STEFANO I, santo
Il Liber pontificalis, nr. 24, lo dice romano di nascita, "ex patre Iobio". Fu eletto vescovo di Roma il 12 marzo 254, pochi giorni dopo la morte del predecessore Lucio. Il suo breve pontificato rivestì particolare importanza, perché, allo stato delle attuali conoscenze, egli è stato il primo vescovo di Roma che abbia cercato di dare al primato di onore, che dagl'inizi del II secolo veniva riconosciuto alla Sede romana dalle altre Chiese cristiane, un contenuto più concreto e significativo, considerandosi in diritto di interferire e legiferare in merito a questioni interne di altre Chiese. Questo suo tentativo si colloca in un contesto ecclesiale caratterizzato, quanto ai rapporti tra le varie sedi episcopali, da fluidità e incertezza per mancanza di qualsiasi norma in proposito. Infatti, alla metà del III secolo, dal punto di vista organizzativo la cristianità si presentava come un complesso di Chiese, cioè di singole comunità soprattutto cittadine, strutturate al proprio interno gerarchicamente, con a capo della gerarchia (presbiteri e diaconi) il vescovo ormai investito di potere monarchico, le quali, pur coscienti di costituire tutte insieme la Chiesa cattolica, corpo visibile di Cristo, si consideravano, e di fatto erano, autonome ognuna rispetto alle altre. Era naturale che le Chiese costituite in città importanti godessero di particolare prestigio nell'ambito della regione, Alessandria in Egitto, Cartagine in Africa, Antiochia in Siria, Efeso in Asia e così via, e in questo senso il prestigio di Roma non era limitato alla sola Italia ma era riconosciuto nell'ambito di tutta la cristianità: si trattava per altro di un prestigio che non dava autorità ai vescovi di quelle città di interferire nelle questioni interne delle altre Chiese delle loro regioni. In qualche regione, per esempio in Africa, c'era ormai l'usanza di demandare a concili provinciali la risoluzione di questioni relative ai rapporti tra singole comunità della regione, o anche interne alle singole comunità nel caso che venisse impugnata una qualche deliberazione del vescovo locale: si trattava per altro di una istituzione recente, che non solo non era ancora diffusa dovunque ma non era neppure bene organizzata, perché fondata, in assenza di una legislazione pertinente, soltanto sulla consuetudine. In tale contesto organizzativo, dai contorni ancora fluidi e incerti e dove perciò si poteva dare il caso che si avvertisse l'esigenza anche di una sede d'appello più che regionale in occasione di contestazioni locali di particolare rilievo, S. era convinto di avere il diritto, in quanto vescovo della sede considerata la prima in tutta la cristianità, di interferire direttamente in questioni riguardanti altre Chiese. I motivi non mancavano, perché tra sede e sede sussistevano divergenze, talvolta anche notevoli, in materia disciplinare e liturgica, a volte anche dottrinale, e soprattutto perché sia la recente persecuzione di Decio, con lo strascico di fedeli in varia guisa compromessi (lapsi) che chiedevano di essere riammessi nella comunità, sia lo scisma di Novaziano, che in merito alla possibilità e alla regolamentazione di tale riammissione aveva acuito il contrasto tra rigoristi e lassisti, avevano provocato un diffuso stato di conflittualità che non sempre si riusciva a risolvere in sede locale. In una situazione generale così caratterizzata S. fu protagonista di tre distinti episodi, che si conoscono quasi soltanto grazie all'epistolario di Cipriano, vescovo di Cartagine, la personalità di gran lunga più rappresentativa dell'episcopato occidentale alla metà del III secolo. Durante la persecuzione di Decio (250) Basilide e Marziale, vescovi delle comunità spagnole di Legio (León) e Asturica (Astorga), avevano apostatato: di conseguenza, il primo si era volontariamente dimesso, l'altro era stato deposto e al loro posto erano stati eletti Sabino e Felice. Per altro Basilide e Marziale, una volta riammessi nella comunità, non avevano accettato la sostituzione, avevano fatto ricorso a papa S. e questi li aveva riabilitati, ingiungendo alle due comunità di ripristinarli nella primitiva dignità. Ma i fedeli delle due comunità non avevano accettato la decisione romana e i due vescovi che avevano sostituito Basilide e Marziale si erano recati a Cartagine da Cipriano, latori di una lettera in cui erano esposti tutti questi fatti e di un'altra, di Felice vescovo di Caesaraugusta (Saragozza), che li confermava. Cipriano aveva riunito a Cartagine intorno al 254 un concilio cui aveva partecipato una quarantina di vescovi africani e la cui lettera sinodale, di pugno dello stesso Cipriano (ep. 67), è l'unica fonte che ragguagli su tutta la questione. Il concilio africano prese nettamente posizione a favore delle due comunità spagnole e contro il deliberato di S., di cui viene detto che, non al corrente della realtà dei fatti, era stato ingannato da Basilide che si era recato appositamente a Roma per recapitargli la protesta sua e di Marziale. L'osservazione di Cipriano è a doppio taglio: se, infatti, da una parte vuole in qualche modo giustificare, nel momento stesso in cui lo respinge, l'operato di S., dall'altra implicitamente gli fa carico di aver deliberato in favore di una delle due parti in causa dopo averne ascoltato soltanto una e perciò senza accurata e precisa conoscenza dei fatti. Per giustificare a sua volta la prassi del concilio africano, Cipriano espone le prevaricazioni dei vescovi deposti, insiste con larga esemplificazione scritturistica sulle doti di integrità e purezza che dovevano caratterizzare la dignità del vescovo, sanziona la perfetta regolarità dell'elezione di Sabino e Felice. Non consta che S., nonostante il rifiuto opposto alla sua deliberazione, sia ulteriormente intervenuto nell'affare. Esso è indicativo, in materia di rapporti tra sede e sede, dello stato di fluidità e incertezza cui sopra si è accennato. I fedeli di Legio e Asturica non avevano alcuna intenzione di ottemperare alla delibera di S., ma non si erano sentiti autorizzati ad agire in proprio, riconoscendo in certo modo la liceità del ricorso in appello dei due vescovi deposti a una sede esterna. Ma è su questo punto che c'era incertezza, sì che contro la decisione della Sede romana essi pensarono di ricorrere alla sede di Cartagine. Perché? Le Chiese di Spagna fino al V secolo e oltre si sentirono molto legate alle Chiese d'Africa, da cui probabilmente il messaggio cristiano era passato a loro, e Cartagine alla metà del III secolo era, in Occidente, dopo Roma la Chiesa più di prestigio. Ma non si può non tener conto anche del fatto che allora vi era vescovo Cipriano, personaggio ormai consacrato dalla fama in tutto l'Occidente cristiano, il che faceva valere nella questione una circostanza del tutto contingente. Va anche considerato che Cipriano non respinge l'intervento di S. in quanto tale, cioè non sembra negare il suo diritto a intervenire nella questione interna delle due Chiese spagnole, ma giustifica il rifiuto della sua delibera sul piano procedurale: S. si è poco e male informato e, in definitiva, si è fatto raggirare. Questo, che si potrebbe definire errore di procedura, autorizza il concilio africano a riformare la sentenza romana. Da tutto il contesto appare chiaro che, avvertita l'esigenza di una sede d'appello per litigi tra sede e sede e anche all'interno di una medesima sede, se da una parte si riconosceva al vescovo di Roma il diritto di intervenire, dall'altra questo diritto era sentito tutt'altro che incondizionato bensì in vario modo vincolato e circoscritto. Soprattutto va rilevato che, mentre S., richiesto da Basilide, sembra aver agito di sua propria e personale iniziativa, senza cioè premurarsi di concertare la sua decisione con l'appoggio di un concilio riunito appositamente, proprio questo aveva fatto Cipriano, in modo da far valere, contro la singola autorità del vescovo di Roma, quella di un concilio delle Chiese d'Africa. Inizia qui una vicenda destinata a prolungarsi per molti secoli. Anche il secondo dei tre episodi riguardanti S., sul quale informa l'epistola 68 di Cipriano, di poco posteriore alla precedente, fu provocato dagli strascichi della persecuzione di Decio. Quando, finita la persecuzione all'inizio della quale era stato messo a morte a Roma papa Fabiano, si erano contesi la successione Novaziano e Cornelio, il contrasto tra i due era stato caratterizzato da forti motivazioni ideologiche, perché quest'ultimo rappresentava la parte di chi era disposto a riammettere nella comunità i lapsi previa una congrua soddisfazione penitenziale, mentre in Novaziano si riconoscevano i rigoristi che quella riammissione senz'altro rifiutavano. Perciò, quando Novaziano, rimasto soccombente, si era tuttavia fatto anch'egli ordinare vescovo e aveva dato inizio allo scisma che da lui ha tratto il nome, questo rapidamente si diffuse un po' dappertutto nell'ambito della cristianità, dovunque ci fossero fedeli di tendenza rigorista. Tra questi in Gallia c'era Marciano, vescovo di Arelate (Arles), che aveva rifiutato di riammettere nella comunità i fedeli che avevano apostatato durante la persecuzione, non tenendo in alcun conto il loro pentimento. Altri vescovi della regione però, non condividendo questo rigore, avevano scritto in proposito a S.; Faustino, vescovo di Lugdunum (Lione), Chiesa particolarmente antica e importante, si era rivolto, oltre che a S., più di una volta a Cipriano, il quale a sua volta si rivolge ora, con la lettera sopra indicata, a Stefano. Da come egli si esprime nel richiamare brevemente questi fatti risulta evidente sia che la situazione di disagio e conflittualità si protraeva ad Arelate da parecchio tempo sia che i vescovi di Gallia di parere contrario non erano in grado di intervenire in modo diretto in quella sede a danno di Marciano, o comunque non si consideravano a ciò abilitati: di qui il loro rivolgersi a S. e, in linea - a quanto pare - subordinata, a Cipriano. Questi presenta Marciano a S. quasi che fosse già passato dalla parte di Novaziano distaccandosi perciò dall'unità della Chiesa cattolica: ma dalle sue parole non appare chiaro se Marciano fosse effettivamente entrato in comunione con la comunità di Novaziano, separandosi perciò automaticamente dalla comunione con la comunità cattolica di S. e con tutte le altre che erano in comunione con quello, ovvero se si fosse limitato a rifiutare la riammissione degli apostati, dal che Cipriano avrebbe dedotto il suo implicito aderire a Novaziano e il distacco dal complesso di tutte le Chiese cattoliche. Come che sia, Cipriano invita S. a prendere l'iniziativa di scrivere ai vescovi della Gallia sollecitandoli a deporre Marciano e a eleggere un altro vescovo al posto suo. Dato che si è informati su questo affare soltanto dall'epistola 68 di Cipriano, non si sa come esso si sia concluso, ma anche con questa carenza d'informazione il fatto è significativo per quanto attiene al contenzioso relativo ai rapporti tra le varie sedi episcopali, innanzitutto quella romana. In primo luogo, come nel caso precedente, anche se per motivazioni del tutto diverse si prospetta anche qui l'esigenza di una sede d'appello chiamata a risolvere contrasti interni di una comunità. Proprio come nel caso precedente, i vescovi della provincia non intervengono. Ma in questo caso, ben diverso dall'altro, è possibile ipotizzare che la posizione di Marciano all'interno della Chiesa di Arelate fosse tanto forte da sconsigliare l'intervento dei vescovi circonvicini; ma si può anche supporre che, come in Spagna e a differenza dell'Africa e di varie regioni orientali, neppure in Gallia fosse già in vigore l'istituto del concilio provinciale: si tenga conto che sia in Gallia come in Spagna la diffusione della religione cristiana era molto in arretrato rispetto a quanto si dava in Africa e in Oriente. Dalla lettera di Cipriano si ricava con chiarezza che solo il vescovo di Lugdunum si era rivolto più di una volta a lui, mentre a S. si erano rivolti tutti i vescovi della provincia ("a ceteris coepiscopis nostris in eadem provincia constitutis"): se il ricorso a Cipriano, motivato dal prestigio del personaggio e/o della sede cui presiedeva, era stato un fatto sporadico, la Sede romana era apparsa ai vescovi della Gallia la naturale destinataria di un ricorso in appello. Dal canto suo Cipriano, in quanto, pur nominativamente interpellato, si astiene dall'intervenire in modo diretto e invita S. a prendere l'iniziativa di ristabilire la corretta situazione nella Chiesa di Arelate, riconosce anche lui al vescovo di Roma il diritto d'intervenire. In un passo della lettera egli giustifica l'intervento alla luce della concezione, più diffusamente esposta nel De ecclesiae catholicae unitate, dell'episcopato come corpo unitario e solidale, autorizzato a intervenire nel caso di distacco di qualche membro di esso: nell'attuale contingenza egli, in veste di rappresentante di questo corpo unitario, invita S. a intervenire. Se ci si chiede perché non l'abbia fatto lui stesso come nel caso precedente, in primo luogo bisogna tener conto della diversità di situazione, in quanto nel caso dei vescovi spagnoli l'intervento gli era stato sollecitato proprio in opposizione al deliberato del vescovo di Roma. Si deve, per altro, soprattutto considerare che mentre le Chiese di Spagna, come si è detto sopra, erano collegate in modo particolare con quelle d'Africa, le Chiese di Gallia guardavano naturalmente, come referente esterno, a Roma, come già testimoniano vari fatti del tempo di Ireneo. Perciò Cipriano, sapendo che alcune di quelle Chiese avevano già unitariamente richiesto l'intervento di S., ha ritenuto naturale che spettasse a questi piuttosto che a lui, il diritto e il dovere di intervenire. Le vie di S. e di Cipriano, che finora si erano variamente incrociate, intorno al 256 vennero a diretta collisione in merito alla questione del battesimo degli eretici. Si dava allora non di rado il caso di chi, dopo essere diventato da pagano cristiano aderendo a una comunità di eretici e ricevendo qui il battesimo, chiedesse in un secondo tempo di entrare nella Chiesa cattolica: in questo caso le Chiese d'Africa, come anche di molte parti dell'Oriente, considerando non valido il battesimo amministrato dagli eretici, usavano ribattezzare l'interessato; invece a Roma si considerava valido quel battesimo e si usava soltanto sottoporre chi lo aveva ricevuto al rito della imposizione delle mani con cui, dopo l'amministrazione del battesimo, il celebrante invocava su di lui la discesa dello Spirito Santo. Non consta che fino allora fossero sorte difficoltà in merito a questa discrepanza, né le svariate lettere di Cipriano che informano sulla questione (69-75) ragguagliano circa i motivi specifici per cui S. e Cipriano ebbero a scontrarsi duramente. Dato che nella prima lettera dedicata alla questione, la 69, Cipriano risponde affermativamente al collega Magno che gli aveva chiesto se dovessero essere ribattezzati coloro che erano stati battezzati dai novaziani, e nella successiva epistola 73 osserva che costoro usavano ribattezzare i membri della Chiesa cattolica che passavano nelle loro file, si può forse ipotizzare che proprio il recente scisma di Novaziano avesse attirato l'attenzione di S. sulla discrepanza che si ravvisava in questo contesto, dato che egli vedeva i novaziani, certamente non pochi a Roma, ribattezzare i cattolici e sapeva che in molte Chiese ci si comportava in questo modo, mentre la Chiesa cattolica di Roma in casi del genere si limitava all'imposizione delle mani. Come che sia, S. decise di intervenire per imporre l'uniformità del rito, nel senso che tutte le altre Chiese si dovevano adeguare alla prassi in uso nella Chiesa di Roma. A questo riguardo si apprende da Eusebio (Historia ecclesiastica VII, 3.5.7) che il primo scontro si ebbe tra S. e Cipriano ma che il vescovo di Roma scrisse pure alle Chiese di Cilicia, Cappadocia, Galazia e regioni vicine, minacciando di rompere la comunione con loro se avessero continuato a ribattezzare gli eretici. Dal canto suo Dionigi di Alessandria, dal cui epistolario Eusebio ha ricavato queste notizie, seguiva l'uso alessandrino di non ribattezzare, ma aveva ritenuto opportuno non interferire nella prassi delle Chiese che avevano deciso diversamente. Quanto a Cipriano, egli oppose a S. la decisione di un concilio di più di settanta vescovi africani, che aveva deliberato di attenersi all'usanza, tradizionale in Africa, di ribattezzare (epp. 70 e 72), e sollecitò in proposito Firmiliano, autorevole vescovo di Cesarea di Cappadocia, il quale rispose con una lettera, compresa come 95 nell'epistolario di Cipriano, violentemente, in più punti anche ironicamente, polemica nei confronti di Stefano. Si era giunti al punto di rottura quando l'insorgere della persecuzione di Valeriano, durante la quale Cipriano ebbe a subire il martirio, interruppe la disputa. Nel corso del IV secolo, in circostanza che non si conosce, anche le Chiese d'Africa si sarebbero uniformate alla prassi romana di non ribattezzare, e Agostino, in polemica con i donatisti, avrebbe giustificato, a livello di teoria, tale prassi; in Oriente invece la pratica di ribattezzare gli eretici è variamente attestata nel IV secolo e oltre. Nell'epistolario di Cipriano non è conservata la lettera a lui indirizzata da S. con l'imposizione di adeguarsi alla prassi romana, ma i punti fondamentali del suo contenuto si ricavano dalle epistole 74 e 75. S. richiamandosi all'autorità che gli veniva, per successione, da Pietro, imponeva agli Africani di non innovare rispetto a quanto era stato tramandato ("nihil innovetur, inquit, nisi quod traditum est": ep. 74, 2), nel caso che un qualsiasi eretico avesse chiesto di passare alla Chiesa cattolica, e la tradizione voleva che gli venissero imposte le mani in segno di penitenza. Per giustificare questa prassi, S. osservava che neppure gli eretici, nel passare dall'una all'altra setta, erano soliti ribattezzare e che già gli apostoli avevano proibito di ribattezzare chi provenisse da una setta eretica e avevano ordinato che così si osservasse nel tempo a venire. In sostanza S., senza cercare di chiarire, a livello di teoria, il significato della prassi romana, l'avvalorava soltanto in base alla tradizione, che pretendeva rimontasse agli apostoli. Di contro Cipriano, mentre non ha difficoltà a rilevare l'incongruenza sia di giustificare la prassi romana assimilandola a quella degli eretici sia di far risalire agli apostoli una pratica che presupponeva l'esistenza degli eretici, comparsi invece dopo il tempo degli apostoli, oppone il ragionamento alla tradizione e articola il suo argomentare in due punti: da una parte la vera Chiesa è una sola e perciò uno solo il battesimo; l'eretico, in quanto si pone fuori della Chiesa, non ha alcun diritto di battezzare; il suo è soltanto un "lavacro profano", che non può essere considerato battesimo. Perciò, Cipriano osserva, noi non ribattezziamo gli eretici ma li battezziamo. Dall'altra l'imposizione delle mani conferisce il dono dello Spirito Santo, ma questo può essere conferito soltanto a chi è rinato spiritualmente, e questa rinascita la si ottiene soltanto col battesimo. Perciò l'imposizione delle mani ha senso soltanto come prosieguo del battesimo, ma tale è da considerare soltanto quello amministrato nella Chiesa cattolica. In sostanza, si entra nella Chiesa mercé la santificazione operata dallo Spirito Santo, e questo, che è lo spirito di Cristo, è attivo soltanto nella Chiesa di Cristo, che è soltanto quella cattolica. Molto tempo dopo, in opposizione a questo ragionamento, Agostino avrebbe giustificato la validità del battesimo amministrato dagli eretici argomentando da tutt'altro punto di vista: si sarebbe cioè fondato sul concetto dell'onnipotenza divina, osservando che l'uomo non può con la sua azione rendere inoperante la volontà salvifica di Dio, che ha voluto il battesimo amministrato nel nome di Cristo efficace per la salvezza dell'uomo, indipendentemente dalla condizione morale di chi lo amministra: il sacramento è efficace "ex opere operato" e non "ex opere operantis", cioè per virtù propria e non per quella di chi lo amministra. S. morì il 2 agosto (giorno in cui ancora oggi viene celebrata la sua memoria liturgica) del 257. In questo anno Valeriano pubblicò il suo primo editto di persecuzione a danno della Chiesa, ma la notizia che S. sarebbe morto martire si legge solo a partire da un tardo testo agiografico (risalente al VI secolo) ed è ignorata dalle fonti più antiche. Per concludere su di lui, si può osservare che il suo operato ai fini di accentuare lo spessore autoritario della primazia del vescovo di Roma non fu coronato da esito felice, perché trovò un forte ostacolo nella grande autorità di Cipriano, che ne mise in evidenza carenze e limiti: infatti, apprezzato sulla base dell'informazione attualmente disponibile, esso appare ancora velleitario e soprattutto non adeguatamente sorretto da una previa meditata valutazione delle questioni che lo avevano sollecitato e perciò da argomenti obiettivamente validi. D'altra parte, proprio la sua vicenda sta a testimoniare che ormai, date le dimensioni raggiunte dalla Chiesa e il conseguente complicarsi dei rapporti tra le diverse comunità e anche all'interno di ciascuna di esse, da più parti si cominciava ad avvertire l'opportunità, per non dire l'esigenza, di una sede d'appello al di sopra delle parti, che in Occidente non poteva essere se non la Sede romana. Fonti e Bibl.: Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I-II, Paris 1886-92: I, nr. 24, p. 154. Per le coordinate cronologiche v. il Catalogo Liberiano, contenuto nel Liber pontificalis, cui poco, e nulla di attendibile, aggiunge il Liber stesso. Tutte le notizie sulla politica primaziale di S. e le questioni in cui egli fu impegnato si ricavano da lettere di Cipriano o comunque comprese nel suo epistolario (Sancti Cypriani Episcopi epistularium [...], a cura di G.F. Diercks, Turnholti 1996 [Corpus Christianorum, Series Latina, 3C]: epistola 67, sulla questione dei vescovi spagnoli (pp. 446-62); epistola 68, su Marciano di Arles (pp. 463-68); epistole 69-75, sul battesimo degli eretici (pp. 469-604). Altre notizie sulla questione del battesimo degli eretici si leggono in Eusebio, Historia ecclesiastica VII, 3.5.7, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1908 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Eusebius Werke, II, 2), pp. 638-40, 642-48. Sull'attività di S. v.: E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 86-90; J. Zeiller, in Histoire de l'Église, a cura di A.Fliche-V.Martin, II, Paris 1948, pp. 413-16.