TREMELLONI, Roberto
TREMELLONI, Roberto. – Nacque a Milano il 30 ottobre 1900 da Enrico e da Piera Chiodi, in un contesto di relativa povertà.
Si avvicinò all’attività politica dal 1916, aggregandosi come molti giovani studenti dell’epoca al fronte interventista e militando per un breve periodo nel Partito repubblicano. Nell’immediato dopoguerra, prima, professando ideali mazziniani e wilsoniani e, poi, attirato dalle figure di Filippo Turati e Claudio Treves, si avvicinò definitivamente all’ideale socialista, iscrivendosi nel 1922 al Partito socialista unitario di Giacomo Matteotti. Si avviò precocemente al giornalismo, collaborando con periodici quali La Sera, La Giustizia e Critica sociale e, nei primi anni Venti, animò le riviste Battaglie sindacali e Informazioni sociali, chiamato da Ludovico D’Aragona alla Confederazione generale del lavoro (CGDL) e, poco dopo, da Angiolo Cabrini nell’ufficio romano dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Soprattutto, nel 1926, con Carlo Rosselli e Pietro Nenni fondò la rivista Quarto Stato, attorno a cui si attivarono, in particolare, i fratelli Lelio e Antonio Basso, Carlo Antonini, Libero Lenti, Ferdinando Di Fenizio, Antonello Gerbi, Carlo Pagni e altri ancora.
Diplomato in ragioneria all’Istituto Cattaneo di Milano, si laureò nel 1924 in scienze economiche all’Università di Torino, ottenendo poi la libera docenza all’estero, presso l’Università di Ginevra, a causa del rifiuto di aderire al fascismo. Convinto antifascista e perciò impossibilitato a percorrere la strada del giornalismo professionistico e della carriera universitaria, come sarebbe stato nelle sue aspirazioni, durante tutto il ventennio si dedicò a incarichi tecnici e a studi economici, oltre a impegnarsi nella pubblicazione di riviste specialistiche per il settore dell’industria tessile.
Sposato nel 1928 con Emma Nascimbene, dopo la morte a soli sei giorni di un figlio primogenito avvenuta l’anno successivo, nel 1930 vide nascere la figlia Laura.
Nel 1931 fondò a Milano il Gruppo amici della razionalizzazione (GAR), luogo di riflessione economica e di opposizione al regime, e, ispirandosi all’inglese The Economist, pubblicò la rivista Borsa, attraverso la casa editrice Aracne da lui fondata con il fratello Attilio, a sua volta esperto del settore tessile.
Nel corso della seconda guerra mondiale, dopo essere sfuggito a una condanna al confino grazie a un periodo di ricovero dovuto al supporto della rete antifascista, condusse una vita ritirata, dedita alla gestione di Aracne nel frattempo ceduta alla SNIA, e ancor più isolata quando, dopo il 25 luglio, si ritirò nella località di Cocquio Trevisago (Varese). Qui, oltre a scrivere una Storia dell’industria italiana contemporanea, poi uscita nel dopoguerra con una prefazione di Luigi Einaudi (Torino 1947), progettò il quotidiano economico finanziario in seguito pubblicato con il titolo di 24 Ore.
Nell’aprile del 1945, in virtù del suo convinto antifascismo e dell’amicizia con personaggi quali Carlo Merzagora, Riccardo Bauer, Alberto Ferrante, Angelo Saraceno e i fratelli Luigi e Rodolfo Morandi, venne coinvolto nella vita politica dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia.
La scelta precoce di aderire al socialismo liberale nel secondo dopoguerra lo collocò nell’ambito del riformismo italiano, ispirato alle socialdemocrazie europee e al laburismo inglese, in stretta collaborazione con Giuseppe Saragat, con il quale, nel 1947, diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) e poi alle successive declinazioni partitiche della socialdemocrazia italiana. In tale ambito si sviluppò la sua lunga esperienza politica nel corso del dopoguerra.
All’indomani della Liberazione fu immediatamente nominato commissario dell’ex ministero fascista della Produzione industriale e poi indicato alla vicepresidenza del Consiglio industriale per l’Alta Italia (1945), da dove operò per la gestione della difficile fase transitoria e la riattivazione delle strutture fondamentali dell’economia produttiva. Eletto membro della Costituente nella lista del Partito socialista italiano di unità proletaria, e in seguito del PSLI (1948), divenne sottosegretario al ministero dell’Industria retto da Rodolfo Morandi, nel secondo gabinetto di Alcide De Gasperi (1946), e poi ministro dell’Industria e del commercio (1947) nella complessa fase di riorganizzazione del tessuto produttivo e di impostazione delle premesse per la ricostruzione e lo sviluppo industriale dell’Italia.
Da presidente del Fondo industrie meccaniche, così come nell’attività di governo di questo periodo, pur sostenendo la lotta all’inflazione, tentò di favorire un’alternativa concreta alla ‘linea Einaudi’, alternativa che, pur ispirata a principi di liberismo in economia, guidasse lo sviluppo con l’adozione di moderne forme di pianificazione economica improntate al ‘produttivismo’.
Per il suo preminente ruolo politico e una visione di politica economica coerente con le idee di ricostruzione programmata in quel momento diffuse in tutti i Paesi sviluppati, di conseguenza, fu identificato nel dibattito politico economico del dopoguerra come il paradigma del ‘pianificatore’. Divenuto prima lettore all’università Bocconi, chiamato da Giovanni De Maria, dal 1953 e per un quindicennio fu poi docente di economia e organizzazione aziendale presso il Politecnico di Milano.
Dopo la Conferenza internazionale di Parigi del luglio del 1947, a cui partecipò da vicepresidente della delegazione nazionale, guidò la formulazione del primo Piano italiano a lungo termine per il periodo 1948-52, in funzione del coordinamento degli aiuti alleati e della progressiva integrazione delle economie dei Paesi europei. In tale contesto assunse un ruolo preminente nella gestione del Piano Marshall, prima nella veste di ministro senza portafoglio all’ERP (European Recovery Program) e vicepresidente del Comitato interministeriale per la ricostruzione (CIR) con l’incarico dei problemi della cooperazione europea (1948), e poi (1949) di ministro delegato al consiglio dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica; in virtù di tali incarichi si qualificò nel panorama politico come l’‘uomo del Piano Marshall’, anche per l’adesione ideale alla filosofia ispiratrice degli aiuti e per i rapporti mantenuti con gli ambienti internazionali che sostenevano un socialismo riformista in funzione anticomunista.
Dopo una fase di intensa attività parlamentare non fu rieletto nelle elezioni politiche del 1953 e tornò quindi al governo da tecnico; nel 1954-55, infatti, fu al ministero delle Finanze nel gabinetto di Mario Scelba, per proseguire l’attività dell’amico Ezio Vanoni con la promulgazione del progetto di riforma fiscale di perequazione tributaria, detto legge Tremelloni (5 gennaio 1956 n. 1), che suscitò accese campagne politiche e giornalistiche, oltreché la ferma avversione degli ambienti finanziari e degli operatori di borsa.
In questo ambito realizzò numerose iniziative a sostegno della trasparenza dei documenti di bilancio e delle informazioni economiche – promuovendo nel 1954 il premio Oscar del bilancio –, e della modernizzazione dei mercati e tutela della concorrenza. Egli era, tra l’altro, ispiratore e titolare delle prime e più note inchieste parlamentari che, dagli anni Cinquanta, permisero di delineare i tratti di una società e di un’economia in trasformazione. Guidò, innanzitutto, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione (1951); promosse e animò, in seguito, la Commissione parlamentare di inchiesta sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico (1961-65), che per la prima volta delineò la struttura dei mercati e della concorrenza in Italia.
Nel frattempo, dal 1952 fino al 1962, fu presidente dell’Azienda elettrica municipale di Milano, ruolo da cui, in una posizione di centralità nell’ambito del dibattito sulle municipalizzazioni e sul settore elettrico nel contesto della modernizzazione del Paese, affrontò la necessità di riorganizzare la struttura dell’azienda predisponendone un sensibile incremento della capacità produttiva. L’interesse nei confronti degli studi in tema di economia pubblica e aziendale era testimoniato, tra l’altro, dall’assunzione della presidenza, poi mantenuta per un trentennio, del Centro italiano di ricerche e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa, nonché dalla fondazione della Federazione italiana della pubblicità e dell’Istituto per le pubbliche relazioni.
Durante tutto questo decennio, inoltre, si impegnò al fianco di Saragat nella diretta elaborazione dei «lineamenti di un programma socialdemocratico» e di una base teorica per un moderno socialismo che, coordinandosi con le maggiori forze laburiste e socialdemocratiche internazionali, tentò di rappresentare sul piano culturale e politico il terreno di incontro fra le formazioni laiche e progressiste, ma anticomuniste, del panorama politico italiano. Fondamenti di tale visione politica erano il sostegno al posizionamento atlantico dell’Italia, la fiducia nel libero mercato e nella liberalizzazione degli scambi nel quadro del Mercato europeo comune, la convinzione dell’utilità della programmazione quale strumento per la promozione dello sviluppo economico nazionale.
Naturalmente, nel contesto italiano del periodo tale posizione – socialista e di governo – risultava stretta tra le più ampie e radicate culture politiche che, relazionandosi agli equilibri internazionali, animavano i due principali partiti di massa determinando condizioni che lasciavano ben poco spazio di manovra e sviluppo a soluzioni alternative. La compressione politica di ogni eventuale socialdemocrazia italiana corrispose, in seguito, a una sorta di rimozione sia storiografica sia politica pure degli aspetti originali e moderni di tale esperienza. Nondimeno, anche sulla base di queste visioni, affermate per lungo tempo e con coerenza, il ruolo politico di Tremelloni si consolidò nuovamente dalla fine degli anni Cinquanta quando il punto di vista in politica economica da lui assiduamente sostenuto si affermò per la progressiva condivisione della ‘programmazione economica’ quale base fondativa del centro sinistra.
Di conseguenza, fu indicato per rivestire il ruolo di ministro del Tesoro del quarto governo Fanfani (1962-63) perno, insieme a Ugo La Malfa, delle politiche economiche attese come fortemente riformatrici; da dove propugnò misure incentrate prevalentemente su qualificazione della spesa pubblica, efficienza della pubblica amministrazione e ripudio della via inflazionistica, tanto da meritarsi il soprannome di ‘ministro quanto costa’ per una nota severità nella tenuta dei conti pubblici.
In seguito, per tutta la quarta legislatura, rimase nei governi di Aldo Moro come ministro delle Finanze (1963-66) e poi quale ministro della Difesa (1966-68). In questo ruolo, assunto non senza timori e su spinta di Saragat ormai salito alla presidenza della Repubblica, oltre a tentare di riformare in senso moderno l’amministrazione militare, dovette affrontare il noto ‘scandalo SIFAR’. I gravi fatti relativi a deviazioni, illecite attività e sospetti progetti di colpi di Stato determinarono la riorganizzazione dei servizi militari, attraverso un controverso percorso istituzionale, sul piano personale vissuto drammaticamente come ministro sottoposto, con il capo dello Stato, ad attività di dossieraggio e diffamazione.
Eletto per l’ultima volta nel 1968 nelle liste del Partito socialista unificato (PSU), Tremelloni presiedette la Commissione bilancio e programmazione fino al 1972, prima di uscire dalla scena pubblica e dal partito.
Il tramonto politico di Tremelloni giunse all’epilogo sostanziale dell’esperienza del centro-sinistra e alla vigilia dell’esaurirsi della spinta ideale e delle condizioni che avevano sostenuto la parabola socialdemocratica in Europa. L’estromissione dalla politica attiva avvenne in modo repentino e irreversibile e scontò, pure, la costante rivendicazione di autonomia e il ‘coraggio dell’impopolarità’ in un partito che, progressivamente, era degenerato fino a perdere di senso politico e all’interno del quale, comunque, era sempre stato percepito come una figura tecnica in virtù del rapporto diretto e fraterno con Saragat.
Nel suo ultimo libro, intitolato L’Italia è a metà strada (Milano 1972), Tremelloni anticipò analisi sulle criticità del sistema economico italiano che di lì a poco sarebbero divenute assodate: iperinflazione, disordine nella spesa pubblica, scarsa produttività del sistema; su questi temi fissò l’attenzione lasciando in eredità la sola ricetta da lui costantemente applicata: la severità nella gestione del denaro pubblico.
Ritirato a vita privata, morì a Brunico l’8 settembre 1987.
Opere. L’Organizzazione internazionale del lavoro, Milano 1924; L’Industria tessile italiana. Come è sorta e come è oggi, Torino 1936; Storia dell’industria italiana contemporanea, Torino 1947; Il cuore è a sinistra. Discorsi di un socialista democratico agli italiani, Milano 1958; Le strade del benessere in uno Stato efficiente, Milano 1958; A sinistra c’è posto per la libertà, Firenze 1963.
Fonti e Bibl.: M. Granata, Cultura del mercato. La Commissione parlamentare di inchiesta sulla concorrenza (1961-1965), Soveria Mannelli 2008, ad ind.; Id., R. T. Riformismo e sviluppo economico, Soveria Mannelli 2010; R. T. Un progresso possibile. Scritti e discorsi (1945-1973), a cura di M. Granata, Milano 2012; T. Discorsi parlamentari, a cura di M. Granata, Roma 2013.