DE RENZI, Salvatore
Nacque a Paternopoli (prov. di Avellino) il 19 genn. 1800, da Donato e Maria Rosaria Del Grosso. La famiglia, "già ricca e agiata" a dire del figlio Enrico (Necrol., p. 18), era in condizioni talmente disagiate che della educazione del D. dovette farsi carico uno zio sacerdote, Giuseppe De Renzi, che però mancò prima ancora che il giovane finisse gli studi universitari.
La sua formazione avvenne nella facoltà di medicina dell'università di Napoli, dove ebbe maestri tra gli altri B. Vulpes, S. M. Ronchi ed E. Falcetti. Nel gennaio 1821, studente non ancora laureato, partecipò, vincendolo, a un concorso per ufficiale sanitario di terra. Dimostrando fin d'allora simpatie per gli ideali liberali, si fece assegnare all'ambulanza del generale Guglielmo Pepe, che nel 1820 si era messo alla testa dei moti costituzionali. Fu però subito dopo, nel corso della reazione borbonica, destituito e costretto a nascondersi.
Laureatosi giovanissimo, presumibilmente nel 1822, in medicina e chirurgia, partecipò al concorso per un posto di aiuto presso la clinica medica dell'università di Napoli. Risultò vincitore, ma venne destituito per motivi politici. Iniziò quindi l'attività professionale presso l'ospedale S. Giuseppe e S. Lucia, dove nel 1824 fu nominato "istruttore dei ciechi": modesto incarico che gli dette occasione per la pubblicazione di due scritti di carattere psicologico (Sull'indole morale dei ciechi, Napoli 1827; Lettera al dott. Guillié sull'indole morale dei ciechi, ibid. 1828). Le sue idee politiche, espresse tra l'altro nel breve romanzo Imartiri americani (ibid. 1824) ostacolarono però la sua carriera che per tutti gli anni Venti conobbe solo scarsi progressi. A in questo periodo, tuttavia, che cominciò a interessarsi dei problemi più rilevanti per la politica sanitaria (malattie epidemiche e infettive, statistica sanitaria, vaccinazione antivaiolosa, topografia medica), creandosi competenze delle quali il governo borbonico non potrà far a meno. Nel 1826 iniziò infatti a lavorare nel Reale Istituto vaccinico, del quale diverrà socio nel 1836 e segretario perpetuo nel 1840. La prima opera di un certo respiro (Miasmi paludosi e luoghi del Regno di Napoli dove si sviluppano, ibid. 1826) è dedicata non solo alla malaria, che ne è l'oggetto principale, ma anche al colera e ad altre affezioni epidemiche.
In essa il D., pur non dichiarandosi in grado di fornire nuove ipotesi sull'etiologia della malaria, delineava con ammirevole chiarezza una serrata analisi critica del vecchio concetto di miasma e sviluppava l'idea di virus (inteso come sostanza patogena trasmissibile di natura ignota e dotata di diverse velocità di riproduzione a seconda dei casi) quale base di altre forme epidemiche.
L'opera, che si chiude con l'indicazione "fine del vol. I", era forse intesa dal D. come prima parte della vasta indagine sulle condizioni igieniche e sanitarie del Regno di Napoli, che invece pubblicherà in tre volumi, come Osservazioni sulla topografia medica del Regno di Napoli (ibid. 1828-1830) e poi ancora, in forma ridotta ma aggiornata, come Topografia e statistica medica della città di Napoli, con alcune considerazioni sul Regno intero (ibid. 1838). In queste opere il D. descrive le caratteristiche geologiche, geografiche e climatiche del Regno in rapporto alle condizioni e all'assistenza sanitarie, fornendo preziosi dati sulle condizioni di vita, sulle abitudini alimentari, sulla statistica delle malattie e sull'assistenza ospedaliera.
Il vasto e aggiornato quadro delle condizioni igieniche e sanitarie del Napoletano che il D. veniva così tracciando e il clima politico più tollerante seguito alla salita al trono, nel 1830, di Ferdinando II fecero sì che nel periodo 1830-1848 - definito da F. De Sanctis (La letteratura italiana del sec. XIX, Bari 1951 pp. 54, 115) "intervallo di tolleranza concesso dalla reazione borbonica allo sviluppo intellettuale"- il D. venisse considerato con minore ostilità dal governo: questo, anzi, gli affidò, a varie riprese, incarichi relativi all'organizzazione delle strutture sanitarie pubbliche. Nel 1832 fu nominato medico maggiore all'ospedale di S. Maria di Loreto e medico ordinario all'ospedale degli Incurabili; nello stesso anno fu creato cavaliere dell'Ordine di Francesco I e nominato, con decreto reale, ispettore di sanità.
Particolarmente apprezzato fu il suo impegno in varie campagne di vaccinazione, che intraprese a partire dal 1827 e che gli meritarono l'elogio di varie società scientifiche, tra cui la Jenner's Society di Londra e l'Académie des sciences di Parigi. Questa sua attività non fu limitata al solo Regno di Napoli: al D. si deve infatti l'introduzione della pratica della vaccinazione anche negli Stati della Chiesa, merito che gli verrà ufficialmente riconosciuto nel 1842 con il conferimento, da parte di papa Gregorio XVI, di una medaglia d'oro.
Aveva intanto fondato nel 1831 un proprio giornale medico, Filiatre sebezio, che continuò a pubblicare a proprie spese, sebbene con qualche interruzione, fino al 1869, quando fu assorbito da Liguria medica. Qui il D. pubblicò una vasta serie di indagini statistico-epidemiologiche e i risultati delle sue campagne di vaccinazione.
Benché avesse cominciato a interessarsi di storia della medicina fin dal 1832, gli anni Trenta lo videro impegnato principalmente in studi di patologia relativi, in particolare, al colera, al tifo, alla malaria, al tarantismo e ad altre malattie principalmente infettive che il D. definiva "popolari" (Dell'obbligo che corre al medico di fare particolare studio delle malattie popolari, Napoli 1838).
La bibliografia del D. relativa a questi temi, benché ancora non completamente precisata e indagata, è piuttosto vasta e giustifica la grande fama di patologo che lo accompagnò nel decennio successivo, quando egli invece si volse quasi interamente alla storia della medicina. In questi studi tuttavia non fu in grado di portare contributi significativi all'etiologia delle varie malattie infettive. 1 vari opuscoli che dedicò ad esempio al tifo (Storia del morbo petecchiale nosocomiale sviluppatosi nel Reale Ospizio di S.M. di Loreto in Napoli nella primavera del 1833, ibid. 1833; Sulla febbre tifoide in Napoli nel 1838, ibid. 1838; Sulle malattie in generale especialmente sulle febbri tifoidi curate nell'ospedale di S.M. di Loreto, ibid. 1838), pur abbozzando già abbastanza chiaramente sul piano diagnostico la distinzione tra tifo addominale o febbre tifoide e tifo esantematico o petecchiale, rimanevano, quanto all'etiologia e alla terapia, nei limiti delle cognizioni del tempo. Fu del resto solo nel 1880 che C. J. Eberth, allievo di R. Virchow, descrisse il batterio del tifo (Die Organismen in den Organen bei Typhus abdominalis, in Archiv für pathologische Anatomie und Physiologie und für klinische Medicine, LXXXI [1880], pp. 58-74). Sicché merito precipuo del D., come del resto del noto saggio del Virchow sullo stesso argomento (Mitteilungenüber die in Oberschlesien herrschende Typhus-Epidemie, ibid., II [1849], pp. 143-322), fu quello di mettere in rilievo il ruolo preventivo che un'adeguata politica sanitaria e igienica assume nella cura di queste affezioni. Analogamente per il colera, che colpi Napoli nel 1836 e al quale dedicò un più ampio studio (Sul cholera morbus, Napoli 1836), il D. riuscì, mediante l'adozione di attente misure igieniche, a portare la percentuale di guarigione nell'ospedale di S.Maria di Loreto sopra il cinquanta per cento, mentre gli altri ospedali napoletani facevano registrare il 45-46 per cento.
Al 1832 risalgono anche i suoi primi studi di storia della medicina relativi, all'inizio, principalmente alla scuola salernitana. Tuttavia la prima grande opera fu dedicata alla Storia della medicina italiana (Napoli 1845-1848), che abbraccia in cinque ponderosi volumi l'evoluzione della medicina in Italia a partire dall'epoca etrusca fino alla fine del sec. XVIII.
Il D. non tace l'ispirazione fortemente vichiana della sua storia, che inserisce l'evoluzione della scienza e in particolare della medicina nel quadro più, ampio dello sviluppo della cultura, ponendolo alla base del progresso civile e politico. Questa ascendenza culturale e l'esplicito riferimento agli ideali giobertiani conferiscono alla Storia del D. un'impostazione marcatamente politica che traspare tra le righe della trattazione nei primi quattro volumi per affermarsi esplicitamente nel quinto, sfuggito, come scrive lo stesso autore nella prefazione, alla "forbice inesorabile della censura, la quale tarpava le ale ad ogni generoso pensiero, e spesso mi ha obbligato nei precedenti volumi a nascondere il vero sotto il velo di studiate parole".
I principî ispiratori della storiografia del D. vanno infatti cercati nel capitolo XIV e ultimo dell'opera, gedicato appunto alle Riflessioni generali sulla storia della medicina in Italia. Qui il D., riferendosi al Vico come a "una mente illuminata che, preludendo il suo secolo, additava nella storia delle scienze la vera sorgente del progresso del sapere e del perfezionamento della specie umana" (V, p. 958), vede la storia della scienza come la disciplina che "riconciliando l'osservazione con la ragione, l'esperienza con la fede, il presente col passato promette nuovi destini all'umanità" (ibid., p. 959), soprattutto in quegli anni, quando, a suo dire, essa non veniva più intesa come "narratrice di fatti nella loro successione cronologica; ma severa apprezzatrice delle cagioni delle vicende sociali". Per questa via il D. giungeva a evidenziare un ruolo non più solamente accessorio della storiografia scientifica rispetto al progresso scientifico, sottolineando che: "Le scienze in tal modo han ricevuto appoggio; perché siffattamente sono considerate come il risultamento finale dell'eterna legge che regge le intelligenze nel perenne loro corso, ed a poco a poco si vanno liberando da' ceppi de' pregiudizii e degli errori, e preparano le nuove strade del loro progresso. Un giorno era facile lo studio della Storia, ed era fidato più alla memoria, che alla critica; perché allora la scienza era riguardata isolatamente. Ma ora la scienza è considerata come uno degli attributi della umanità, come la risultante di svariate circostanze, che hanno agitato la specie umana nella vita dei secoli; come la manifestazione de' rapporti dell'intelletto con le vicende delle Società; come la face, che illustra la civiltà tutta cristiana de' tempi nostri, la quale promette fare sparire i confini naturali delle regioni, togliere gli impedimenti de' mari e dei deserti, e riunire l'umanità in una famiglia, e fondere tutte le stirpi in un solo pensiero, il quale diventerà universale per gli effetti civili, italiano per l'origine. Vico dunque viene a mettersi naturalmente alla testa dell'odierno sistema scientifico, che in mezzo al minuto tagliuzzamento, nel quale le scienze si dividono e si suddividono per analisi esagerata, feconda il germe di una sintesi armonica e vasta, onde tutte le parti dell'umano sapere si rannodano a formulare i veri principii della scienza universale. E questa sintesi elevata, questa vastissima base, sulla quale s'innalza l'immensa piramide del Progresso e della civiltà, è la storia studiata secondo la mente di Vico, svolta, ampliata, applicata da' tanti belli e valorosi ingegni de' tempi nostri" (ibid., pp. 950-960).
Questi interessanti spunti metodologici vengono però sopraffatti, nella concreta trattazione storica, dall'impegno politico. Caratteristica dominante della storiografia del D. è infatti, insieme alla vastità del materiale raccolto, il suo essere forse troppo strettamente finalizzata alla situazione politica italiana. Il compito che il D. si prefiggeva era quello di evidenziare il primato scientifico degli Italiani per farne la base della unificazione e della riforma politica secondo un ideale liberale. "La storia deputata a segnare i fasti della stessa umanità stabilisce i documenti di questo primato, il quale, nel diverso grado di benemerenza de' popoli, distingue sempre i tipi originali dagl'imitatori; i primi maestri da' discepoli anche felici ed operosi; le idee che hanno forza espansiva e virtù generativa da' perfezionamenti parziali e temporali" (ibid., p. 964). Sicché l'ultima pagina dell'opera ospita un vero e proprio appello politico: "Profittate quindi, o Italiani, delle lezioni della Storia. Riunitevi, e consultando le forze intellettuali, che dalla Provvidenza vi furono concesse con una speciale larghezza, lavorate intorno un disegno uniforme ed un indirizzo largo ed elevato ... Scissi e separati non potevate conoscervi, non potevate riunire le vostre forze, non potevate dirigerle ad un disegno grande e premeditato. I Congressi scientifici cominciarono i primi ad infievolire queste infauste barriere, il portentoso insorgimento politico le distruggerà. Ritornati della stessa famiglia, quali ci avea fatti Iddio, formiamoci un centro scientifico, un solo convegno che ci riunisca e ci rappresenti; e così lo scettro del sapere non sarà più in mani straniere, e l'Italia tornerà ad essere l'Areopago della Terra" (ibid., p. 980).
A questo forte inipegno politico vanno imputate alcune significative distorsioni storiografiche, come l'attribuzione a una medicina etrusca difficilmente documentabile di un influsso sulla nascita dell'arte medica greca, o l'identificazione dell'origine della medicina occidentale con dottrine tardopitagoriche, identificazione aggravata, oltre tutto, dall'attribuzione del trattato ippocratico Antica medicina ad Alcmeone di Crotone. Meno azzardate, ma sempre discutibili, le argomentazioni che il D. adduce per rivendicare ad A. Cesalpino la scoperta della circolazione del sangue (ibid., III, p. 362).
Il suo impegno politico, già noto al governo borbonico, e manifestato pubblicamente con l'attiva partecipazione a quasi tutti i congressi degli scienziati (di quello di Genova del 1846 fu anche vicepresidente), gli ostacolò sempre la carriera accademica.
Il primo volume della Storia aveva visto la luce esattamente un anno dopo la conclusione di un concorso per la cattedra di storia della medicina nell'università di Napoli, al quale il D. aveva partecipato, e che si era trascinato per vari anni tra scandali e alterne vicende.
Tale insegnamento vantava nell'università di Napoli un'antica tradizione, essendo stato istituito nel 1778, quando il cappellano maggiore del Regno, prefetto dello Studio, permetteva al dottor V. Garzia di insegnare lo specimen Historiae medicae. Nel piano della riforma murattiana del 1º genn. 1812tale insegnamento fu mantenuto e conferito ad A. Miglietta. Rimasta vacante la cattedra, fu messa a concorso con rescritto reale solo il 22 marzo 1839, col nuovo nome di "testo di Ippocrate e storia della medicina". Erano candidati, oltre al D., A. Racioppi e P. Manfrè; questi, in precedenza amico e collaboratore del D., dopo la conclusione del concorso che vedeva vincitore lo stesso D., riuscì a far sì che il re gli negasse il conferimento della cattedra. Interessanti notizie sul concorso, che si chiuse ufficialmente solo il 25 maggio 1844, sono contenute in un rarissimo volumetto miscellaneo che contiene opuscoli relativi a concorsi a cattedre della università di Napoli (cfr. Belloni, Sull'ippocratismo..., 1974) e nell'opuscolo di G. Nicita, Analisi del concorso per la provvista della cattedra del testo di Ippocrate e della storia della medicina. Nel frattempo l'incarico dell'insegnamento di storia della medicina era stato dato a F. Ferrara, che lo tenne dal 1841 al 1848. A questo succedettero D. Minichini dal 1848 al 1857 e S. Farina dal 1858 al 1860.
Amareggiato dalla rinnovata ingerenza del potere politico nella sua carriera accademica, il D., senza trascurare i suoi studi sulla scuola salernitana, prese a partecipare più attivamente ai lavori dei congressi degli scienziati, pronunciandosi non solo su problemi di politica sanitaria, come ad esempio quello delle risaie allora molto sentito, ma anche su questioni di etica e metodo della medicina, entrando nel dibattito sull'ippocratismo con una posizione molto vicina a quella di F. Puccinotti, assieme al quale lavorò alla costituzione di una scuola ippocratica italiana, che non riuscì però a realizzare.
Il recupero dell'ippocratismo veniva promosso allora, come già alla fine del Settecento, da quelle forze culturali che vedevano nel proliferare di sistemi teorici il discostarsi della medicina dal metodo basato sull'osservazione e sull'induzione che doveva esserle proprio. A questo Puccinotti aggiungeva, negli anni '40, l'esigenza di una riforma morale della professione medica corrotta dalla sete di guadagno e di prestigio. A questi stessi ideali si ispirarono gli scritti ippocratici del D. (Intorno alla medicina ippocratica ed allo spirito di essa conservatosi sempre in Italia, Napoli 1843; Si rivendica al Alcmeone di Crotone l'opera "De prisca medicina" attribuita ad Ippocrate, ibid. 1846; Della storia della medicina e delle dottrine d'Ippocrate. Discorsi tre di S. De Renzi, ibid. 1858), che però distinguevano nella metodologia ippocratica un aspetto più marcatamente speculativo attribuito alla scuola ionica e un aspetto empirico, basato su osservazione e caute deduzioni, che sarebbe stato di origine italiana perché nato nella scuola di Crotone. Si venivano così precisando le linee del metodo che il D. proporrà ai suoi studenti nell'indagine patologica quando, nel 1855, fu nominato professore di patologia generale nel Collegio medico cerusico di Napoli, posto che era stato occupato, fino alla sua morte, dal suo maestro Vulpes.
Nel corso delle lezioni dettate da quella cattedra (Lezioni di patologia generale, Napoli 1856, p. 293) il D., che dichiarava di non aver "inventato" una sua patologia originale ma di averla "raccolta dalle opere che ho creduto le migliori" (ibid., Avvertenza, p. III), rivendicava a se stesso solo l'originalità del metodo. Si oppose infatti al vitalismo più acritico e alle speculazioni eccessivamente teoriche che vedeva dominare nella sua epoca e alle quali contrapponeva un suo originale concetto dell'osservazione non disgiunta dal ragionamento: "Erra chi invoca i soli fatti o la sola ragione, né sa che vi sono fatti pei quali bastano i sensi e ve ne sono altri che non possono esistere senza ragionamento. Una periostosi è un fatto di osservazione, la sifilide che l'ha prodotta è fatto di ragione. Chi in mezzo a questi due fatti ve ne ponesse un altro, cioè il modo di operare della sifilide, infiammando, irritando, iperstenizzando o ipostenizzando vi aggiungerebbe un altro fatto non mostrato dalla osservazione né rivelato dalla ragione, ed andrebbe nelle vie ipotetiche" (ibid., p. 293). Sulla base di questi principi metodologici il D. è indotto a negare l'esistenza di un ente (che egli chiama principio vitale) estraneo all'organismo che ne determini la vita e ad ammettere invece una forza vitale di natura incognita ma operante secondo leggi definibili e strettamente legata alla materia organica: "Che cosa si osserva nella vita? Fenomeni che sono prodotti da un'attività propria della materia organica, che procede con norme stabili e definite. Attività e norme, forza e vita: ecco tutto. Per il che basta di sapere ciò che non trascende l'osservazione e la ragione, cioè che esiste una forza speciale che opera con legge definita: forza vitale, legge vitale" (ibid., p. 19). La natura di questa forza viene in più luoghi definita dal D. inconoscibile sulla base di una diffusa analogia con l'attrazione gravitazionale messa in voga da P-J. Barthez e J. F. Blumembach: "Domandate a' fisici che cosa è la gravità: vi diranno è una forza assegnata da Dio alla materia per la quale i corpi tendono sempre al centro della terra con una legge ch'è la ragione inversa del quadrato "della distanza... dite se vi pare a' fisici: ma ciò non basta: vogliam sapere l'intima natura di quella forza, cioè se deriva da un principio particolare, o è il risultato dell'accozzamento della materia? Il fisico saggio vi risponderà che la domanda è vana e falsa e indiscreta, che le leggi assegnate da Dio nella creazione de' corpi non hanno altra ragione che la potenza e la sapienza infinita della creazione: che all'uomo non rimane che ammirarle e riconoscerle studiandole. Ma se il fisico è indiscreto? Egli salirà in cattedra e vi parlerà di vortici che girano, di entelechie, di atomi uncinati, di monadi, di armonia prestabilita di emanazioni sottili e altre mille stravaganze. E credete forse che i fisiologi e i patologi facciano altrimenti?" (ibid., pp. 18 s.).
Questo, forse eccessivamente, cauto empirismo non solo lo oppose al giovane S. Tommasi e al gruppo dei medici hegeliani napoletani, ma anche all'organicismo di M. Bufalini, e gli impedì di comprendere il significato reale della medicina sperimentale, ponendolo al di fuori del generale movimento della ricerca, che stava proprio in quegli anni promuovendo un radicale rinnovamento della cultura medica. La lotta in favore dell'ippocratismo del D. e Puccinotti era in effetti, come sosteneva già allora il Tommasi (Il rinnovamento della medicina in Italia, Napoli 1883, p. 89), una battaglia di retroguardia che, mentre voleva cautelarsi contro eccessi teorici caratteristici per la verità piuttosto della medicina tardosettecentesca che non di quella dell'Ottocento, si chiudeva al progresso scientifico.
Ma in quegli anni gli interessi del D. erano volti principalmente alla storia della medicina: stava infatti per rendere pubblici i risultati di oltre venti anni di studi e ricerche relativi alla scuola di Salerno. Nel 1852 vide infatti la luce a Napoli il primo volume della Collectio Salernitana ossia Documenti inediti e trattati di medicina appartenenti alla scuola medica salernitana raccolti e illustrati da G. E. T. Henschel, C. Daremberg e S. De Renzi, premessa la storia della scuola e pubblicati a cura di S. De Renzi medico napolitano. Con quest'opera, come lo stesso D. dichiarava nella prefazione, la scuola di Salerno trovava finalmente il suo storico, giacché venivano nettamente superati gli studi precedenti dovuti ad A. Mazza, che nel capitolo XI della sua Historiarum epitome de rebus Salernitanis (Napoli 1681) aveva trattato per primo "De antiquissimo Salernitano Studio, hac de eius Hippocratico Collegio", e a J.C.G. Ackermann, che aveva dedicato l'ampia prefazione alla sua edizione del Regimen sanitatis Salerni sive Scholae Salernitanae de conservanda bona valetudine praecepta (Stendal 1790, pp. 1-92) a un profilo storico della scuola che lo stesso D. giudicò sostanzialmente attendibile benché basato su pochi documenti.
L'opera doveva essere, secondo il progetto originario, una storia della scuola di Salerno, sostanziale rifacimento delle cento pagine dedicate allo stesso argomento nella Storia della medicina in Italia. Ma nel 1845 il D. apprendeva da un articolo di C. Daremberg che nel 1837 W.E.T. Henschel aveva scoperto a Breslavia un codice del XII secolo contenente 35 trattati medici di scuola salernitana: decise allora di aggiungere alla Storia una nuova edizione del Regimen sanitatis, e in un secondo volume l'edizione dei trattati contenuti nel codice di Breslavia. Nel frattempo però le ricerche dello stesso D. e dell'infaticabile Daremberg mettevano in luce numerosi altri codici che il D. non volle astenersi dal pubblicare, sicché alla fine l'opera completa arrivò nel 1859 a occupare cinque volumi. Nel frattempo la Storia della scuola medica di Salerno, che occupava in origine gran parte del primo volume della Collectio Salernitana, dovette essere riscritta alla luce dei nuovi documenti, e venne pubblicata separatamente come Storia documentata della scuola medica di Salerno (Napoli 1857). Merito indiscusso di queste opere fu quello di mettere a disposizione degli studiosi una quantità notevole di documenti fino ad allora ignorati, e di fissare i punti di riferimento fondamentali della storiografia moderna relativa alla scuola. Secondo l'autorevole giudizio di P. O. Kristeller (La scuola di Salerno, il suo sviluppo e il suo contributo alla storia della scienza, in Rassegna storica salernitana, XVI [1955], App. al fasc. 1-4, p. 7), "La ricchezza del materiale offerto dal De Renzi compensa la sua mancanza di critica, e ad onta delle loro ovvie manchevolezze, le sue opere sono rimaste la base per ogni successivo studio sulla Scuola Salernitana. Esse sono state corrette e completate in molti punti importanti, ma non sono state superate".
Questi suoi meriti di studioso, ai quali va aggiunta una apprezzata traduzione del De medicina di A. C. Celso (I libri ottodella medicina di Celso, Napoli 1851-1852), vennero finalmente riconosciuti quando, con l'Unità d'Italia, fu promosso un nuovo concorso per la cattedra di storia della medicina nell'università di Napoli. Il D., dichiarato ancora una volta vincitore, poté finalmente occupare la cattedra alla quale per anni aveva aspirato e che nessuno più di lui aveva titolo a ricoprire. Il suo insegnamento effettivo durò però solo pochi anni, fino al 1869, quando per motivi di salute chiese e ottenne l'onorariato. La forte fibra che lo aveva sorretto nelle infaticabili ricerche d'archivio, nella vasta e impegnativa attività editoriale, nelle varie campagne di vaccinazione e nella lotta contro le maggiori piaghe epidemiche del secolo, era infine minata, sicché i suoi ultimi anni furono funestati da continui incidenti cardiovascolari. Dal 1861 al 1865 fu anche vicepresidente del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione di Napoli e commendatore dell'Ordine mauriziano. Quando infine, nel 1865, fu abolito il Consiglio superiore a Napoli e fu istituito quello nazionale, fu chiamato a farne parte. La sua ultima grande fatica fu la presidenza del congresso internazionale di medicina tenutosi a Firenze nel settembre del 1869. Morì a Napoli il 25 febbr. 1872.
Fonti e Bibl.: La bibliografia completa del D. deve essere ancora delineata: un elenco abbastanza ampio di opere è in F. G. Garofano Venosta (cfr. infra); lettere del D. sono conservate presso la Bibl. universitaria di Urbino, la Biblioteca dell'Università di Pisa (ms. 215), la Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna (Mss. Brugnoli, XII) e presso la Biblioteca nazionale di Napoli. Cfr. anche A. Checcucci, Lettere scientifiche e familiari di F. Puccinotti, Firenze 1877, p. 197 e passim; D. Giordano, Scritti e discorsi pertinenti alla storia della medicina..., Milano 1930, pp. 21 s., 54; V. Gioberti, Epistolario (Ediz. naz.), Firenze 1928, IV, pp. 349-354; A. Simili, Alcune lettere inedite di S. D., in La Riforma medica, XXXII (1960), pp. 1-18; I. Cantù, L'Italia scientifica contemp. Notizie sugli italiani ascritti ai primi cinque congressi..., Milano 1844, pp. 27-41; Atti della Sesta Riunione degli scienziati ital. tenuta in Milano nel settembre del MDCCCXLIV, Milano 1845, pp. 652, 772, 883, 907; E. De Renzi, Necrologia di S. D., Genova 1872; O. Andreucci, Della vita scientifica di G. L. Giannelli, di S. D. e di B. Trompeo, in L'Imparziale, XII (1872), pp. 710-715, 740-756; XIII (1873), pp. 15-23, 48-56; F. Sabatini, S. D., in Encicl. popolare illustrata, Roma 1888, ad vocem; M. Mastrorilli, L'opera di S. D. nella storia della medicina, Napoli 1906; F. Garrison, An introduction to the history of medicine, Philadelphia-London 1913, ad Ind.; M. Mastrorilli, S. D. e l'opera sua per la storia della medicina, in Riv. di st. crit. delle sc. med. e nat., I-II (1919), pp. 28-32; D. Pace, La medicina napol. al Congresso degli scienziati nel 1845, in La Medicina italiana, II (1921), pp. 817-821; Notizie biografiche. I presidenti della Società medico-chirurgica, in Icent. 1823-1923 della Società medico-chirurgica di Bologna, Bologna 1923, p. 535; Storia della Università di Napoli, Napoli 1924, pp. 549, 588, 603; A. Pazzini, Storia della medicina, Milano 1947, ad Indicem; G. De Bernardis Storici della medicina ital. dell'Ottocento, in Anerva medica, XXXI (1939), 16, pp. 4 ss.; A. Cazzaniga, La grande crisi della medicina ital. nel primo Ottocento, Milano 1951, ad Ind.; D. Pace, V. Lanza e la vita universitaria e ospedaliera a Napoli nel primo Ottocento, Napoli 1962, ad Ind.;F. Lombardi, La storia della medicina in Italia nel pensiero di S. D., Pisa 1963; L. Belloni, Sull'ippocratismo di S. D. e di F. Puccinotti e sul concorso alla cattedra del testo di Ippocrate e di storia della medicina all'Università di Napoli nel 1844, in Episteme, VIII (1974), pp. 132-147; F. G. Garofano Venosta, Sulla vita e le opere di S. D.: medico e storico, in Atti del XXVIICongr. naz. distoria della medicina..., Roma 1976, pp. 651-660; D. S., in Enc. Ital., XII, p. 643.