CAGGESE, Romolo
Figlio di Potito e di Amalia Ursomando, nacque ad Ascoli Satriano (Foggia) il 26 giugno del 1881.Alunno fino ai sedici anni del seminario locale, proseguì gli studi classici a Foggia dove, nell'aprile 1898, gli capitò di far da spettatore ai tumulti popolari che si rivestirono come di consueto delle fogge tipiche della jacquerie:fu un'esperienza che doveva riuscire decisiva per lui, financo sul piano dei futuri studi medievalistici (cfr. Foggia e la Capitanata, Bergamo 1910, pp. 71-73). Una borsa di studio gli consentì, nell'ottobre 1900, di iscriversi all'Istituto di studi superiori di Firenze, dove subì con il fascino del nonconformismo storiografico di A. Coen e di A. Del Vecchio, quello, soprattutto, del magistero di P. Villari. Fuori di S. Marco, con la milizia socialista fu G. Salvemini presente a Firenze fra il 1900 e il 1901, che influenzò maggiormente il precocissimo esordio del C. nel campo degli studi medievali, prima ancora della laurea conseguita il 21 ott. 1904.
I lavori del C., in questi primi anni, ruotano intorno al tema dominante, peraltro centraie per tutto un filone della storiografia europea fra '800 e '900, dei rapporti fra città e campagna alle origini del Comune e della concreta politica di quest'ultimo nei confronti del contado, che egli amava interpretare nei termini di una "redenzione" svoltasi nel corso di una "lotta singolare e tenace che non sarà mai abbastanza valutata fino a quando seri studi non saranno fatti anche in Italia su le relazioni tra i grandi comuni ed il loro contado; studi e ricerche ai quali il materialismo storico - bisogna riconoscerlo - ha pur dato un impulso grande e fecondo" (Una cronaca economica del secolo XVI, in Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, XIII[1902], nn. 7-8, pp.98-116). Questa disposizione, che gli proveniva per un verso dagli allora classici volumi del Maurer, da lui ritenuti un modello di storia economica e giuridica, per un altro dai saggi del Salvioli e dal lavoro sul Comune rurale di Tintinnano del Salvemini, in un primo momento si precisò in una ricerca su Prato nel '200 - che rappresentò anche l'oggetto della tesi di laurea discussa con il Villari, poi pubblicata (Un Comune libero alle porte di Firenze nel secolo XIII [Prato in Toscana]. Studî e ricerche, Firenze 1905) - successivamente si allargò all'analisi dell'esempio offerto da Siena dugentesca (La Repubblica di Siena e il suo contado nel secolo decimoterzo, in Bull. senese di storia patria, XIII[1906], pp.3-120); ma era già implicito in una simile direzione di ricerca - ruotante intorno ai presupposti teorico-storiografici di una frattura verticale fra città e campagna e dello sfruttamento intensivo del contado da parte delle nuove classi borghesi - che alla delineazione in termini "oggettivi" della dura ma necessaria "politica contadina delle città italiane" s'intrecciasse lo studio, indubbiamente simpatetico per le suggestioni analogiche del presente, del "rapido e possente moto associativo" che fu alle origini del costituirsi e diffondersi del Comune rurale. Contenuta già in lavori precedenti o sincroni di argomento affine, cui di lì a poco il C. affiancò l'edizione, non priva di mende e di sciatterie, degli statuti fiorentini del capitano del popolo e del podestà (Gli Statuti della Repubblica fiorentina, editi a cura del comune di Firenze da R. C., I-II, Firenze 1910-21), quella materia trovò una sistemazione larga e un po' prolissa nei due volumi di Classi e Comuni rurali nel Medio Evo italiano. Saggio di storia economica e giuridica, Firenze 1907-09.
Costruito prevalentemente sulla sola base documentaria inedita rappresentata dagli statuti rurali degli archivi di Firenze e di Siena (secc. XII-XIV) e da altro materiale raccolto per lo più nel Diplonatico di Firenze (trascurati sono rilevamenti catastali, carte private, atti amministrativi e protocolli notarili), ispirato ai criteri metodologici sottesi alla tesi antinomica dei rapporti città-campagna che il C. raccolse da un filone della storiografia europea esasperandone i termini, finendo, cioè, per contrapporre non solo città e contado fuori di una medesima unità storico-strutturale, ma addirittura "cittadini" e "contadini", tale lavoro subì critiche e attacchi assai severi. La serrata e argomentata critica di G. Volpe (La Critica, VI[1908], pp. 263 ss.), aggiungendosi o affiancandosi ad altre più o meno benevole (Luzzatto, Solmi, Cipolla, Rota per dire delle recensioni maggiori), non solo notò a proposito del primo volume che tutta la prima parte era di seconda mano e inutile, che la documentazione in quanto prevalentemente toscana non poteva "coprire" un tema così vasto, non solo lo accusò di aver fatto confusione sui vincoli associativi e di aver parlato poco o nulla della piccola proprietà, ma gli contestò, pur riconoscendo all'autore di aver giustamente radicato l'origine del Comune rurale (peraltro troppo schematicamente classificato e distinto dal Comune curtense)"nell'organamento interno della grande proprietà feudale", di essersi limitato semmai a una fenomenologia estrinseca delle condizioni dei contadini evitando di "rappresentare in maniera concreta i complessi patrimoniali italiani ed i loro ordinamenti economici, giuridici ecc. avanti il secolo XII", omettendo, in altre parole, di confrontarsi con l'assetto vero e proprio del latifondo, di "metter da parte i discorsi generici sulla grande proprietà medievale e fermar l'attenzione su le grandi proprietà".
L'evoluzione ideologica e propriamente pratico-politica del C. sembrarono del resto sancire un irreversibile distacco dell'intellettuale sradicato e piccolo-borghese dalla realtà contadina del suo Meridione nella misura in cui maggiormente quella dimensione rurale e agraria, così sociologicamente travisata, classificata e anche manipolata, sembrava accamparsi al centro della sua riflessione storiografica. Trasferitosi alla fine del 1907 a Napoli per insegnarvi in un istituto commerciale - dopo aver una prima volta fallito la libera docenza a Firenze, per l'opposizione del Cipolla, e averla infine conseguita in storia moderna a Pavia, auspice G. Romano, il 24 giugno 1907 - il C., che militava nel P.S.I. e che collaborava talora all'Avanti! (1908-10) e che dalle posizioni riformiste partecipò alla ricostituzione della sezione socialista napoletana dirigendone per qualche numero anche l'organo Il Socialista, se ne distaccò bruscamente nell'aprile 1910 per l'opposizione al filosindacalista Lucci (cfr. i documenti delle dimissioni in G. Arfé, Per la storia del socialismo napoletano. Atti della sezione del PSI di Napoli dal 1908 al 1911, in Mov. operaio, V [1953], pp. 241-49); di fatto egli adeguò la propria collocazione politica alla progressiva differenziazione dal grande filone in crisi del riformismo italiano, nello stesso tempo in cui, nella nuova realtà politico-culturale partenopea, quella crisi apriva definitivamente il varco a diverse ipotesi e suggestioni, massime quella connessa con l'evidente influsso del pessimismo naturalistico di G. Fortunato, sommatosi per una affinità di matrice positivistica alle convinzioni metodologiche da lui nuovamente ribadite e financo teorizzate in pagine nelle quali è da sottolineare il frequente ricorrere del nome stesso e di uno dei primi tentativi di definire ruolo e compiti della cosiddetta "scuola economico-giuridica" (Nuovi orizzonti della storiografia moderna. Prolusione ad un corso libero di storia moderna tenuta nella R. Università di Napoli il 3 dicembre 1908, Rocca San Casciano 1909). Da questa prospettiva, in cui è ben visibile il venir meno degli iniziali propositi di rinnovamento radicale e il maturare di un rifornismo esangue da cui era espunta ogni ambizione di trasformazione dei rapporti sociali nelle campagne meridionali per far posto alle preminenti ragioni della "questione di Napoli", il C. poteva operare sul duplice fronte degli studi e dell'ideologia, sul piano dell'indagine storica essendosi aperto ora allo studio degli incunaboli dell'inferiorità meridionale nel periodo apparentemente più luminoso della storia del Mezzogiorno, quello angioino, sul piano politico rendendosi disponibile da un lato ad un tipo di divulgazione pubblicistica, a partire dal 1912, sulle colonne del Secolo di Milano, dall'altro ad un incontro sempre più stretto con le élites radical-massoniche partenopee e meridionali in procinto di ritrovarsi unite alle pattuglie socialriformiste nei "blocchi" amministrativi della vigilia del conflitto.
Nel Roberto d'Angiò e i suoi tempi (due volumi pubblicati a Firenze soltanto nel 1922-30, ma in realtà pensati, elaborati e, limitatamente almeno al primo volume, stesi nell'anteguerra com'è dimostrato dall'anticipazione Roberto d'Angiò e i suoi tempi. Introduzione, in Studi storici, XIX[1910], pp. 113-45), il C. dimostrava a chiare note l'avvenuto innesto di molti dei presupposti metodici del Fortunato storico e (in sincronia non casuale che è emblematica di una parabola culturale di un fronte significativo di intellettuali meridionali) del Salvioli di Le nostre origini.Pertanto nel momento in cui prendeva nettamente le distanze da tutta una tradizione agiografica sui presunti splendori della società angioina e ridimensionava in modo drastico il giudizio incondizionatamente positivo dell'immagine di re Roberto acclamato re d'Italia dai contemporanei del Petrarca, nell'atto in cui al gusto cronachistico, per i risvolti biografici intimi o per le digressioni erudite d'impronta regionalistica e locale anteponeva l'assoluta necessità di sciogliere lo studio del problema Roberto in quello più vasto della storia del Mezzogiorno, egli superava di fatto i termini della biografia cui sulla scia del Villari era incontestabilmente regredito rispetto ai volumi sui comuni rurali, rompeva con tutto il filone erudito dei Minieri-Riccio e dei Capasso, con le pitture d'ambiente dei De Blasiis, financo con la linea degli Schipa e degli Egidi, ancorché una certa eco dell'Amari della Storia del Vespro potesse aver operato in un senso antiangioino. Ma, significativamente, il C. non si riallacciava a taluni esiti cui nel settore avevano dato luogo i lavori filoangioini dei francesi Jordan e Cadier e, soprattutto, l'opera ancor oggi fondamentale di G. Yver su Le commerce et les marchands dans l'Italie méridionale au XIIIe et au XIVe siècle (Paris 1903), a lui ben nota ma di fatto estranea per quanto atteneva le indicazioni di ricerca in essa presenti. Ancora al di qua di una matura esperienza di storiografia economica e dentro i comparti ben noti, spesso irrelati, delle "istituzioni" (classi, conflitti sociali, produzioni e commerci, magistrature, finanze ecc.), il C., sulla base di una cospicua anche se talora affastellata mole documentaria dei registri angioini di Napoli integrati con i documenti degli archivi di Marsiglia e di Parigi, si chiedeva perché mai il Mezzogiorno angioino, per quanto esso fosse stato il campo preferito degli investimenti dei capitali veneziani e fiorentini, non poté farsi centro di una monarchia unitaria italiana, laddove diventò al contrario "il covo di tutti i germi di dissoluzione" che ne rovinarono il "faticoso edificio". Il C. non aveva esitazioni nel proporre la sua interpretazione: è nel giro di quel mezzo secolo che si cristallizza l'universo di forme e di istituti, "di valori sociali e di stati d'animo" dell'arretratezza fisico-strutturale del Mezzogiorno; quello è il momento in cui "si fissa il suo destino e si saldano le sue catene"; è allora che si vengono consolidando le forme dell'economia agraria, che i contratti di lavoro iniziano un corso plurisecolare, è da allora che datano i fenomeni demografici specifici meridionali "quali l'inurbamento delle classi rurali e la fuga dalle campagne, l'accrescimento della popolazione artigiana e piccolo borghese di fronte a quella dei lavoratori della terra, il progressivo assottigliarsi di mercanti e speculatori". Questi giudizi del 1910-1914 rivelavano le preoccupazioni meridionalistiche del C. e già facevano trasparire una certa qual sfiducia nelle possibilità oggettive di trasformazione dei rapporti economico-sociali meridionali nella misura in cui ne retrodatavano "l'intensità e la fatalità indeprecabile" nientemeno che al sec. XIV; ma nel 1922 la sfasatura profonda rispetto ad una situazione ormai largamente mutata spiega perché il libro al suo apparire cadesse sostanzialmente nel vuoto e quella che poteva sembrare come indipendenza rispetto "una tradizione fosse ormai isolamento vero" proprio. Già il Croce, recensendo severamente i primi due volumi di quella vasta storia di Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia (I-III, Firenze 1912-1921), con la quale il C. a conclusione dei suoi studi "fiorentini" aveva voluto dare alla nuova scuola il viatico di una sorta di anti-Davidsohn, ne aveva attaccato i criteri fondamentali, facendo rilevare il forte senso di "delusione" per la rappresentazione esclusiva e pessimistica del "dramma doloroso" delle classi e delle lotte sociali da parte di un autore che, dimenticando, pour cause la buona vita comunale, aveva la pretesa di assorbire in tal modo "la storia della civiltà nella storia economica" (cfr. La Critica, X[1912], pp. 461-63). Un giudizio, quello crociano, che, nella sua acredine avversa all'astratto economicismo sociologizzante del C., preludeva davvero, sul pieno della battaglia culturale, al contrasto che di lì a poco avrebbe visto l'uno e l'altro schierati in due raggruppamenti politici antitetici rappresentati dal Fascio liberale dell'ordine e dal "blocco" radical-demosocialista.
Mentre tardava l'inserimento nell'insegnamento universitario - che il C. realizzò prima come straordinario di storia moderna (16 dic. 1918) a Messina e poi, a partire dal 16 ott. 1919, come ordinario della stessa disciplina a Pisa - la stagione politicamente più importante vissuta dal C., dagli anni della vigilia della grande guerra fino al primo dopoguerra, coincise con le maggiori fortune elettorali della coalizione bloccarda a Napoli, sotto le cui insegne, come bissolatiano e con l'appoggio del massone Altobelli, il C. venne eletto consigliere comunale nelle drammatiche elezioni del 12 luglio 1914. Scoppiato il conflitto mondiale, mentre sul piano nazionale come conferenziere, come commentatore politico del Secolo e soprattutto dell'organo di palazzo Giustiniani, L'Idea democratica, si schierava dopo qualche esitazione dalla parte dell'intervento italiano a fianco dell'Intesa, con la larga disponibilità che gli consentì di accostarsi alla politica "nazionale" salandrina (cfr. Gli scritti politici di Antonio Salandra, in Riv. d'Italia, XVIII[1915], pp. 709-28), nello stesso tempo in cui non si nascondeva le nuove difficoltà che sarebbero venute al Sud dalla guerra, nell'ambito partenopeo, dopo il 1916-17, alla carica di consigliere aggiunse quella di assessore supplente e ordinario nelle amministrazioni comunali Presutti e Labriola, trovandosi a capeggiare di fatto la deputazione provinciale ed a svolgere talora le funzioni di vicesindaco al fianco del Labriola.
La crisi postbellica, aggravata a Napoli dal franare totale degli schieramenti d'anteguerra, lo vide rifluire dalle posizioni sostenute in un primo tempo nel filonittiano Giornale della sera verso una intensa pubblicistica dispiegata sulle colonne di La Sera, del Mattino, del Resto del Carlino, del Telegrafo, del Mezzogiorno, in cui le aperture, le concessioni e le compromissioni con il fascismo emergente, dopo essersi allontanato dalla democrazia liberale e aver rifiutato la candidatura in Capitanata nel 1919 e a Napoli nel 1921, di fatto anticiparono l'opera di fiancheggiamento prestata nel 1922. Prima ancora del delitto Matteotti il C. si avvicinò o si riavvicinò, anche per avversione personale al Gentile che mal ne sopportava il fiacco insegnamento pisano, al Croce ed ai gruppi di democrazia liberal-costituzionale, giungendo a sottoscrivere il manifesto degli intellettuali antifascisti. Di lì a pochi giorni però sterzò nettamente dalla parte filofascista, si dimise a Napoli dalla amendoliana Unione nazionale, fece ammenda pubblica attirandosi gli strali polemici e sarcastici del Mondo e dei fogli antifascisti (luglio-ottobre 1925). Ma già il 12 giugno 1925, nell'aderire al progetto gentiliano dell'Enciclopedia Italiana, cuicollaborò in effetti con un certo numero di voci medievalistiche, molte d'argomento angioino, scriveva al Volpe di sentirsi "completamente fuori d'ogni attività politica, ben sicuro come sono che è nostro primo dovere d'italiani non complicare in alcun modo una situazione non lieta" (cfr. G. Turi, Il progetto dell'Enciclopedia Italiana: l'organizzazione del consenso fra gli intellettuali, in Studi storici, XIII [1972], p. 138).
Dopo aver tenuto dal dicembre 1923la cattedra di storia economica dell'Istituto di scienze economiche di Napoli, si trasferì alla facoltà di lettere di Milano, dove in luogo del Volpe dal gennaio 1926fino alla morte insegnò storia medievale e moderna. Frattanto l'emarginazione del C. continuò progressiva; tanto sul piano dell'organizzazione culturale - un settore in cui era venuta al C. qualche possibilità operativa attraverso la consulenza prima e la direzione poi, a partire dal gennaio 1927, della Rivista d'Italia e mediatamente della casa editrice Unitas che la pubblicava, quanto sul piano propriamente storiografico, come ben risulta dai due lavori di più impegnativa sintesi cui egli attese negli ultimi anni: il saggio Italy 1313-1414 scritto nel 1929per la Cambridge Medieval History, VII, pp. 49-76, cui il C. collaborò, con lo Schipa, unico degli italiani, e soprattutto L'alto Medioevo, Torino 1937, primo volume di una storia più vasta che il C. poté stendere ma non vedere stampata, a cura del Barbagallo, con il titolo Dal concordato di Worms alla fine della prigionia di Avignone (1122-1377), Torino 1939.Indotto alle dimissioni dalla direzione della Rivista d'Italia (agosto 1928)per far posto a V. Bompiani, rimasero al C. non molte altre opportunità, come la cura, ormai intonata ai tempi, di una collezione, diretta con A. Malatesta, dedicata nientemento che alle Storie municipali d'Italia (Edizioni Tiber, 1929e anni seguenti), o le occasioni retorico-tribunizie, in chiave di apologia del regime, consentitegli dai magniloquenti discorsi di "alta cultura" tenuti, fra il 1929 e il 1937, alla università per stranieri di Perugia (cfr., per i testi o i sunti delle conferenze, il Boll. d.R. Univ. ital. per stranieri. Perugia, I [1929], a. acc. 1929-30 ss.).
Morì a Milano il 5 luglio 1938.
Opere: non esiste una bibliografia completa o parziale degli scritti del Caggese. Presso la Bibl. provinciale di Foggia si conservano quasi tutti i manoscritti delle opere, dei saggi, conferenze, recensioni, spogli di opere e appunti di lavoro del C., unitamente ai volumi della sua biblioteca privata. Con i manoscritti e i libri (fra i quali quelli di D. Zanichelli), il C. medesimo cedette anche una esigua silloge, verosimilmente confezionata e scremata ad hoc, di lettere e di documenti personali. Si elencano qui di seguito i saggi e gli articoli di maggiore interesse storico e politico non citati nel testo: K.Lamprecht e la storia sociale, in Medusa, 2 marzo 1902; Su l'oririne della parte guelfa e le sue relazioni col Comune, in Arch. storico italiano, s. 5, XXXII (1903), pp. 205-309; Il Comune rurale di Tredozio e i conti da Romena, Firenze 1904; Intorno alle origini dei Comuni rurali in Italia, in Riv. ital. di sociologia, IX(1905), pp. 178-217; Note e documenti per la storia del vescovado di Pistoia nel sec. XIII, in Bull. stor. pistoiese, IX(1907), pp. 133-185; Una vecchiezza gloriosa. P. Fillari, in Il Marzocco, 6 ott. 1907; L'insegnamento della storia nell'università, ibid., 7 nov. 1907; Compendio della storia d'Italia, ad uso delle scuole tecniche, I-III, Firenze 1907; L'opera di R. Davidsohn. Documenti e storia di Firenze e La storia di Firenze di R. Davidsohn, in Il Marzocco, 5 gennaio e 1º marzo del 1908; Etnografia, storia e politica (A proposito del nuovo "Museo di Etnografia italiana"), in Rassegna contemporanea, I(1908), pp. 59-75; La situazione in Puglia, in Il Pungolo (Napoli), 11-12 genn. 1909; La crisi del partito socialista (A proposito del congr. nazionale), in La Riv. popolare, XVI(1910), I, pp. 456-458; 2, pp. 517-519; Chiese parrocch. e univers. rurali, in Studi stor., XX(1911), pp.129-176; Storici e cronisti e Cinquant'anni di studi storici in Italia, in Le Cronache letter., 24 sett. e 22 ott. 1911; Per la storia del Risorgimento, in Il Marzocco, 20 luglio 1913; Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, in Rassegna contemporanea, VI(1913) pp. 731-751; Quando è cominciata la crisi del marxismo, in Il Marzocco, 3 ott. 1915; Il Mezzogiorno d'Italia e la guerra, in Rivista delle nazioni latine, I(1916), pp. 354-368; Gli studi stor. e l'ora presente, in Riv. d'Italia, XXII (1919), pp. 285-315; Leonida Bissolati, ibid., XXIII(1920), pp. 86-101; Ettore Ciccotti, ibid., pp. 360-378; Storia del commercio, Firenze 1922 (1 ed., Napoli 1910); Prato nell'età di Dante, in Dante e Prato: conferenze tenute nella R. Accademia dei Misoduli in Prato da F. Fiamini, C. A. Lumini, R. C., …, Prato 1922; Mirabeau, Bologna 1924; P. Villari. Nel primo centenario della nascita…, in Riv. d'Italia, XXX (1927), pp. 214-31; Ciò che è vivo nel pensiero politico di Machiavelli, ibid., pp. 359-375; Giovanni Pipino conte di Altamura, in Studi di storia napol. in onore di M. Schipa, Napoli 1926; Ciò che resta della questione merid., in Nuova antol., 1º febbr. 1933, pp. 347-366; Da Metternich a Mussolini, ibid., 1º ag. 1933; Dante e Roberto d'Angiò in Studi per Dante, Milano 1935; L'epistolario di Letizia Bonaparte, in Nuova antologia, 1º maggio 1937, pp. 103-115.
Bibl.: Affrettati e talora imprecisi i non molti necr.: A. Cutolo, in Arch. stor. lombardo, LXV (1938), pp. 523-25; C.[orrado] B.[arbagallo], in Nuova riv. storica, XXII(1938), pp. 445 s.; G.[ioacchino] V.[olpe], in Riv. stor. ital., s. 5, III (1938), p. 145; R. Valentini, in Boll. d. R. Dep. di st. patria per l'Umbria, XXXVI(1939), pp. 193-95. Alcuni rilievi storiogr. generali in B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari 1930, passim (ma del Croce cfr. anche Professori di storia, in La Critica, XXXIII [1935], pp. 239-40) e F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 177, 200 s. Sul rapporto città-campagna: F. Schneider, Die Entstehung von Burg und Landgemeinde in Italien. Studien zur historischen Geographie, Verfassungs und Sozialgeschichte, Berlin 1924, pp. VII-XIII, 71-72; G. P. Bognetti, Sulle orig dei comuni rurali…, Pavia 1927, passim;e la "revisione" ottokariana impersonata da J. Plesner, L'émigr. de la campagne à la ville libre de Florence au XIIIe siècle, Kobenhavn 1934, pp. VII-VIII, 3, 63, 116-18, 177, mutuata e irrigidita da E. Fiumi, Suirapporti econ. tra città e contado nell'età comun., in Arch. stor. ital., CXIV(1956), pp. 18-20, e da E. Cristiani, Città e camp. nell'età comunale. Alcune pubblicazioni dell'ultimo decennio, in Riv. stor. ital., LXXV (1963), pp. 834 ss.; Più recentemente cfr. G. Chittolini, Città e contado nella tarda età comunale (a proposito di studi recenti), in Nuova riv. stor., LIII (1969), pp. 706 ss., e G. Galasso, Dal Comune medievale all'Unità. Linee di storia meridionale, Bari 1969, pp. 68, 72 ss. Suglistudi angioini: G. M. Monti, Gli Angioini di Napoli negli studi dell'ultimo cinauantennio, in Nuovi studi angioini, Trani 1937, passim.Sull'attività politica del C. a Napoli e di fronte al conflitto mondiale: R. Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Milano 1962, ad Ind.;M. Simonetti, Storici italiani e rivoluzioni in Russia (1917-18), in Mov. di lib. in Italia, XX(1968), pp. 35-82, passim;M. Fatica, Origini del comunismo e del fascismo a Napoli (1911-1915), Firenze 1971, pp. 65, 142, 208 s., 218; A. Scirocco, Politica e amministrazione a Napoli nella vita unitaria, Napoli 1972, pp. 166 s., 172-74; M. Simonetti, Storiografia e politica avanti la grande guerra. R. C. fra revisionismo e meridionalismo (1911-14), in Arch. stor. ital., 1973 (in corso di stampa).