ricco e povero
Nel binomio r. e p. si riconosce uno degli aspetti qualificanti del pensiero machiavelliano. Il Segretario dichiarava la sua incompetenza nelle questioni economiche, ma nelle sue pagine politiche e storiche dimostrava grande acutezza nella valutazione delle conseguenze negative di una prevalenza della economia sulla politica, della oikìa sulla polis, della ricchezza privata sul bene pubblico. La distinzione fra i due ambiti era stata sottolineata già da Aristotele, entrando a far parte della tradizione del pensiero politico occidentale, ma il filosofo stagirita la inseriva in una concezione della politèia come ente naturale, quale apice di una progressione non artificiale, né pattizia, dalla famiglia alla comunità, alla polis. M., invece, come palesa Discorsi II ii, accreditava una origine non naturale, ma ferina e conflittuale della politica, origine che ne avrebbe costituito sempre la sua principale connotazione. Proprio per queste ragioni, dalle sue opere emerge la consapevolezza della potenza disgregativa ed esiziale dell’accumulazione di grandi ricchezze, che potesse finalizzarsi alla manipolazione del consenso popolare e alla conquista del potere. Il Segretario si dimostrava molto attento verso gli effetti perniciosi provocati da un demagogo, soprattutto se questi possedesse una ingente disponibilità finanziaria e proprietaria.
Preoccupazione costante di M. era che un privato molto ricco potesse servirsi delle proprie ricchezze per corrompere il pubblico e le leggi (l’esempio fiorentino era costituito dai Medici nel 15° sec.). In Discorsi III xvi raccomandava che si impedisse in una città che le «ricchezze sanza virtù» potessero rovinarla. In un altro brano, Discorsi III xxviii, precisava la sua tesi, spiegando che una res publica decade quando un cittadino si procaccia favori per vie private e non per vie pubbliche, distinguendosi per le sue virtù politiche a favore del bene pubblico. Con coerente sviluppo delle sue argomentazioni, M. quindi ribadiva, per es. in Discorsi III xxv a proposito di Cincinnato, che la povertà non deve impedire a un cittadino virtuoso di raggiungere i più alti gradi della repubblica.
M. identificava nel bene comune la preservazione di «roba» e «onore» del popolo, non timoroso in un vivere civile e ben ordinato di essere vittima dell’arbitrio e dei soprusi. D’altro canto, il popolo può divenire il protagonista di una degenerazione licenziosa o faziosa della res publica, quando si lasci possedere dalla brama di ricchezze, inficiando e corrodendo gli «ordini» della città. Non a caso il momento testuale di maggiore tensione concettuale da parte di M. nell’affrontare la dialettica fra r. e p., è la discussione degli esiti delle leggi agrarie nell’antica Roma. M. sosteneva che la «risoluzione» della Repubblica romana fosse stata causata da due ragioni: «l’una furon le contenzioni che nacquono dalla Legge Agraria, l’altra la prolungazione degli imperii [sia i comandi militari sia le magistrature civili]» (III xxiv 2).
La legge agraria, infatti, è al centro di un fondamentale capitolo dei Discorsi: I xxxvii. In queste pagine non è affatto formulata una condanna senza appello della legge agraria. Essa avrebbe potuto rastremare l’ambizione dei grandi e realizzare una maggiore equità nella distribuzione delle terre. Ma ne era scaturita una deriva sociale e politica, che era degenerata infine nella tirannide di Cesare, preludio alla instaurazione del principato. Questa analisi non invalidava la famosa e scandalosa tesi machiavelliana, formulata in Discorsi I iv, che i tumulti avevano assicurato libertà e potenza all’antica Roma. Ma nei conflitti sulla legge agraria l’interesse fazioso prevaleva da entrambe le parti, e non consentì una composizione legale volta al bene pubblico.
M. elaborava così un tema antropologico, secondo una sua consuetudine di lettura dei fatti politici e sociali. La plebe, non soddisfatta del conseguimento del potere politico con il tribunato, aveva esteso i suoi appetiti alla sfera economica, suscitando reazioni furiose nella parte avversa. Gli uomini sono travagliati da una «mala contentezza», che mai li acquieta in quello che abbiano già raggiunto. Lo stesso bene procura noia: «Gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene» (Discorsi I xxxvii 2).
Le leggi agrarie patrocinate dai Gracchi, nel 133 e nel 123 a.C. (la Sempronia I e la Sempronia II), si ricollegavano a una lex Licinia Sextia (una norma sulla proprietà fondiaria proposta dai tribuni Caio Licinio e Lucio Sestio, nell’ambito di una generale riforma dell’ordinamento nel 367). La reazione dei patrizi fu durissima tanto che dalle derivanti violenze sociali entrambi i fratelli furono assassinati. Ma la contesa non si era arrestata con queste due vittime sacrificali. Era continuata con la guerra civile fra Mario e Silla e, successivamente, tra Cesare e Pompeo, finché il primo non aveva conquistato il potere:
[Cesare] fu primo tiranno in Roma, tale che mai poi fu libera quella città. Tale adunque principio e fine ebbe la legge agraria [...] gli uomini stimano più la roba che gli onori. Perché la Nobilità romana sempre negli onori cedé sanza scandoli straordinari alla plebe; ma, come si venne alla roba, fu tanta la ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare l’appetito suo, a quegli straordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i Gracchi, de’ quali si debbe laudare più la intenzione che la prudenzia. Perché, a volere levar via uno disordine cresciuto in una republica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male considerato [...] non si fa altro che accelerare quel male a che quel disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per se medesimo, col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne (Discorsi I xxxvii 20-21, 24-27).
M. criticava esplicitamente la retroattività della legge. In questo modo si era disattesa una virtù primaria dell’agire politico, tante volte encomiata dal pensatore fiorentino: il «vedere discosto», nel quale avevano dimostrato la loro eccellenza gli antichi Romani. Quando il male si fosse tanto radicato e non si fosse provveduto in tempo, era impossibile rimediarvi se non con strategie dilatorie. Per giunta, le contese sulla legge agraria avevano dimostrato quanto fosse difficile l’arte della politica e il suo cimento rispetto a uomini, che «sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio» (Principe xvii 14). Il politico virtuoso, infatti, deve fronteggiare la cupidigia inesausta di «roba» a detrimento del bene pubblico.
L’istanza machiavelliana, attestata da Sallustio a Cicerone a Orazio, sulla ricchezza pubblica e la povertà privata (Discorsi I xxxvii 8; cfr. anche II xix 8, III xvi 9, III xxv 2), che lo aveva indotto a un elogio dei popoli della Magna, per la loro parsimonia, per il loro amore per la libertà e l’indipendenza, non implicava affatto un’adesione al pauperismo francescano:
[...] tutte le terre e le provincie che vivono libere, in ogni parte [...] fanno profitti grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e connubii più liberi, più desiderabili dagli uomini, perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto, e ch’ei conosce non solamente ch’ e’ nascono liberi e non schiavi, ma ch’ei possono mediante le virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura e quelle che vengono dalle arti; perché ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a’ privati e publici commodi, e l’uno e l’altro viene maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanta più è dura la servitù (Discorsi II ii 44-48).
Era una conclusione congrua ai principi basilari del pensiero machiavelliano. La propensione naturale all’arricchimento, così come le passioni e gli istinti individuali, non doveva essere illusoriamente esorcizzata. Sarebbe riemersa, dopo un suo effimero soffocamento, con maggiore veemenza. Necessario, però, era che essa non minasse il bene comune. Le ricchezze innescano un processo di esautoramento delle istituzioni repubblicane, quando squilibrano la tensione (il cui controllo è compito precipuo del politico) fra perseguimento individuale dell’utile e benessere collettivo. D’altro canto, com’è stato notato (Sasso 1993), il repubblicanesimo imperialistico di M. non evitava una contraddizione insolubile. Il giusto rapporto fra privato e pubblico era condannato a perdersi in una Roma protesa all’accrescimento, nello stesso tempo, delle sue conquiste e della individuale brama di ricchezze.
La medesima dialettica fra ricchezza e povertà, seppur in un contesto diverso (la Firenze medievale) e con un protagonista diverso (non la plebe romana già titolare di un potere politico con il tribunato, bensì i Ciompi, proletari senza alcuna tutela istituzionale), circola nella narrazione dei drammatici eventi accaduti nella sua città nel 1378. Nelle Istorie fiorentine il Segretario contrapponeva in una specularità rovesciata la Repubblica romana, nella quale il conflitto virtuoso aveva come risultato una legge per l’«universale», alla Firenze medievale, in cui il conflitto vizioso generava sette e fazioni che perseguivano una logica politica della esclusione e della eliminazione dell’avversario. Ancora, narrando la storia della sua patria nei secoli passati, M. mostrava di condannare non solo la prepotenza oligarchica, ma anche le pretese della «plebe e del popolo minuto», di cui, non di rado, rammentava le «arsioni e ruberie», i saccheggi e le devastazioni compiute (Ist. fior. III xii-xiii). M., però, con giudizio equanime non mancava di analizzare le cause, che avevano determinato il malcontento dei lavoratori manuali e il tumulto dei Ciompi, che ancora nella Firenze cinquecentesca costituiva la memoria più angosciante della furia popolare. Infatti, al Segretario non sfuggiva che i capitani della parte guelfa
i popolani delle maggiori Arti favorivano e quelli delle minori con i loro difensori perseguitavano [...] Ma perché nell’ordinare i corpi delle Arti molti di quegli esercizi in ne’ quali il popolo minuto e la plebe infima si affatica sanza avere corpi di Arti proprie restorono, ma a varie Arti, conformi alle qualità delli loro esercizi, si sottomissono, ne nasceva che quando erano o non sodisfatti delle fatiche loro o in alcun modo dai loro maestri oppressati, non avevano altrove dove rifuggire che al magistrato di quella Arte che gli governava; da il quale non pareva loro fusse fatta quella giustizia che giudicavano si convenisse (Ist. fior. III xii).
Il popolo minuto non aveva, dunque, protezione politica e giudiziaria nella Firenze trecentesca. Erano assenti quei canali istituzionali, presenti invece nell’antica Roma, i quali consentissero alle rivendicazioni di quei lavoratori di assumere forma politica e di poter essere soddisfatte. Anche il famoso discorso del Ciompo (Ist. fior. III xiii) non sembra suscitare l’indignazione di Machiavelli. Le sue tesi erano basate su un principio condivisibile, l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini e, quindi, l’ingiustizia dell’oppressione sociale:
[...] tutti gli uomini avendo avuto uno medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a uno modo. Spogliateci tutti ignudi, voi ci vederete simili [...] solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano (Ist. fior. III xiii).
Nelle sue parole – nelle quali Carlo Dionisotti ha registrato un’eco di una lettura di Utopia di Thomas More, edita a Firenze nel 1519 (Dionisotti 1980, p. 213) – il lavoratore adoperava categorie ed espressioni presenti nelle opere maggiori dell’ex Segretario:
[...] perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportono vergogna [...]. Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengano, o con frode o con forza esservi pervenuti [...] gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanno sempre col peggio chi può meno. Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data occasione [...] dove la necessità strigne è l’audacia giudicata prudenza (Ist. fior. III xiii).
Ed è notevole il riferimento da parte del Ciompo alla frode e alla forza, quali cause di grandi ricchezze, ossia proprio quelle peculiarità dell’azione del principe, celebrate nel famoso cap. xviii del Principe. Ma frode e forza, che erano state adottate dagli stessi antichi Romani per la costituzione del loro vasto impero e che il principe doveva assumere per la «salute» dello Stato, divenivano nelle mani dei grandi ricchi strumenti per incrementare la loro personale potenza privata e corrompere il «publico».
Il giudizio di M. sull’orazione del Ciompo risultava tuttavia evidente nel commento al suo discorso, quando rilevava che «queste persuasioni accesono forte i già per loro medesimi riscaldati animi al male» (Ist. fior. III xiii). Che al «male» e non al bene comune fosse stato indirizzato il tumulto, risalta anche nella narrazione delle atrocità e dei «molti mali» compiuti per il «furore di quella sciolta moltitudine» (Ist. fior. III xiv) e per la sua «disonestà» (Ist. fior. III xv).
La negatività del tumulto si manifestava, per contrasto, quando M. illustrava l’azione di un altro capo della plebe, Michele di Lando, «pettinatore di lana», del quale, invece, l’autore delle Istorie fiorentine, proprio perché non nutriva pregiudizio sociale alcuno, apprezzava con chiare parole la politica per la realizzazione del bene non di una fazione, bensì dell’intera città. Michele, in seguito al tumulto, per volere della plebe era diventato gonfaloniere, ma egli, «uomo sagace e prudente e più alla natura che alla fortuna obligato» (Ist. fior. III xvi), aveva intrapreso un «imperio con giustizia» e non aveva esitato, per la difesa delle istituzioni, a scontrarsi contro la sua stessa parte, che era precipitata nella violenza.
In conclusione, anche in queste pagine l’atteggiamento mentale di M. non cambiava e il suo criterio di riferimento era il medesimo. Per quanto sensibile alle ragioni e alle rivendicazioni di giustizia dei più deboli, egli non poteva accettare che esse portassero allo sconvolgimento degli «ordini» della città, al rischio della sua «ruina» e a una faziosità avversa al bene della res publica.
Bibliografia: G. Arias, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli, «Annali di economia», 1928, 4, pp. 1-31; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Bologna 1993; D. Taranto, Le virtù della politica. Civismo e prudenza tra Machiavelli e gli antichi, Napoli 2003; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.