SALARIO (XXX, p. 493; App. II, 11, p. 771)
L'azione sindacale e l'intervento dello Stato, intendendo essi determinare una distribuzione della ricchezza diversa da quella posta in essere dal semplice e libero giuoco delle forze individuali, hanno provocato una graduale revisione del concetto di s.-prezzo, e sono pertanto venute ad influenzare la sua stessa accezione economica. Se, in un primo tempo, tenendo anche conto del limite minimo alla variazione economica del s., l'intervento del legislatore e quello delle associazioni professionali ha avuto come scopo principale il far sì che la retribuzione non discendesse al di sotto di un determinato livello, ossia del livello considerato come indispensabile nei confronti della sussistenza del lavoratore; in un secondo tempo, la disciplina di categoria ha inteso realizzare il graduale trapasso dal concetto di s. minimo al più comprensivo e socialmente avanzato concetto di giusta retribuzione.
Sulla base di dichiarazioni programmatiche formulate sul piano internazionale alla fine della seconda guerra mondiale, e in analogia con disposizioni reperibili nelle più recenti costituzioni, la costituzione italiana dichiara (art. 36, 1° comma) che "il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Si noti che, in quest'articolo, la valutazione economica della retribuzione, ossia la sua corrispondenza alla qualità e quantità del lavoro, non è posta negli stessi termini assoluti della valutazione sociale, in quanto la retribuzione deve "in ogni caso" assicurare un'esistenza libera e dignitosa.
Sul valore precettivo o semplicemente programmatico di tale dichiarazione dottrina e giurisprudenza hanno a lungo discusso, con prevalente tendenza verso la prima soluzione: ogni qual volta il giudice si è ritenuto legittimato a fissare individualmente la giusta retribuzione, egli ha, nella grandissima maggioranza dei casi, adottato la retribuzione stabilita dal contratto collettivo vigente per l'impresa cui il lavoratore apparteneva. Infatti, è nel contratto collettivo, ed in quel necessario presupposto del contratto collettivo consistente nell'organizzazione sindacale, che il lavoratore può trovare la più immediata, continuativa ed efficace tutela della propria retribuzione, anche nel senso che essa giunga ad assicurare un adeguato tenore di vita, dal punto di vista individuale e della famiglia.
La legge 14 luglio 1959, n. 741, intendendo garantire, sia pure come regime transitorio, minimi di trattamento economico e normativo generalmente obbligatorî per tutti i lavoratori, se può essere valutata come ndiretto riconoscimento del carattere non precettivo dell'art. 36 della costituzione, rappresenta anche la traduzione positiva, sia delle direttive programmatiche contenute nell'articolo suddetto, sia della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale determinatasi al riguardo. Inoltre, la circostanza che i minimi di trattamento economico e normativo devono necessariamente essere quelli contenuti nei contratti collettivi, conferma la preminenza della regolamentazione di categoria, quale forma di disciplina intermedia, istituzionalmente idonea a sostituire tanto la regolamentazione individuale quanto quella generale.
In materia di politica salariale l'art. 36 della costituzione è integrato dall'art. 37 (1° e 3° comma), secondo il quale tanto i minori quanto le donne (ossia due categorie tradizionalmente, ma non sempre giustificatamente, accomunate dalla loro originaria qualifica di "mezze-forze") hanno tutti i diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. In questo caso, tuttavia, il carattere precettivo della disposizione risulta quasi pacificamente ammesso.
Tale disposizione vale soprattutto quale limite all'autonomia delle associazioni professionali e dei singoli interessati, nel senso che difformi pattuizioni collettive e individuali sarebbero nulle, e sostituite di diritto dalla parità di retribuzione, in virtù del combinato disposto dagli artt. 1418 e 1419 cod. civ.; di conseguenza, alle clausole discriminatorie in materia salariale, ai fini della recezione del relativo contratto collettivo in un decreto legislativo ai sensi ed agli effetti della succitata legge n. 741, sarebbe applicabile l'art. 5 della legge stessa, secondo il quale le norme contenute nelle leggi delegate "non potranno essere in contrasto con norme imperative di legge".
Il concetto di giusta retribuzione delineato dall'art. 36 della costituzione e positivamente realizzato dalla legge n. 741, viene poi integrato, non solo dalle direttive di cui all'art. 37, ma anche da quelle di cui all'art. 38 della costituzione stessa, per dar luogo all'ulteriormente evoluto e comprensivo concetto di s. previdenziale: in un sistema di adeguata sicurezza sociale la retribuzione del lavoratore dovrebbe cioè essere tale da garantirgli, non solo un soddisfacente tenore di vita per sé e per la famiglia, ma anche forme appropriate di assistenza, quando egli si trovi in determinate situazioni di bisogno, principalmente riconducibili ad incapacità di lavoro o ad incapacità di guadagno.
Bibl.: L. Barassi, Diritto del lavoro, 2ª ed., Milano 1957, III, p. 1 e segg.; V. Cassì, La retribuzione nel contratto di lavoro, Milano 1954; L. De Litala, Il contratto di lavoro, 5ª ed., Torino 1956, p. 268 ss.; F. Guidotti, La retribuzione nel rapporto di lavoro, Milano 1956; G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, Firenze 1958, p. 362 ss.; L. Riva-Sanseverino, Il lavoro nell'impresa, Torino 1960, p. 297 e segg.; F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, 12ª ed., Napoli 1960, n. 99 ss.