Benedetto, santo
Nato a Norcia o nei dintorni, di famiglia agiata e appartenente alla nobiltà di provincia - son tradizioni tardive e prive di ogni fondamento storico quelle che lo collegano alla grande famiglia romana degli Anici - fu mandato a Roma, come era uso per i ragazzi della sua condizione, a compiervi gli studi. Fu dolorosamente colpito dai disordini politici e morali della città tra la fine del regno d'Odoacre e l'inizio di quello di Teodorico; gravi accuse, inoltre, verso il 499, venivano rivolte alla persona stessa di papa Simmaco incolpato di cattiva amministrazione del patrimonio della Chiesa e di illeciti rapporti con donne. B., che proveniva da una delle regioni più intensamente cristiane d'Italia, ricca inoltre di romitori e di gruppi monastici, e che era stato educato in una famiglia di viva religiosità, se anche sua sorella Scolastica fu consacrata bambina a Dio, decise di ritirarsi a vita di pietà a Eufide (attuale Affile) con l'assistenza della sua pia nutrice. Un primo miracolo, però, attirò intorno a lui una tale curiosità, che decise allora di ritirarsi a vita eremitica, trovando rifugio in una caverna nei pressi di Subiaco (l'odierno Sacro Speco), assistito solo dalla paterna benevolenza del monaco Romano, dal quale aveva chiesto e ottenuto l'abito monastico, a lui facendo i suoi voti.
Le notizie che a tal proposito ci dà la biografia che di B. scrisse Gregorio Magno nel II libro dei suoi Dialogi, ci permettono anche di collocare la ‛ conversione ' nell'ambito della spiritualità eremitica di origine egiziana: si ricoprì infatti del prescritto mantello di pelle di capra e si ritirò in solitaria e perfetta vita contemplativa, rinunciando a ogni lavoro e contentandosi di quanto riusciva a portargli il monaco Romano. Trascorse così tre anni nella preghiera, nello studio e nella mortificazione della carne (domò, per esempio, la tentazione del ricordo di una donna amata spogliandosi nudo e rotolandosi tra i rovi), fin quando, ritrovato da un prete delle vicinanze, il giorno di Pasqua di un anno imprecisabile, ma fra i primi del VI secolo, ammaestrato proprio dall'esperienza eremitica, accettò di porsi alla testa di una comunità cenobitica: ciò accadde quando venne chiamato dai monaci di un monastero dei dintorni, che una tradizione, non confermata da fonti antiche, asserisce essere quello di Vicovaro.
Era un monastero dai costumi assai rilassati o, almeno, lontano da una disciplina regolare. Esplose allora subito un conflitto con l'energetica severità di B. che non tardò a imporre la sua equilibrata, ma ferma disciplina, in armonia con gl'ideali monastici formati nello studio e nella meditazione del Sacro Speco. Nella reazione che ne seguì fra i monaci e nell'esasperazione che dovette accumularsi al pensiero che non sarebbe stato facile liberarsi di un abate ancor giovane e comunque eletto a vita, maturò il tentativo di avvelenare Benedetto. Questi però, accortosi miracolosamente del veleno messo in una coppa di vino, lasciò subito il monastero, rimanendo, tuttavia, a Subiaco, ove non tardarono a raggiungerlo molti discepoli attratti dalla sua fama di santità. Divenuto cospicuo il loro numero, vennero allora distribuiti in dodici monasteri, disposti intorno al lago, allora formato da una diga sull'Aniene e sulle colline e montagne circostanti. Queste piccole comunità nel simbolismo del loro numero - dodici come gli apostoli, o come le tribù degli Ebrei, o come le schiere di eletti dell'Apocalisse - volevano richiamarsi anche esteriormente a quella Chiesa primitiva, di cui intendevano ripetere la forma di vita: anche se non siamo in grado di dire quale regola li reggesse, possiamo ritenere che non dovesse essere molto lontana da quella che poi fu messa per iscritto da B. a Montecassino.
La fama del santo abate si diffuse largamente fino a Roma, se dall'urbe gli vennero oblati Mauro e Placido, poi suoi discepoli carissimi, e fra i barbari dominatori: ben presto dovette avere monaci di stirpe gotica, se appunto a Subiaco e al suo lago si riferisce il miracolo del Goto che perse la lama della sua roncola nelle acque dell'Aniene e che la vide ritornare a inserirsi nel manico, per l'intervento del santo. E Romani e Goti vennero, certo, considerati alla stessa stregua, obbligati alla stessa disciplina di vita: nessuna fonte ci induce a supporre la benché minima distinzione fra monaci di diversa provenienza etnica.
Una così prospera comunità finì per suscitare l'invidia di un prete delle vicinanze, Fiorenzo, che fece di tutto per turbarne il tranquillo andamento: cominciò con l'inviare del pane avvelenato a B. che ancora una volta, prodigiosamente, se ne accorse; mandò allora donne di malaffare ad adescare i monaci più giovani o più esposti alla tentazione. L'abate intervenne a metterle in fuga. Decise però subito di allontanarsi, ben rendendosi conto di esser lui personalmente l'origine di tanta ostilità: unendo perciò zelo missionario ad amore per la solitudine, si recò sulla cima della montagna che sovrasta l'antico Casinum, e che era ancora sede di un santuario pagano, facendo appunto pensare alla presenza di gruppi ancora considerevoli di seguaci dell'antica religione romana.
È stato giustamente notato (cfr. L. Salvatorelli, S. Benedetto e l'Italia del suo tempo, pp. 86-88) che sul trasferimento da Subiaco a Montecassino ha certamente influito anche una trasformazione dell'ideale monastico di B., che sarebbe passato da una forma di monachesimo ancora intriso di tendenze eremitiche a un'altra più francamente e liberamente cenobitica. I monaci di Subiaco, dunque, avrebbero continuato l'esperienza cenobitica-eremitica, B. a Montecassino avrebbe, invece, ideato una nuova forma di vita.
B., senza distruggere il vecchio tempio, si limitò ad abbattere l'ara e la statua di Giove e a eliminare i boschi sacri. Utilizzò poi le mura esistenti per costruirvi intorno gli edifici necessari alla vita sia dei monaci che aveva portato con sé, sia dei numerosi altri che ben presto vi s'erano aggiunti.
Durante il lavoro di costruzione e organizzazione del monastero l'Italia era sconvolta dalla guerra gotico-bizantina, che raggiunse infine anche Montecassino, ove, verso il 542, venne addirittura lo stesso re goto, Totila. La tradizione raccolta da Gregorio Magno nel II libro dei suoi Dialogi, ci presenta l'incontro intriso di leggenda. Il re, volendo mettere alla prova la santità di B., fece indossare gli abiti regali al suo portaspada Rigone, e lo mandò al monastero col seguito, ma questi si sente dire dall'alto del monastero di deporre l'abito non suo e torna sbigottito dal suo sovrano. È Totila, allora, che si presenta da B., e questi, dopo avergli predetto le vicende future della sua vita, riesce ad addolcirne l'animo.
Non meno importanti, come ha sottolineato G. Penco (Storia dal monachesimo..., pp. 51-52), sono i rapporti di B. con i vescovi sia delle regioni circostanti, sui quali egli esercitò un'influenza esemplare d'indubbia efficacia, come Costanzo d'Aquino o Germano di Capua, sia di regioni più lontane come Sabino di Canosa di Puglia: ne fu, certo, rafforzato e diffuso l'ideale cenobitico. Morì il 21 marzo del 547 o di un anno subito successivo.
Al di là, tuttavia, della sua stessa influenza personale e umana, grandissima e decisiva, B. giganteggia nel Medioevo per la sua Regula. Scritta in un linguaggio semplice e piano, nella latinità corrente nel secolo VI, come è stato posto bene in luce (da Chr. Mohrmann, La latinité de st Benoît, in " Revue bénédictine " LXII [1952] 108-139), la Regula spicca fra le molte altre del suo tempo per l'equilibrio che la ispira, per la coerenza interiore che la sorregge, per il rapporto preciso e ben calcolato tra fini e mezzi.
Pur riprendendo motivi e momenti organizzativi e spirituali del primo monachesimo occidentale - è specialmente notevole l'influenza di Giovanni Cassiano - la Regula, dopo aver nettamente rifiutato le forme di vita monastica estranee a una vera vita di perfezione cristiana, ferma il suo ideale nell'attuazione di una ‛ militia Christi ', tutta spirituale, che miri a ripetere l'esempio della comunità primitiva di Gerusalemme, sotto la guida di un abate.
Questa comunità spirituale, nella sua struttura organizzativa e giuridica si presenta, poi, come una ‛ familia ' romana, ove l'abate abbia l'autorità e il potere appunto del ‛ pater familias '. La duplice faccia del monachesimo di B., quale si esprime nella densa successione dei capitoli della Regula, rimane l'aspetto più valido dell'opera sua, anche nel caso che si debba credere all'opinione di coloro - e sono ormai in molti -per cui il santo avrebbe larghissimamente attinto, e in vario modo, a una precedente Regula, assai prolissa e disordinata, nota come Regula Magistri.
Certo la Regula Benedicti ebbe una sua fortuna, dapprima lenta, poi sempre più rapida e totale sino a divenire la base del monachesimo occidentale.
La Regula trovò dapprima plauso e consenso a Roma, quando vi giunsero i monaci da Montecassino, distrutto il 577 dai Longobardi, guidati dal duca Zottone: non a caso Gregorio Magno dedica a B., come abbiamo già ricordato, l'intero secondo libro dei Dialogi. L'influenza europea di B. cominciò, tuttavia, solo con la riforma monastica voluta da s. Benedetto d'Aniane e realizzata con l'appoggio politico dei Carolingi. In tal modo la mirabile concezione benedettina del monastero come centro di vita attiva nel lavoro e nella preghiera conobbe una diffusione vastissima, pur con quelle modificazioni particolari e locali che di volta in volta poterono introdurre le varie costituzioni, vale a dire le norme applicative specifiche, con cui ogni monastero, in relazione anche a circostanze sue proprie, realizzò nella sua vita quotidiana la Regula.
Così di ispirazione benedettina fu il monachesimo di Cluny, di Gorze, di Citeaux di Camaldoli, della Grande Chartreuse, anche se ciascuna forma monastica sottolineò, accentuò o modificò questo o quel punto dell'originaria forma benedettina.
Ben si comprende, quindi, come e perché colui che del monachesimo occidentale va considerato nel sec. XII il maestro più coerente e ultimo, Gioacchino da Fiore, considera B. il maestro più alto della vita monastica, intesa come la forza animatrice e rinnovatrice della società e insieme l'iniziatore di quella religiosità libera dai legami col mondo, aperta a Dio e alla sua esaltazione, ispirata dalla carità, religiosità che costituisce, quindi, la premessa necessaria ali' ‛ Ecclesia Spiritualis ', che il grande monaco calabrese considera il culmine della storia umana e la sua conclusione.
Non si può, inoltre, dimenticare l'importanza che B. e il monachesimo che da lui si ispirò ebbero nella vita e nella civiltà europea sia sul piano culturale, perché proprio per l'opera dei monaci si salvò buona parte della cultura classica romana, sia sul piano economico sociale, perché l'attività agricola dei monaci organizzando intorno a sé quella di contadini e artigiani, fu principio di miglioramento e, in qualche caso, di rinnovamento là dove si insediarono.
Ma non è a questa grande opera di civiltà che rivolge la sua attenzione D., quanto al significato di B. nella vita della Chiesa. Ciò risulta già dal primo accenno che il poeta fa a B. di passaggio, in Cv IV XXVIII 9, là dove osserva che non è religioso solo quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile, ma chiunque viva in intimo cuore la vita cristiana.
Qui B. è evidentemente considerato come padre e maestro di vita monastica ben distinto perciò da s. Agostino, iniziatore della vita canonicale, e da s. Francesco e s. Domenico, iniziatori dei mendicanti. Va inoltre osservato che con questa presa di posizione D. accetta e fa sua la decisione del II concilio di Lione (1274) che con la costituzione Religionum diversitate, riprendendo e completando quel che era stato già affermato nel IV concilio Lateranense (1215), riconduceva tutti gli ordini religiosi esistenti appunto a B. o ad Agostino o a s. Domenico o a s. Francesco, sopprimendo tutti gli altri.
Ne viene quindi che, come D. ha parlato di s. Francesco e di s. Domenico e della decadenza dei loro ordini mendicanti, nella sua esigenza di un esame particolare, ma completo, dei vari aspetti della vita della Chiesa, affronta anche il problema del monachesimo. Non è considerato invece s. Agostino perché i canonici che ne seguirono la regola sono in realtà chierici, che si distinguono per il solo fatto di praticare la vita in comune, ma che per tutto il resto sono solo e unicamente sacerdoti.
D. presenta e affronta il giudizio sul monachesimo nel canto XXII del Paradiso, nel cielo di Saturno ove gli appaiono gli spiriti contemplanti.
Per ben comprendere l'episodio in tutta la sua importanza va ricordato che nel canto precedente D. ha mostrato un'altra grande figura del monachesimo, s. Pier Damiani, che indica in semplicità di parole, ma con intensità di sentimento, il valore e l'importanza dell'ideale contemplativo proprio del monaco (XXI 106-135). Il ricordo dell'eremo sul Catria che suole esser disposto a sola latria, il pensiero della vita interamente rivolta a servire Dio in rigorosa penitenza, anche nei cibi e nella paziente sopportazione dei caldi e geli, l'appagamento totale ne' pensier contemplativi e l'accenno infine, sobrio ma fermo, alla decadenza, delineano una figura di monaco semplice e pur in pieno rilievo che nella condanna dei cardinali degeneri sembra preannunciare la condanna di quell'altra parte della Chiesa che è il monachesimo, anch'esso decaduto. Si realizza così un altro momento del ‛ climax ' ascendente di condanna di tutta la Chiesa come realtà organizzata, che culminerà nel canto XXVII del Paradiso con l'invettiva di s. Pietro ( vv. 19-27, 40-66).
Sin dalla battuta iniziale B. esprime uno spirito ardente di carità. Leggendo, infatti, nel pensiero di D., prima ancora d'esserne richiesto, presenta subito sé stesso con sinteticità potente in ciò e per ciò che ha costituito la sua grandezza, Montecassino e il suo monastero (XXII 31-51). Nulla, infatti, dice della sua origine e della sua prima ‛ conversione ' monastica, nulla delle vicende di Subiaco, pur così caratteristiche e rilevanti: e la cosa è tanto più degna di nota se, come tutto induce a ritenere, D. ha ricavato alcuni degli elementi, almeno, relativi al monastero cassinese, proprio dai Dialogi di Gregorio Magno, che quelle vicende racconta in gran ricchezza di particolari, anche prodigiosi. Ed è appunto da Gregorio (Dialogi II 21), che riprende D. il particolare del monte, il Cairo, sul cui fianco - ritorna qui il termine costa adoperato già per indicare la posizione di Assisi (XI 49-50) - a Cassino abitavano ancora dei pagani, mentre tutta del poeta è l'antitesi con cui si staglia netto il santo monaco: e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che 'n terra addusse / la verità che tanto ci soblima (vv. 40-42). A Gregorio Magno e al passo già ricordato ci conduce ancora l'indicazione del successo che arrise all'opera di B., che non convertì solo gli abitanti di Cassino, ma quelli delle terre circostanti, anch'essi ancora vittime dell'idolatria. Poi, abbandonando ogni ricordo di fonti, il discorso di B. assume un andamento e un senso tutto proprio, e dantesco. Con lui sono Macario e Romualdo, altri grandi monaci, e poi tutti i monaci benedettini che dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo (vv. 50-51), esaltando così la grande virtù della ‛ stabilitas ' che non va intesa come sola volontà di rimanere nel monastero, ma anche proposito fermo di persistere nella propria adesione alla vita monastica.
Le parole di B. a D. non hanno solo manifestato una persona, ma piuttosto rivelato un'anima: quella del monaco ideale, tutto carità benevola e bontà paziente. Le sue parole non mirano tanto a esprimere un rilievo di figura, quanto a indicare la pienezza interiore di chi ha saputo vivere in tutta la sua profondità un'esperienza integrale di contemplazione. Il tono del discorso, sin dall'inizio preciso, ma semplice, libero da ogni sentimentalismo, da ogni retorica come da ogni sentore, sia pur minimo, di superbia, ha un suo perfetto equilibrio d'espressione e, insieme, di giudizio. Se egli riuscì a sconfiggere il paganesimo di Cassino e delle ville circunstanti, è stato merito della Grazia, di cui Dio volle che rifulgesse; lo stesso ardore della vita mistica è originato dal caldo dell'amore di Dio, che fa nascere i fiori e ' frutti santi (v. 48), i risultati cioè della nostra attività ordinata al raggiungimento della beatitudine eterna. Così sembra risultare da Tommaso (Sum. theol. I II 70 1 " Opera igitur nostra inquantum sunt effectus quidam Spiritus Sancti in nobis operantis, habent rationem fructus: sed inquantum ordinantur ad finem vitae aeternae, sic magis habent rationem florum ": il passo è indicato dal Torraca, che però ne ricava un'interpretazione non esatta.
Il tono delle parole di B. induce D. a una richiesta, che più volte prima s'era avvertita inespressa e che qui il poeta avanza senza esitare, sia pure con rispettosa e trepida fiducia: Però ti priego, e tu, padre m'accerta / s'io posso prender tanta grazia, ch'io / ti veggia con imagine scoverta (vv. 58-60). Gli risponde con immutata benevolenza e carità il santo, chiamandolo fratello e assicurandolo che il suo desiderio sarà adempiuto solo nell'Empireo, ove ogni aspirazione trova il suo compimento nella beatitudine della visione di Dio e nello stato di perfezione che gli è proprio. All'Empireo sale, infatti, la scala che D. ha già vista e che simboleggia i gradi dell'ascesa contemplativa. È la scala - continua B. - che apparve a Giacobbe poggiata sulla terra e alta fino a perdersi nel cielo, su cui salivano e scendevano gli angeli.
A questo punto il discorso del santo monaco, senza mai dipartirsi da un tono di sereno equilibrio di giudizio, si fa intenso e meditativo, raggiungendo proprio per la sua pacatezza una profondità di penetrazione e una ricchezza di sintesi nell'articolato giudizio sui monaci e sulla Chiesa, che potrà esser superato per vigoria d'accenti e forza d'apostrofe, non certo per efficacia espressiva. Nessun monaco più, ormai, continua B., ascende la scala della contemplazione mistica, perché nessuno stacca i piedi dalla terra, anzi la mia stessa regola serve solo a imbrattar carte. I monasteri che solevan esser centri di ricchezza spirituale sono oggi divenuti delle spelonche - ed è inevitabile il ricordo dell'Evangelo ove Gesù Cristo scaccia i mercanti dal tempio, perché hanno trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Matt. 21, 13) -; la cocolla monastica è divenuta una sacca piena di farina cattiva. La ragione è in una delle più profonde convinzioni di D., che vien messa in bocca anche al patriarca cassinese: è sempre la cupidigia, per cui le ricchezze dei monasteri vengono usate a fini indegni, tanto che se ne dovrà render conto, e severamente, dinanzi al giudizio di Dio. E, precisa D., la più colpevole usura non offende Iddio quanto quelle rendite, per cui il cuore dei monaci diventa folle. Poi il discorso di B., pur mantenendo il suo tono severo quanto distaccato, s'eleva a ribadire il principio fondamentale che dovrebbe orientare l'uso dei beni mondani nella Chiesa: quantunque la Chiesa guarda, tutto / è de la gente che per Dio domanda; / non di parenti né d'altro più brutto (vv. 82-84).
Viene qui ripresa, in tre versi, di scorcio, ma con chiarezza anche più esplicita, la conclusione di Mn III X 17, ove D. dichiara che il vicario di Cristo poteva aver dei beni, non tanquam possesor, sed tanquam fructuum pro Ecclesia, pro Cristi pauperibus dispensator. Ancora una volta, perciò, tutta la corruzione della Chiesa, e quindi dei monaci, vien fatta dipendere dal cattivo uso delle ricchezze, impiegate a scopi egoistici e non rivolte al soccorso di coloro che hanno bisogno. E sono le ricchezze appunto che sviano i buoni propositi e le buone intenzioni, tentando la debolezza umana e piegandola.
A tanta arrendevolezza al male, provocata dalle ricchezze, B. contrappone gli splendidi frutti della povertà portando tre esempi, di significato universale per la vita della Chiesa. Pietro, origine del clero e della gerarchia, cominciò sanz'oro e sanz'argento (Pd XXII 88); egli stesso iniziò la vita religiosa nella preghiera e nelle privazioni - accenna qui D. al periodo di vita eremitica penitente a Subiaco? - e s. Francesco nell'umiltà. Insomma, se di ognuno degli ordini della Chiesa si vede il principio, si noterà che è diventato bruno ciò che era bianco, un vero e proprio rovesciamento totale. Come però fu mirabile l'arresto del corso del Giordano per consentire il passaggio di Giosuè o l'apertura del Mar Rosso per il transito degli Ebrei che lasciavano l'Egitto, altrettanto prodigioso sarà il soccorso che Dio prepara per la sua Chiesa.
Si chiude così con un annuncio profetico di rinnovamento, che conferma quello già, prospettato da Beatrice ai vv. 13-18, la parte del canto che riguarda B.; ci sia consentito qui di precisare che la profezia non sembra riferirsi, come ritiene qualche commentatore (ad es. Torraca), al solo monachesimo, ma all'intera Chiesa, per cui anche B. va collocato nel gruppo dei personaggi a cui D. affida, come abbiamo già notato, la sua profezia. Va infine osservato che il desiderio del poeta di vedere B. sarà appagato effettivamente nell'Empireo, nella candida rosa, ove gli viene additato da s. Bernardo, tra s. Francesco e s. Agostino (Pd XXXII 35).
Bibl. - Su B. basterà rinviare a L. Salvatorelli, S. Benedetto e l'Italia del suo tempo, Bari 1929; G. Falco, Santa Romana Repubblica, Milano-Napoli 19634, 81-97, affascinante profilo di B. con ulteriori indicazioni bibliografiche. Per l'importanza di B. nella storia monastica si veda l'ottimo G. Penco, Storia del monachesimo in Italia, s.l. né d. [ma 1961]. Si veda inoltre la voce B. di L. Salvatorelli e S. Simonetti, in Dirion. biogr. degli Ital. VIII (1966) 279-294. Per B. nell'opera di D., oltre ai commenti al poema, si vedano soprattutto le Lecturae Dantis relative, e cioè M. Bontempelli, in Lect. dant. 1787-1803; A. Chiari, Il canto di s. B., in Tre canti danteschi, Varese 1954; T. Leccisotti, Il canto XXII del Paradiso, Torino 1964; G. Varanini, Il canto XXII del Paradiso, Firenze 1966; M. Pecoraro, Il canto XXII del Paradiso, ibid. 1966; S. Pasquazi, S. B., in All'eterno dal tempo. Studi danteschi, ibid. 1966, 277-313.