Fuller, Samuel
Regista, produttore e sceneggiatore cinematografico statunitense, nato a Worcester (Massachusetts) il 12 agosto 1912 e morto a Los Angeles il 31 ottobre 1997. Indipendente per vocazione, esuberante, versatile e anticonformista, divenne uno specialista del cinema di genere a basso costo e firmò, sempre a partire dalle sue sceneggiature, molti b-movies destinati a trasformarsi in classici moderni. La concisione e la compattezza, il dinamismo e la veemenza di The steel helmet (1951; Corea in fiamme), Pickup on South street (1953; Mano pericolosa, contestata candidatura alla Mostra del cinema di Venezia) o Run of the arrow (1957; La tortura della freccia) lo fecero relegare, all'acme della guerra fredda, nel ghetto degli artisti 'guerrafondai e anticomunisti'; queste stesse caratteristiche furono poi rivalutate dai critici e dai cineasti europei (soprattutto dai leader della Nouvelle vague), che fecero di F. il modello ideale di un cinema 'primitivo' ed essenziale, vitalistico e visionario. Partecipò come attore ad alcuni film, tra cui Pierrot le fou (1965; Il bandito delle undici) di Jean-Luc Godard, Der amerikanische Freund (1977; L'amico americano) di Wim Wenders, e Golem ‒ L'esprit de l'exil (1992; Golem ‒ Lo spirito dell'esilio) di Amos Gitai, spesso in qualità di nume tutelare di ammiratori e discepoli autorevoli quali Godard, Dennis Hopper, Wenders e Steven Spielberg.
Quando perse i genitori, F. si trasferì da Boston a New York per dedicarsi alla carriera di giornalista. Dal 1931 iniziò a pubblicare racconti e romanzi gialli (alcuni poi trasposti sul grande schermo) e a scrivere sceneggiature su commissione. Nel 1942, dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti, fu richiamato alle armi e combatté dall'Africa alla Sicilia, dalla Normandia alla Germania, ottenendo tre importanti decorazioni. Alla fine del conflitto, il suo romanzo The dark page (trad. it. 1946) ottenne segnalazioni entusiaste e il grande Howard Hawks gli chiese di trarne la sceneggiatura per un film, girato successivamente da Phil Karlson (Scandal sheet, 1952, Ultime della notte). La sua carriera come regista iniziò con due western anomali e a basso budget, I shot Jesse James (1949; Ho ucciso Jesse il bandito) e The baron of Arizona (1950; Il barone dell'Arizona): il primo, dimesso sul piano spettacolare, aggiorna la leggenda del noto bandito con spiazzanti ondate di odio e un senso di sgradevole claustrofobia; il secondo, saga di un cavalleresco truffatore interpretato da Vincent Price, riformula i topoi dell'avventura con sardonico e provocatorio distacco. Il valore di F. fu ribadito da The steel helmet, girato con esiguità di mezzi e tuttavia capace di restituire tutta la brutalità, la disperazione e il parossismo di un episodio della guerra in Corea: bersagliato all'epoca dalle proteste della sinistra filosovietica, il film scolpisce, tra le coltri di nebbia e i lampi delle sparatorie, un'impressionante dimensione fisica delle battaglie e descrive con ruvido pessimismo ed equanime fermezza il duro confronto tra l'emotività dei comportamenti yankee e l'impassibilità ieratica degli orientali.Grazie all'insperato successo di pubblico, F. ottenne un contratto di sette anni con la 20th Century-Fox, per la quale sceneggiò e diresse, tra l'altro, un nuovo film di guerra amaramente patriottico Fixed bayonets (1951; I figli della gloria), l'appassionato omaggio al giornalismo pionieristico Park row (1952), lo stringato e cinico poliziesco House of bamboo (1955; La casa di bambù) e Pickup on South street. Nell'ottica di questa magistrale spy story, casualmente avviata dalle imprese di un borsaiolo interpretato da Richard Widmark, sia la devianza malavitosa (nella versione italiana lo spionaggio diventa traffico di droga) sia le trame della guerra fredda risultano il portato di una lotta comune per la sopravvivenza: più che dall'anticomunismo, l'autore appare ispirato da una polemica simpatia per i reietti e gli emarginati e dalla morbosa attrazione per i retroscena notturni della metropoli newyorkese. Nel 1956 F. riuscì a fondare una propria casa di produzione, la Globe Enterprises, con la quale produsse subito Run of the arrow per la RKO, l'anno dopo China gate (La porta della Cina) e Forty guns (Quaranta pistole) per la 20th Century-Fox, e infine The crimson kimono (1959; Il kimono scarlatto) e Underworld U.S.A. (1961; La vendetta del gangster) per la Columbia Pictures. I temi fulleriani ‒ visceralmente tesi a recuperare il carattere e l'identità dell'America ‒ vi apparvero ormai nella piena maturità espressiva e, in particolare, la cruda odissea del soldato sudista O'Meara adottato dai Sioux di Run of the arrow e l'incontro/scontro tra il pistolero professionista e la regina della prateria di Forty guns costituirono i cardini della successiva ed entusiastica riscoperta da parte della critica francese. All'inizio degli anni Sessanta, il suo stile geniale nelle soluzioni tecniche, trasgressivo e incisivo nelle commistioni fra verità e romanzesco e la sua vocazione da filmmaker non omologato, estraneo all'establishment hollywoodiano, si confermarono in alcuni episodi dei serial televisivi The Virginian e Iron horse e in titoli come Merrill's marauders (1962; L'urlo della battaglia), controcanto bellico sull'eroismo involontario della soldataglia, The naked kiss (1964; Il bacio perverso), eccentrico psico-thriller basato su un suo romanzo, e soprattutto Shock corridor (1963; Il corridoio della paura), icastico resoconto della missione di un giornalista che si fa internare per indagare su un delitto compiuto in manicomio. Questo film riassume, nelle cadenze di un'allucinante discesa negli abissi interdetti della psiche, tutti i suoi temi e le sue ossessioni più personali: la metafora delle alienazioni (anche sessuali) che sconvolgono l'animo umano; l'odio e l'intolleranza, la paura e il caos come vincoli del codice societario; la barbarie innescata da ogni manicheismo ideologico e morale. In parte a causa dell'aspra controversia con i produttori di Shark! (Quattro bastardi per un posto all'inferno) girato nel 1967, uscito negli USA nel 1970 e rititolato nel 1975 Maneater, la sua carriera si bloccò misteriosamente per molti anni, nel corso dei quali girò soltanto in Germania l'estroso thrilling, tratto da un suo romanzo, Tote Taube in der Beethovenstrasse (1972; Un piccione morto in Beethovenstrasse). Proprio in questo periodo F., sposatosi in seconde nozze con l'attrice Christa Lang, cominciò a intensificare i rapporti con i giovani cineasti, che ne avevano fatto un punto di riferimento, e i viaggi in Europa, dove il suo aspetto ‒ piccolo di statura, una corona di capelli candidi, una mimica di infervorata comunicativa, il bicchiere sempre in una mano e un maxi-sigaro nell'altra ‒ diventò familiare ai frequentatori dei festival. Proprio a Cannes rientrò trionfalmente, presentando in concorso nel maggio del 1980 la trasposizione del suo romanzo, The Big red one (Il Grande uno rosso), opera autobiografica cui pensava da sempre: si tratta di un racconto di formazione che accompagna un 'roccioso' sergente (Lee Marvin) e quattro reclute della squadra d'assalto della I divisione di fanteria statunitense (il cui simbolo era un grande 1 rosso cucito sulla giubba e nella quale F. era stato realmente arruolato) in un girone infernale, le cui tappe sono altrettante battaglie della Seconda guerra mondiale, dalla campagna d'Africa (nov. 1942-maggio 1943) agli sbarchi in Sicilia (giugno-luglio 1943) e Normandia (giugno 1944), alla liberazione della Cecoslovacchia (apr. 1945). Con la mirabile capacità di sintesi acquisita in trent'anni di pratica artigianale, F. elimina ogni effetto superfluo e trasforma la sua summa narrativa in un apologo sulla sopravvivenza, un affresco insieme iperrealista e simbolico che passa con disinvoltura dal registro lirico al grottesco, dal macabro al sublime e persino allo humour: l'uomo non impara nulla dalla storia che si ripete, così, sempre uguale. I successivi White dog (1982; Cane bianco), Les voleurs de la nuit (1984) e Sans espoir de retour (1989; Strada senza ritorno) gli consentirono solo a tratti di ritrovare la stessa lancinante purezza e il suo indomito anarchismo si affidò, più che altro, alle ghignanti apparizioni in The last movie (1971; Fuga da Hollywood) di Hopper, 1941 (1979; 1941: Allarme a Hollywood) di Spielberg, Le sang des autres (1984; Il sangue degli altri) di Claude Chabrol, Sons (1989) di Alexandre Rockwell e Scènes de la vie de bohème (1992; Vita da bohème) di Aki Kaurismäki, oltre a quelle in Der amerikanische Freund, Der Stand der Dinge (1982; Lo stato delle cose), Hammett (1982; Hammett ‒ Indagine a Chinatown) e The end of violence (1997; Crimini invisibili) tutti e quattro di Wenders, suo cultore più tenace.
Samuel Fuller, a cura di D. Will, P. Wollen, Edinburgh Film Festival ‒ Scottish International Review 1969; P. Tortolina, A. Rubini, Il cinema di Samuel Fuller, Incontri cinematografici Salsomaggiore Terme, Parma 1982; V. Caprara, Samuel Fuller, Firenze 1984.