante è un braccio levato in alto, più in alto e con più vigore nel periodo arcaico, in confronto a quello classico, quando si consideravano sufficientemente espressivi anche i gesti più contenuti (E.A.A., iv, fig. 935). Dalle testimonianze figurate non pare vi fosse differenza fra il sollevare la destra o la sinistra. Nella letteratura è detto: "pregare verso qualcuno" = τείνειν γεῖρά τινι (ad esempio Kallim., Hymn. Dem., 131); e già in accadico si dice per pregare "alzare le mani", ed abbiamo di questo innumeri esempi anche nell'arte (E.A.A., i, fig. 728, fig. 1195; iv, figg. 419; 1257; 1264; 1267). Alla invocazione della divinità compiuta con una mano sola si contrappone quella con le due mani levate (Sittl, 187, nota 1) πάντες οἱ ἄνϑρωποι ἀνατείνομεν τᾶς χεῖρας εἰς τὸν οὐρανὸν εὐχὰς ποιούμενοι. Si trova frequentemente sia in Egitto che nel Vicino Oriente, alla qual cosa probabilmente si riferisce la nostra fonte dicendo πάντερ οἱ ἄνϑρωποι.
Questa positura sembra fosse quella più frequente in epoca omerica, essendo usato il termine χείρας ἀναρχεῖν formalmente con il significato di pregare (ad esempio Il., vi, 257; Od., xx, 97). Le statuine dell'epoca geometrica e protoarcaica che presentano le braccia levate spesso ci lasciano dubbiosi se sia rappresentato un fedele nell'atto di pregare o una divinità nel gesto della epifania (v. oltre). Più tardi la preghiera con ambedue le braccia levate cadde via via in disuso, ma senza scomparire del tutto, come si deduce dalle sporadiche citazioni della letteratura (Pindar., Nem., 5, 11; Eurip., Hippol., 1190; Kall., Hymn. Del., 107), da pitture vascolari (E.A.A., iv, fig. 708) e da alcuni tipi statuarî di oranti femminili del V e IV sec. a. C. Th. Klauser ha dimostrato recentemente come queste statue trovassero utilizzazione nell'età imperiale romana dapprima come personificazione della ἐυσέβεια o Pietas, e più tardi acquistassero grandissima importanza come figura dell'orante nell'arte paleocristiana. Il fatto che i primi cristiani abbiano scelto nella molteplicità dei gesti pagani, proprio questo gesto per la loro adorazione, dipende forse dall'analogia con la figura del Cristo in croce (E.A.A., i, fig. 412; ii, fig. 591 ss.).
Soltanto molto raramente gli oranti appoggiano una delle mani, aperta o chiusa, sul petto, un gesto che era molto frequente nell'arte minoica. Con l'inizio del I millennio a. C. esso compare nei territorî periferici, come la Siria, Naucrati, Cipro, Creta ed in Etruria; lo spunto per questo tipo figurativo è forse partito dall'Egitto.
Un poco più frequente è il gesto più raccolto delle mani giunte davanti al petto, con le palme aperte o incrociate o intrecciate. Questo atteggiamento aveva nel Vicino Oriente, a partire dal periodo sumerico in poi, generico significato di preghiera (E.A.A., i, fig. 927; iii, figg. 535 s.; 1365; iv, figg. 1013 s., figg. 1253 ss.). Nel VII sec. a. C. arriva anche in Grecia ed in Etruria. È proprio ai piccoli recipienti corinzî di terracotta per unguenti, a forma di "comasti" accovacciati; in Etruria al defunto sull'urna di Betolle e alle donne della tomba di Pietrera. Nell'antico Oriente il baciamano fa parte dell'adorazione della divinità e del sovrano ed è spesso rappresentato in modo esplicito (E.A.A., i, figg. 398; 929), in modo molto preciso sui rilievi achemènidi di Persepoli (E.A.A., i, fig. 38; iv, fig. 238). Che anche i Greci usassero adorare con il baciamano, lo sappiamo da fonti letterarie (Plin., Nat. hist., xxxviii, 25; Apul., Met., iv, 28; Cass. Dio., 64, 8) e da testimonianze figurate di epoca classica, come dall'Efebo bronzeo di New York (E.A.A., iii, fig. 1309), da pitture vascolari a figure rosse e rilievi votivi. H. Jucker ha dimostrato dal ginocchio molto logoro di una statuetta di culto pestana, in marmo, che il baciare e l'accarezzare oggetti sacri era in uso nei tempi antichi. L'uso così comune in Egitto a partire dal Nuovo Regno dell'adorante inginocchiato appariva troppo devoto ai Greci ed anche nell'arte dell'Oriente antico è d'altronde rappresentato solo raramente (E.A.A., i, fig. 398); nell'età degli Achemènidi era però regolarmente usato davanti al monarca (E.A.A., iii, fig. 16). L'idria di Caere con Ercole e Businde va considerata come una parodia delle espressioni di sottomissione degli Egizî (E.A.A., ii, fig. 706). Nella letteratura greca il gesto dell'inginocchiarsi riveste un ruolo di una certa importanza, e non solo come nell'Iliade, ix, 568 ss., durante la preghiera a quelli del mondo sotterraneo (Aesch., Sept., 95; Soph., El., 1374 e seguenti). Le rappresentazioni figurate ci insegnano che questo atteggiamento è di carattere soprattutto popolare come hanno dimostrato V. Hausmann e O. Walter con la raccolta di rilievi votivi della gente minuta. Dafni e Cloe nel romanzo pastorale di Longo (ii, passim) adorano inginocchiati le divinità campestri loro protettrici (cfr. anche Liddel-Scott, Lexicon, s. v. γουνάζομαι). Durante la preghiera l'orante volgeva, a quanto sembra, gli occhi avanti a sé, verso l'altare, il tempio, il simulacro della divinità, benchè Omero (Il., xvi, 232; xix, 257; xxiv, 307) e altre poche testimonianze figurate confermino che esisteva anche lo sguardo rivolto al cielo o alla terra (preghiera agli inferi). Invece lo sguardo rivolto in alto nei sovrani ellenistici, a partire da Alessandro (E.A.A., i, fig. 355) e che ci colpisce nelle figure di tutto il periodo imperiale romano e soprattutto nella tarda antichità, indica una stretta relazione con la sfera divina. Qualcosa di simile deve significare probabilmente l'estatico ripiegamento del capo negli idoli cicladici (E.A.A., ii, fig. 800) e in terrecotte greche protoarcaiche, come ad esempio quelle di Samo e Perachora.
Anche l'aposkopèin, cioè lo sguardo al di sotto della mano che fa ombra agli occhi, fa parte degli sguardi più significativi e spesso è usato per indicare l'apparizione di una divinità. Sono pochi i mortali che guardano così, ad esempio Archiloco che guarda la Musa sulla pisside di Boston a fondo bianco; più spesso è una inferiore divinità della natura come Sileni, Satiri, Menadi, Pan (E.A.A., iii, fig. 141), Eroti intenti a mirare la venuta del "Padrone" o della "Padrona".
I gesti delle divinità. - È significativo che quasi tutti i gesti della preghiera umana si ritrovano anche nell'iconografia delle divinità. Queste appaiono al credente nell'atteggiamento divino, e l'uomo a sua volta spera di assomigliare agli dèi imitando i loro gesti. Lo si vede particolarmente bene nella classica raffigurazione degli dèi che elargiscono doni, rendendo manifesta la loro natura divina con il gesto della libazione sacrificale. Così nell'Asia Anteriore già nell'antichità un braccio levato in alto significa saluto o benedizione; sui sigilli minoici il gesto si fa più imperioso nelle divinità che si manifestano, fino a diventare un braccio alzato in segno di comando. In epoca protoclassica lo stesso gesto simboleggia l'incedere maestoso, come ad esempio nell'Atena sulla kỳlix di Douris a Vienna con la disputa delle armi (E.A.A., i, fig. 251) e nell'Apollo del frontone occidentale di Olimpia; nella tarda classicità è proprio della apparizione di Pan e nuovamente dell'Apollo del Belvedere (E.A.A., i, fig. 642). D'ora in avanti diventerà il gesto distintivo di Helios-Sol (invictus) (E.A.A., ii, fig. 1034, cfr. i, fig. 51) e il gesto che simboleggia in un sovrano mortale l'assunzione dell'impero; per la prima volta a quanto sembra fu usato per Filippo il Macedone sulle monete che lo raffigurano alto sul suo cavallo. Anche il Marc'Aurelio del Campidoglio (E.A.A., ii, fig. 1169) si inserisce in questa tradizione così come tutti i comandanti raffigurati sui sarcofagi romani con battaglie contro i barbari; anche l'Augusto di Prima Porta appartiene alla serie. In modo diverso invece deve essere intesa la mano alzata di una divinità rappresentata nell'atto di porgere aiuto, come ad esempio nelle raffigurazioni di Ilizia (E.A.A., i, fig. 955) e soprattutto il dolce gesto di Asklepios e delle divinità imparentate sui rilievi votivi del V e IV sec. a. C.; qui significa benevolenza e aiuto; invece secondo il L'Orange il gesto benedicente cristiano si rifà al gesto discettatore del maestro e del filosofo (E.A.A., iii, figg. 844 e s.).
Dalla Mesopotainia conosciamo a partire dal II millennio a. C. divinità con ambedue le braccia levate; sui sigilli con scene di introduzione, la divinità accompagnatrice suole partecipare in questo modo alla preghiera (E.A.A., ii, fig. 999). Contemporaneamente esiste però già il gesto vero e proprio della epifania, con le braccia allargate, rappresentate di fronte, che conserverà la sua importanza nelle rappresentazioni delle divinità anche oltre il periodo minoico e l'età geometrica, fino all'inizio della classicità. Va inteso come segno distintivo di grandezza e di potenza (E.A.A., iii, figg. 1029; 1286; 1293; iv, fig. 1185). Recentissimi scavi condotti in Anatolia hanno portato alla luce raffigurazioni sia pittoriche che in rilievo della Dea Madre con le braccia levate risalenti al VII millennio a. C.; la loro correlazione con il culto del toro e con le facciate dipinte dei santuarî non lascia alcun dubbio circa una relazione originaria dell'antica religione anatolica con quella minoica. Questa continuità la si può seguire particolarmente bene a Creta dove una serie ininterrotta di bellissini esempî ci porta dall'epoca subminoica (E.A.A., iv, fig. 114) e protogeometrica fino a quella orientalizzante. Forse Creta ha trasmesso il tipo al continente, dove trovò larghissima diffusione con i cosiddetti idoli a ???SIM-52??? dell'epoca micenea (E.A.A., iv, fig. 115) e più tardi di nuovo nell'epoca geometrica, (recentemente: E. Kunze, in VII Ber. Olympia, p. 138 s.). L'atteggiamento viene ulteriormente approfondito nella classicità, ad esempio nell'Apollo della kỳlix di Boston a fondo bianco, che sta davanti alla Musa con il mantello aperto nell'ampio gesto, o quando una grande dea a braccia aperte emerge dalle profondità della terra verso la luce. L'arte classica e postclassica lo usa sui vasi dipinti e sulle monete romane per rappresentare divinità arcaiche. Soltanto nell'arte mesopotamica si trovano divinità con mani giunte (E.A.A., i, fig. 884). Invece su tutto il territorio del Vicino Oriente e in Grecia a partire dall'età della pietra acquista la massima importanza un gesto imparentato con il precedente, quello delle mani appoggiate sui seni, nelle figure della Grande Dea (E.A.A., i, fig. 945; 1179; iii, fig. 346; 907; iv, fig. 859). Può presentarsi anche in forma modificata, ad esempio nell'Afrodite di Lerna (E.A.A., iv, fig. 703) o stilizzata, come negli idoli cicladici (E.A.A., ii, figg. 797; 8o1). Alcune volte invece le mani coprono il ventre o la zona del pube (E.A.A., iii, fig. 1410) come anche nei diffusi idoli micenei a ???SIM-45???, come mostrano alcuni pochi esempî meno stilizzati degli altri. Dopo l'epoca orientalizzante va scomparendo l'uso di toccare gli organi della fecondità; i Greci incorsero in proposito a raffinate simbolizzazioni, come ad esempio nella Dea di Berlino raffigurata in piedi mentre sorregge una melograna davanti al grembo, o i fiori dipinti sul seno nelle protomi di terracotta della Beozia e infine l'atteggiamento dai molti significati dell'Afrodite di Cnido (E.A.A., i, fig. 181 ss.). Si potrebbe supporre una derivazione dal gesto della fertilità anche nelle trecce tenute con le mani avanti al seno, gesto molto diffuso nella plastica orientalizzante, dalla Ionia all'Etruria (E.A.A., ii, fig. 312; iv, fig. 859). Se dei mortali di sesso maschile o dei dèmoni poggiano le mani sul petto (statuine minoiche, recipienti corinzî per unguenti dei "Comasti") si pensa all'adorazione della Dea Madre. Perfino l'inginocchiarsi è a volte proprio di alcune divinità di carattere ctonio. Il Langlotz ha radunato degli esempî in proposito fra cui la bella terracotta del Sele (E.A.A., iv, fig. 138). Un nuovo sigillo d'avorio da Perachora mostra la Potnia con le braccia levate inginocchiata fra due uccelli (Perachora, ii, tav. 182, A 95 b).
I gesti del lutto. - Quasi altrettanto importanti di quelli dell'adorazione sono, per l'arte figurativa, i gesti del lutto (cfr. però anche Ilioupèrsis, E.A.A., iv, fig. 443). Il lamento per i morti non ha molta importanza nell'Asia Anteriore; cfr. però i rilievi sul sarcofago di Ahiram (E.A.A., ii, fig. 155); una importanza maggiore invece esso assume in Egitto, dove troviamo già quasi tutti i gesti in uso presso i Greci (H. Bonnet, in Reallexikon der àgyptischen Religionsgeschichte, s. v. Klageweib). Gli stessi Greci a volte usavano indicare i loro riti come asiatici o semplicemente barbarici (Aesch., Pers., 937 s.; 1054; Choeph., 423; Eur., Iph. in Taur., 18o ss.; Or., 1395 ss.). Tanto Omero che i tragici forniscono una dettagliata descrizione del lamento funebre. Il Matz pensa di poter riconoscere dei gesti estatici di lutto nell'arte cretese e precisamente nei sigilli con lo "sradicamento dell'albero sacro"; invece con sicurezza si tratta per la prima volta di una lamentazione sul vaso tardo-miceneo con la partenza dei guerrieri (E.A.A., iv, fig. 1326) e di un lamento funebre su una singolare làrnax di terracotta di proprietà privata. Le mani sono qui levate sopra il capo, a simboleggiare il percuotersi e lo strapparsi i capelli, gesto che ritroviamo più tardi in forma fortemente stilizzata in tante raffigurazioni geometriche della pròthesis e della ekphorà (E.A.A., i, fig. 862; iii, fig. 1020; 1023). Spesso nelle tombe arcaiche sono state trovate statuette di terracotta che presentano questo atteggiamento o quello con una mano sul capo e una sul petto. Nel IV sec. a. C. in questo modo è raffigurato il lamento delle sirene, soprattutto in tombe di donne, e ancora sul monumento degli Haterii le lamentatrici si percuotono il petto con ambedue le mani (E.A.A., iii, fig. 1421). Omero parla degli eroi che si battono il capo (Il., xxii, 33) i fianchi (Il., xvi, 25) e le cosce (Od., xiii, 198). Anche il gesto dello strapparsi i capelli ci è noto a partire da Omero in poi (Il., x, 15) fino ad epoca romana; è frequentemente rappresentato nella pittura vascolare a figure nere (E.A.A., ii, fig. 1253; iii, fig. 679; iv, fig. 1190) che non rifugge neanche dal rappresentare le guance graffiate. Al contrario della letteratura nell'arte figurativa le incomposte manifestazioni di dolore sono soprattutto prerogativa di donne.
A partire dallo sviluppo delle stile vascolare a figure nere gli uomini sogliono levare un braccio o ambedue in avanti, un gesto che è molto simile a quello dell'adorazione e che va inteso spesso probabilmente anche come venerazione del defunto eroizzato. Sulla loutrophòros a figure nere Berlino 1888 tutti gli uomini alzano la destra (confronta Aesch., Choeph., 8 s.) mentre tutte le donne si percuotono o si strappano i capelli. Come segno del più profondo lutto vale l'inginocchiarsi per terra, anche questo usato prevalentemente dalle donne e in connessione con altri gesti lamentatori (E.A.A., ii, fig. 1132). Frequente sui vasi funerarl geometrici compare più tardi anche sui rilievi e nella scultura a tutto tondo. Sulle lèkythoi a fondo bianco a volte è il defunto stesso che lamenta il proprio miserevole destino (E.A.A., i, fig. 1096).
Sorreggere la testa con la mano è un gesto che abbraccia tutta una gamma di sentimenti e che può significare anche qualcosa di diverso dal lutto (v. oltre). Il primo esempio, ancora un poco rigido, ce lo dà Exekias in un pìnax di Berlino 1813; l'atteggiamento si è approfondito con la rappresentazione di un più intenso dolore sulla stele funeraria tardo-arcaica di Geraki in Atene, l'antesignana delle numerose toccanti stele ellenistiche della Grecia insulare che raffigurano un giovane in lutto davanti alla riva. Anche i pittori delle ie'kythoi a fondo bianco (E.A.A., ii, fig.105) e i rilievi funerarî attici utilizzano questo gesto per significare dolore sia nel defunto che nei sopravvissuti. Su un rilievo melio Oreste trova Elettra immersa così nel suo dolore davanti alla tomba del padre (E.A.A., iii, fig. 362; iv, fig. 1177). L'arte greca classica si esprime esclusivamente con gesti molto contenuti. Nei rilievi funerari o sulle lèkythoi funerarie a fondo bianco si evitano le raffigurazioni del defunto sulla bara; sui recipienti per unguenti questo è invece a volte rappresentato presso la propria tomba in un toccante atteggiamento di lutto.
Per significare un contenuto dolore sono per lo più sufficienti, sui rilievi attici, le mani intrecciate o congiunte (E.A.A., iii, fig. 1317), il capo inchinato o poggiato sulla mano, lo sguardo perduto in lontananza, o un leggero movimento avvolgente del mantello e a questo proposito si può soltanto citare il sarcofago sidonio delle Piangenti.
Gesti dei poeti, pensatori ed oratori. - Nelle statue dei filosofi per identificare la scuola di appartenenza basta a volte la sola posizione, stante o seduta, dato che i cinici erano soliti, come il loro antenato Socrate, discutere in piedi, gli stoici e gli epicurei insegnavano seduti. Lo sguardo è solitamente rivolto diritto in avanti verso l'interlocutore o ascoltatore, solo di rado in alto come nella curiosa statuetta fittile di Basilea raffigurante Socrate, o pensosamente verso terra, come nella statuetta bronzea di New York o in Ulisse (Il., iii, 203). Eschine (1, 25) riferisce che gli oratori fino a Pericle erano tenuti a nascondere le mani sotto al manto; tanto maggiore è invece il ruolo che da quel momento in poi compete alla cheironomia nella retorica (v. cheironomia): manus ipsae loquuntur dice Quintiliano (Inst. orat., i, 13 e 18). Così troviamo come gesto che esprime un'affermazione particolarmente appassionata la mano quasi chiusa del Germanico al Louvre (E.A.A., iv, fig. 437) proprio anche di Socrate su una gemma di New York e accanto ad esso le dita distese in segno di ammonimento del persiano davanti a Dario (E.A.A., iii, fig. 15). I due movimenti più importanti della mano che accompagnano un discorso compaiono uno per ciascun lato del sarcofago delle Muse di Parigi; si tramandavano nella iconografia cristiana fino ad epoca recente rispettivamente come Benedictio graeca (mano aperta) (E.A.A., iii, fig. 845) e Benedictio latina (E.A.A., iii, fig. 844; confronta,. ii, fig. 1207 e 1209). Le mani congiunte o sovrapposte significano concentrazione (Demostene di Polyeuktos, E.A.A., iii, fig. 103; statuetta di terracotta di Pompei a Napoli; statuetta di bronzo a Berlino); il meditare è espresso con la testa appoggiata nella mano. Quest'ultimo atteggiamento esiste in molte raffinate varianti, a volte come mano appoggiata solo leggermente sul mento (E.A.A., i, fig. 717) a volte come testa poggiata pesantemente (E.A.A., i, fig. 486, confronta, iii, fig. 840 e iv, fig. 1203). Anche i poeti vengono rappresentati in questo modo; a Smirne nel santuario di Omero esisteva una statua seduta del poeta in questo atteggiamento. Così compaiono anche le divinità che ispirano poeti e pensatori, con la mano al mento, soprattutto le muse (E.A.A., i, fig. 728, Polymnia) e anche Apollo (moneta di Delfi). Questo stesso gesto della mano appoggiata al capo in una figura però seduta a terra, è esaltato sul cratere corinzio di Anfiarao con il vate Halimedes, fino a significare disperazione, e diventa quasi un gesto lamentatorio (E.A.A., i, fig. 518, v. il vate di Orvieto, ibid., iii, fig. 582 c).
Un senso musicale deve invece probabilmente significare la testa appoggiata in Pan, nelle ninfe e in altre divinità naturali. La principessa sulla pittura di Boscoreale, invece, appare intenta ad ascoltare intensamente (E.A.A., ii, tav. a colori a p. 144). Sorreggersi la testa è caratteristica anche di certi eroi, intenti a meditare sul loro grave destino, Eracle (E.A.A., iii, fig. 464 a), Ulisse, Penelope (E.A.A., iv, fig. 1179), Paride prima del giudizio ed Elena prima della fuga (E.A.A., iii, fig. 1449), Medea prima di abbandonare la casa paterna (Ap. Rhod., iii, 1160). Il gesto della figura in piedi della Medea, della Procne di Alkamenes (E.A.A., i, fig. 371) e della Peliade sul rilievo a tre figure (E.A.A., iv, fig. 1134) sta invece a significare la cattiva azione che cova nella mente.
In alcuni gesti acquista un significato anche il panneggio. Avvolgersi completamente nello himàtion significa a partire da Omero dolore profondo, spesso unito al gesto di sorreggersi la testa. E un gesto ridicolizzato da Aristofane nelle Rane (911 ss.). Si confronti con questo passo del comico la figura di Auge sul piccolo fregio di Pergamo (E.A.A., iii, fig. 1330). La sposa tiene il manto sul capo (Nozze Aldobrandini), gesto che caratterizza anche la matrona. Il gesto così frequente dell'afferrare lo himàtion o il velo sopra la spalla, spesso del tutto convenzionale, come segno di avvenenza femminile (E.A.A., iii, fig. 1317), può esprimere effettivamente anche un provocante denudamento (metopa di Selinunte con Zeus e Hera sull'Ida, cfr. Hesiod., Theog., 575) o un pudico nascondersi ("gesto della pudicizia", Od., xvi, 416; l'efebico Paride timoroso davanti alle dee sull'anfora a figure rosse del British Museum, E.A.A., ii, fig. 739). L'esempio più antico di questo atteggiamento, continuamente ricorrente ancora sui rilievi funerarî palmireni, si trova sull'anfora melia con il viaggio nuziale di Ercole. Esso viene accentuato e riceve nuovo significato attraverso la verificatio, cioè la veste gonfiata dal vento, che in età romana significa apoteosi e si trova per la prima volta nella tarda età classica nella Selene che cavalca sull'arco del cielo e nell'Afrodite che sorvola il mare (cfr. E.A.A., ii, fig. 788). Un significato meno durevole nel tempo ebbe il motivo ionico del sollevare la veste di lato che probabilmente per la prima volta fu rappresentato da Geneleos nel gruppo di Samo; in una statuina bronzea, pure proveniente da Samo, è ancora unito all'antico gesto orientale di premersi il petto. Per il giovane beneducato di età classica vale la regola che le braccia debbono essere avvolte nel mantello (E.A.A., ii, fig. 1192; iii, fig. 1417; Manteljünglinge). Afferrare l'orlo della veste invece esprime una forte agitazione interiore come quella di Zeus sul frontone orientale di Olimpia o di Socrate nella statuetta londinese.
I gesti della supplica. - Abbracciare le ginocchia è l'espressione usata da Omero (Il., xviii, 457; xxii, 240; xxiv, 465; Od., vi, 142; x, 324), ma compare raramente nell'arte figurativa al contrario del toccare il mento (Il., x, 455) che si trova ad esempio sul vaso protoattico di Nesso (E.A.A., iii, fig. 24; i, fig. 190), ma anche a simboleggiare l'intercessione di Atena per l'introduzione di Eracle all'Olimpo, e spesso invece ha significato di gesto amoroso, anche fra uomini (E.A.A., i, fig. 842; recentemento a questo proposito: D. Ohly, in Ath. Mitt., lxviii, 1953, p. 81). In casi particolari chi supplica è inginocchiato, e questo vale soprattutto per chi invoca protezione presso l'immagine o l'altare della divinità (E.A.A., ii, fig. 574); particolarmente belli sono i frammenti àpuli all'Aia, dove si riconosce ancora, accanto al supplice, il ramo avvolto nelle bende. Dei gesti della tenerezza fa parte, a partire da Omero, il bacio (Il., vi, 474), che è frequente nelle pitture vascolari (E.A.A., i, fig. 456; 478; 1204, confronta fig. 461) e la carezza (Il., i, 361; Od., iv, 609; v, 181; xiii, 285); così come sul sostegno di vaso a figure rosse del Pittore di Antiphon (E.A.A., i, fig. 599) compare probabilmente anche sul grande rilievo eleusinio votivo con la missione di Trittolemo. L'abbraccio lo troviamo già sul rilievo ligneo di Samo con Zeus e Hera (E.A.A., iii, fig. 1462); nell'Iliade, (xxiii, 97) dove Achille vorrebbe abbracciare l'ombra di Patroclo, si pensa alla coppia di amici Kitylos e Dermys. Un programma politico invece è proposto dal monumento di porfido dei tetrarchi di Venezia, che proviene forse dall'Egitto, dove questo atteggiamento è particolarmente frequente (E.A.A., vi, fig. 415).
Anche afferrare il polso, χεῖρ᾿ ἐπὶ καρπῷ fa parte dei gesti amorosi nel senso più lato. Nell'Oriente antico, a partire dal III millennio tuttavia lo si usa quasi esclusivamente in scene di presentazione (E.A.A., ii, fig. 999): ma è anche qui di già conosciuto come espressione di possesso amoroso, come mostra un gruppo di calcare raffigurante una coppia di sposi da Mari (A. Parrot, tav. 40). Questo gesto pare faccia parte dell'affettuoso benvenuto e commiato nell'arte greca più antica, come dimostrano in modo univoco: Od., xviii, 257 e 5., e xxiv, 398; il Kirk spiega come scena di commiato anche la molto discussa scena navale attico-geometrica da Tebe (Ann. Brit. Sch. Ath., xliv, 1949, p. 150). Il gesto ha certamente significato amoroso nella brocca cretese di Arkades (E.A.A., i, fig. 842), in connessione col ratto di una fanciulla è già rappresentato nel Protocorinzio (E.A.A., i, fig. 243) e inoltre appare in un determinato tipo di danza in cerchio (E.A.A., ii, fig. 506). In epoca tardo-arcaica e classica l'afferrare il polso diventa quasi rituale quando si conduce a casa la novella sposa (E.A.A., i, fig. 173; iv, fig. 531) o si riconduce a casa la sposa (E.A.A., iii, fig. 392; gioco di Satiri alle nozze di Persefone, E.A.A., i, fig. 377; iii, fig. 250, una parodia con Ebe che così conduce seco Eracle). Un significato più profondo invece l'artista attribuì a questo medesimo gesto nel rilievo a tre figure nel quale è rappresentato l'addio di Orfeo ad Euridice, dove Hermes tiene dolcemente la donna per il polso (E.A.A., iii, fig. 654).
L'appoggiare la mano su una spalla esprime un più marcato senso di possesso, che non il χεῖρ᾿ ἐπὶ καρπῷ, e i Romani usavano in proposito il termine giuridico di mancipatio (E.A.A., ii, fig. 577). Il gesto però era stato già da tempo tradotto in espressione d'arte come ad esempio nel Posidone che insegue una donna (E.A.A., i, fig. 266) o come la presa di possesso dell'Oltretomba che avviene attraverso l'imposizione della mano dello psicopompo, come sul rilievo del piccolo frontone di Zurigo. Sarebbero anche da confrontare il gesto del Pothnios di Delfi (E.A.A., iii, fig. 42) e più tardi quello di Serapide con il cane infernale. Nella maggior parte dei casi però il gesto esprime il comune possesso e l'amorosa comunanza, come ad esempio nelle riunioni di divinità sui rilievi votivi classici e nella scultura funeraria romana. Può essere perfino un gesto benedicente quando, soprattutto nell'arte arcaica, la divinità poggia la mano benevolmente sulla spalla degli eroi (G. Beckel, Götterbeistand, Indice, v. μένος).
I gesti singoli. Aposkopèin. - La mano che fa ombra agli occhi si trova soprattutto nell'ambito dei dèmoni naturali inferiori; così scrutano per indicare l'epifania delle grandi divinità naturali (E.A.A., iii, fig. 141) o verso le grazie femminili (E.A.A., ii, fig. 392); soltanto l'arte non originaria dalla madreterra ellenica non rispetta questa sottile tipizzazione e rappresenta a volte anche gli dèi dell'Olimpo nell'atto di spiare, così ad esempio Efesto su due anfore campane (E.A.A., ii, fig. 441; iv, fig. 291). La punta delle dita appoggiata sulle labbra caratterizza già nell'Egitto predinastico il bambino piccolo; il gesto si trasformò indicando il tacere di Arpocrate (E.A.A., i, fig. 859; iii, fig. 401) o di Attis, (sul Vaso di Portland) che celano i misteri e in quello del favete hnguis nelle cerimonie di culto (E.A.A., iii, fig. 418, Ara Pacis; iv, fig. 122, Calcante durante il sacrificio di Ifigenia).
Nell'arte figurativa l'indicare con la mano ha una certa importanza; così il dito indice puntato del giovane sul vaso protoitaliota di Sisifo indica con scherno le condizioni di Anticlea (E.A.A., iv, fig. 531); così sul bicchiere argenteo con gli scheletri da Boscoreale Zenone indica con disprezzo Epicuro, che sta afferrando una grossa focaccia. Invece il dito puntato di Roma sul cammeo viennese indica l'apoteosi di Augusto (E.A.A., iii, fig. 1215). Nel senso umano più semplice questo gesto è proprio dell'Afrodite del fregio orientale del Partenone, dove essa mostra al figlio piccolo il corteo panatenaico.
Gesto di saluto è nell'antichità in senso generico il braccio levato (destro), un gesto che anche dal punto di vista del contenuto non può essere scisso dalla benedizione della divinità e dall'adorazione del credente (L'Orange). Il braccio alzato è usato sia nel commiato che nel benvenuto; è molto evidente nell'Hermes del rilievo del bouleutèriòn di Thasos o nell'accoglienza di Icario a Dioniso (E.A.A., iii, fig. 144). Ugualmente molteplice è nel significato, a somiglianza del braccio levato, la stretta di mano, che in Omero accompagna un discorso particolarmente caloroso (ad esempio Il., vi, 253 e 406). Come generico gesto di saluto nel senso nostro moderno è poco frequente, perché anche se si tratta dell'addio di un guerriero, così come sullo stàmnos del Pittore di Achille del British Museum, siamo però sempre in presenza di una situazione di particolare importanza (E. Kunze, Archaische Schildbänder, 190 e nota 1). Non si tratta di un semplice addio, ma piuttosto dell'espressione dell'unità nell'affetto dei membri della famiglia di fronte alla morte, come sempre d'altronde più tardi sui rilievi funebri. È significativo il fatto che la stretta di mano non compare sulle lèkythoi a fondo bianco (in proposito v. S. Karouzou, in Ath. Mitt., lxxi, 1956, p. 132 ss.). Se divinità ed eroi si incontrano con la dexìosis, il gesto significa l'innalzamento dell'eroe verso la divinità (Posidone e Teseo ed Atena, Eracle); e in epoca ellenistica viene riferito al sovrano (Mitridate di Commagene ed Eracle). Sulle testate dei decreti il gesto dà forza al contratto (E.A.A., ii, fig. 1219). La dextrarum iunctio romana non esprime affettuosa comunanza, ma una conferma giuridica (E.A.A., iii, s. v.).
Un atteggiamento molto antico che non ha trovato seguito nell'arte più recente è quello dell'avambraccio o della mano poggiati sul sommo del capo in figure in piedi, sedute o distese cioè il cosiddetto gesto dell'Apollino. Con questa denominazione si vuole dire che il gesto è proprio soprattutto di Apollo (E.A.A., i, fig. 638; 1184; iv, fig. 693), ma solo a partire dal IV sec. a. C., come per Dioniso e la sua cerchia (E.A.A., iii, fig. 870; i, fig. 6) mette in evidenza, a partire dall'epoca classica in poi, il rilasciamento e l'abbandono (E.A.A., i, fig. 814; ii, fig. 1128) e anche la mollezza orientale. La formula fu però inventata in epoca tardo-arcaica per i dormienti, come il gigante Alcioneo di Phintias (E.A.A., i, fig. 296) e fu presto riferito ai feriti (Amazzone di Policleto, E.A.A., i, fig. 443), ai moribondi (Niobide di Copenaghen). In epoca ellenistica romana fu prediletto come elemento di colore per le personificazioni di località, come ad esempio per la statua dell'eroe Isthmos sulle monete corinzie. Attesa piuttosto che riposo significano una o ambedue le braccia incrociate sul petto. L'atteggiamento è proprio soprattutto dei servi: (l'ancella di Penelope sul rilievo di GölbaŞi; stele funerane); più tardi viene trasmesso alle ninfe distese o a divinità inferiori della natura; nella scultura funeraria romana l'atteggiamento ha importante significato, inoltre nelle rappresentazioni della piccola divinità della morte Eros-Thanatos.
Il motivo del piede appoggiato è una invenzione dello stile severo e per la prima volta lo incontriamo nell'Eracle della metopa di Olimpia con il leone nemeo (E.A.A., iii, fig. 464) e sul cratere parigino dei Niobidi con l'assemblea degli eroi. Polignoto lo usò a Delfi (Paus., x, 30, 3) ed è un motivo pensato per il rilievo, sebbene più tardi, soprattutto nel IV sec. a. C., compaia in celebri sculture: Posidone e il Giovane che si allaccia il sandalo di Lisippo (E.A.A., i, fig. 1162), l'Alessandro Rondanini (E.A.A., i, fig. 352). Dapprima significa meditare, come nel Perseo davanti alla Andromeda in ceppi sul cratere di Agrigento e poi attesa (E. A. A., ii, fig. 517: Caronte in attesa dei defunti), poi anche stare in ascolto e guardare (vaso di Orfeo a Berlino) e viene infine inteso come atteggiamento eroico, come nell'Alessandro Rondanini, nella statuina bronzea di Demetrio Poliorcete di Napoli e in condottieri romani (E.A.A., ii, fig. 578); il gesto è rafforzato se il piede poggia sopra il corpo del nemico vinto (Vittoria di Brescia, E.A.A., ii, fig. 258, con l'elmo sotto il piede). Questo ultimo aspetto s'incontra con frequenza in divinità e re già nell'arte dell'antico Oriente, i quali appoggiano un piede sul nemico (v. Narām-Sin, E.A.A., i, fig. 24), o su di un attributo (E. A. A., iv, fig. 280; 410), su di un monte (E.A.A., iii, fig. 413). Così come il piede sollevato anche la mano poggiata sul fianco fu utilizzata per la prima volta nello stile severo: Oinomaos sul frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia, Efesto sullo stàmnos di Hermonax (E.A.A., iii, fig. 511). In ambedue i casi la sinistra è poggiata sullo scettro, in ambedue i casi è rappresentata l'attesa, ma l'intonazione è profondamente diversa nei due casi: tracotanza nel re Elide (confrontare ulteriormente con i ritratti ellenistici di imperatori: E.A.A., i, fig. 347 e il Diadoco delle Terme), immobilità stupefatta nel dio.
Anche la figura appoggiata ad un pilastro o ad altro oggetto solido situato esternamente al corpo è un tema che ha ripetutamente interessato l'arte greca dalla classicità in poi, e non solo come problema di spazio. Policleto lo motiva per la prima volta con la ferita che presenta la sua Amazzone (E. A. A., i, fig. 443), ma già nel Narciso (v.) la posa sospesa del corpo chinato del giovane evoca una atmosfera di malinconia, che è così spesso tipica nelle figure di divinità del IV sec. a. C. (Pothos di Skopas, E.A.A., ii, fig. 1055; Eracle di Lisippo: E.A.A., iii, fig. 1223, e iv, fig. 779; Hermes di Prassitele, E.A.A., iv, fig. 11). Infine anche lo stare in piedi, seduti o il giacere sono schèmata, così come il modo con cui li rende l'artista a seconda delle intenzioni sue e del suo committente. Quanto fosse ritenuto importante l'atteggiamento di una statua lo mostra molto bene il gruppo samio di Geneleos con le figure delle fanciulle e del koùros in piedi, quella della matrona seduta e quella della sacerdotessa distesa. È notevole anche l'atteggiamento nel quale sono rese le mani del koùros stante e della corrispondente figura femminile arcaica: il pugno è chiuso nell'uomo, aperta e appoggiata distesa sul corpo è la mano della donna (E. A.A., iii, fig. 912). L'Apollo bronzeo del Pireo si manifesta nella sua natura divina perché per la prima volta china leggermente il capo verso il fedele. I Greci attribuivano un trono alle divinità, come pure ai defunti eroizzati (rilievi laconici di eroi; canopi etruschi, E.A.A., ii, fig. 456 s.); se i Branchidi di Mileto sono assisi in trono è per imitare usanze principesche orientali (E.A.A., iii, fig. 624 e 1295) alle quali si rifanno poi anche i sovrani ellenistici (E.A.A., i, fig. 358).
Se Zeus sul cratere a volute protoitaliota di Taranto (E.A.A., iii, fig. 141) è seduto su un rialzo naturale nel paesaggio come una personificazione di località, questo accade fuori in mezzo alla natura (cfr. E.A.A., i, fig. 141; 317), e per le sue caratteristiche di progenitore della grande divinità della natura. Sedere o stare accovacciati in terra era comune presso gli Egizi sia per le divinità che per i re (E.A.A., iv, fig. 282; iii, fig. 329), non così presso i Greci che lo consideravano conveniente soltanto in certe circostanze e per certe determinate persone, come i veggenti (E.A.A., i, fig. 518), persone che cercano protezione, persone in lutto, bambini e gente umile (Vecchia ubriaca, E.A.A., iii, fig. 1333); nei periodi più antichi anche per i dèmoni della vegetazione. Il motivo della Venere accovacciata al bagno di Doidalsas (E.A.A., iii, fig. 188 ss.) era già stato usato dal Pittore della kỳlix calcidese di Phineus per le ninfe (E.A.A., ii, fig. 397); sottolinea la femminilità. Infine in epoca ellenistico-romana le divinità fluviali stanno sedute o distese, come anche altre personificazioni della natura (E.A.A., iv, fig. 1009).
Per schemata nel senso di figurazioni di danza v. anche cheironomia.
Monumenti considerati. - I gesti della preghiera. Adoranti minoici: Ch. Zervos, L'art de la Crète, Parigi 1956, tav. 156 ss.; 310 ss. Adoranti inginocchiati: U. Hausmann, Kunst und Heiitum, Potsdam 1948, tav. 14 (dinanzi ad Asklepios); K. Schauenburg, Pluton und Dionysos, in Jahrbuch, lxviii, 1953, p. 57, fig. 14 (dinanzi a Demetra). Lo sguardo levato in alto nelle terrecotte protoarcaiche: D. Ohly, Frühe Tonfiguren aus dem Heraion von Samos, in Ath. Mitt., lxvi, 1941, tav. 3 ss.; H. Payne, Perachora, i, Oxford 1940, tav. 89, 222. Archiloco e le Muse: N. Himmelmann-Wildschiìtz, Zur Eigenart des klas. Götterbildes, Monaco 1959, tav. 20. - I gesti della divinità. Divinità antico-orientali con un braccio levato: H. Frankfort, Art and Arch. of the Ancient Orient, Londra 1954, tav. 58 c; 95. Nelle divinità minoiche con il braccio disteso nella teofania: M. P. Nilsson, Geschichte der griech. Rel., i, Monaco 1955, tav. 13, 2 e 4. Moneta con Filippo il Macedone: Wissensch. Abhandl. des Deut. Numismatikertages in Göttingen, 1951, edito da E. Boehringer 1959, tav. iii. Imposizione della mano a scopo terapeutico: U. Hausmann, Gr. Weihreliefs, Berlino 1960, fig. 28. Dea Madre dell'età della pietra con il gesto dell'epifania a Çatal Hüyük: J. Mellaart, in Ill. London News, 2 febbraio 1963, 160 ss. Apparizioni di dee tardo-minoiche: Ch. Zervos, op. cit., tav. 464 ss. Apparizioni di Apollo: N. Himmelmann-Wildschütz, op. cit., tav. 19. Statue di divinità con le braccia aperte: K. Schefold, Statuen auf Vasenbildern, in Jahrb., lii, 1937, p. 51 e 53. Idoli: E. Paul, Antike Welt in Ton, Lipsia s. a., tav. i, 1. Dea stante berlinese: C. Blümel, Gr. Skulpt. des 6 u. 5 Jahrh. v. Ch., Berlino-Lipsia 1940, tav. 1 s. Protomi fittili della Beozia: S. Mollard-Besques, Cat. des fig. et rel. en terre cuite, Louvre I, Parigi 1954, tav. 68-9. Comasti corinzî: R. A. Higgins, Cat. of the Terracottas, ii, Londra 1959, tav. 26-7. - I gesti del lutto. Làrnax tardo-micenea: Auktion XVIII Münzen und Medaillen A. G. Basel, Basilea 1958, tav. 18, 74. Lamentatrici in terracotta dalle tombe del Ceramico: Arch. Anz., 1933, 281-2. Loutrophòros a figure nere, Berlino 1888: W. Zschietzschmann, Die Darstelìungen der prothesis, in Ath. Mitt., liii, 1928, Beilage 13. Pìnax a figure nere di Exekias, Berlino 1813: J. D. Beazley, Development, tav. 32, 2. Stele funeraria di Geraki: K. Friis Johansen, The Attic Grave Reliefs, Copenaghen 1951, fig. 40. Sarcofago sidonio delle Piangenti: G. Lippold, Die griech. Plastik, Handbuch der Arch., Monaco 1950, tav. 82, 1. - Gesti dei poeti, pensatori, filosofi. In generale: K. Schefold, in Antike Kunst, ii, 1959, p. 25; Socrate di Basilea: K. Schefold, art. cit., tav. 13; Socrate di New York: G. M. A. Richter, Greek Portraits, iv, tav. 21. Gemma di New York: Cat. Gems, tav. 56, p. 462. Il sarcofago delle muse di Parigi: G. M. A. Richter, Greek Portraits, ii, Bruxelles 1959, fig. 21; S. Reinach, Rép. Stat., i, 93. Terracotta di Pompei a Napoli: G. M. A. Richter, Greek Portraits, iii, tav. 27, p. 133. Bronzo a Berlino: G. Bruns, Antike Bronzen, fig. 40. Statua di Omero a Smirne (moneta): K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, p. 173, 2. Moneta di Delfi con Apollo: M. Grant, Roman History from Coins, tav. i, p. 7. Anfora melia con il viaggio nuziale di Eracle: E. Buschor, Griech. Vasen, Monaco 1940, fig. 67. Sulla velificatio nella apoteosi nella scultura funeraria romana: H. Jucker, Das Bildnis im Blütterkelch, Olten 1961, tav. 6, n. 5 3. Velificatio su una lèkythos a figure rosse di Berlino: N. Himmelmann-Windschütz, op. cit., fig. 10. Gruppo di Geneleos: E. Buschor, Altsamische Standbilder, ii, Berlino 1934, p. 27. Statuina bronzea di Samo: id., ibid., tav. 118-120. Statuina londinese di Socrate: K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, p. 85. - I gesti della supplica. Cratere a figure rosse del Pittore di Kadmos di Bologna con l'abbraccio alle ginocchia: E. Pfuhl, Mal. u. Zeich., Monaco 1923, fig. 590. Atena tocca il mento di Zeus: kỳlix del Pittore di Phrynos: J. D. Beazley, op. cit., tav. 21, 2. Richieste d'amore: Ch. Hofkes-Brukker, Frühgriechische Gruppenbildung, Leida 1935, tav. 5. Il grande rilievo votivo di Eleusi: U. Hausmann, Gr. Weihreliefs, Berlino 1960, fig. 24. La mano sulla spalla sui rilievi classici con adunanze di divinità: id., op. cit., fig. 32. - I gesti singoli. Aposkopèin. Attis sul Vaso di Portland: E. Simon, Il vaso Portland, Magonza 1957, tav. 5, 2. Bicchiere degli scheletri di Boscoreale: K. Schefold, op. cit., 167. Il rilievo del bouleutèrion di Thasos: Enc. phot. de l'art. Musée du Louvre, iii, figg. 148-9. La dipartita del guerriero sullo stàmnos del Pittore di Achille: E. Pfuhl, op. cit., fig. 524. Rilievi funerarî: K. F. Johansen, The Attic Grave Reliefs, passim (l'esempio più antico è il frammento di Egina, del 480 circa, fig. 70).Per la dexìosis: Posidone e Teseo: C.V.A., The Robinson Collection, 2, tav. 31; Atena ed Eracle: Délos, x, tav. 47; Mitridate ed Eracle: Neue Deutsche Ausgrabungen, p. 81. Niobide di Copenaghen: G. Lippold, op. cit., tav. 65, 3. Isthmos su monete corinzie: Imhoof-Gardner, in Journ. Hell. Studies, vi, 1885, p. 63. Rilievo di GölbaŞi: F. Eichler, Die Reliefs des Heroon Gjölbaschi-Trysa, Vienna 1950, tav. 6, A. i. Esempî di stele funerarie: Ath. Mitt., l, 1925, p. 49; V. Stais, Guide, n. 1245: E.A.A., iii, fig. 2. Eros-Thanatos: Arch. Anz., 1937, p. 90. Cratere dei Niobidi: Arias-Hirmer, Tausend Jahre griechischer Vasenkunst, Monaco 1960, tav. 173. Cratere di Agrigento: L. v. Matt, Das antike Sizilien, p. 123. Vaso di Orfeo a Berlino: E. Buschor, Griechische Vasen, fig. 226. Apollo di bronzo del Pireo: G. M. A. Richter, Kouroi, Londra 1960, tav. 478 ss.
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