sudafricana, Repubblica
Stato dell’Africa australe.
Gli ottentotti (agricoltori) e i boscimani (cacciatori e raccoglitori), indicati collettivamente col nome di , sono considerati popolazioni autoctone in senso stretto; la loro cultura rimase arretrata ed essi furono travolti dall’emigrazione dal N e, successivamente, dall’arrivo dei primi europei sull’estrema costa meridionale. Nuclei bantu, antenati degli attuali sotho, scesero dall’odierno Zimbabwe verso S a partire dal sec. 15°; gruppi di sotho e tswana si stabilirono quindi nei territori degli odierni Transvaal e Orange, mentre lungo la costa orientale (Natal) discesero gli nguni. Una tribù di quest’ultimo gruppo, gli xosa, si spinse più a O, raggiungendo il Fish River intorno alla metà del sec. 17°. Quanto all’insediamento dei bianchi, esso ebbe inizio solo dopo il 1487-88, quando il portoghese B. Dias riuscì a raggiungere e doppiare il Capo delle Tempeste, ribattezzato col nome più augurale di Capo di Buona Speranza, e a completare la circumnavigazione dell’Africa. Mentre i portoghesi facevano semplicemente scalo al Capo sulla rotta per le Indie, gli olandesi, subentrati a essi intorno alla metà del sec. 17° nel controllo della rotta verso l’Oriente, fondarono nel 1652 (a opera di J. van Riebeek, agente della Compagnia delle Indie orientali) un primo stabile deposito di provviste, mutatosi verso la fine del secolo in una colonia di popolamento (600 olandesi nel 1680). Nel 1688 giunsero trecento ugonotti fuggiti dalla Francia in seguito alla revoca dell’Editto di Nantes. Dal secolo successivo, olandesi, francesi e altri europei di diversa provenienza, accomunati dalla rigida fede calvinista che li portava a considerarsi «eletti» nei confronti delle popolazioni locali, si andarono fondendo in una comunità dai caratteri originali, che perdeva ogni legame affettivo e pratico con l’Europa, mentre per cercare terre fertili e nuovi pascoli si espandeva verso est. In questa prima fase i khoisan furono decimati e in parte assimilati in posizione servile; solo sul finire del sec. 18° i coloni del Capo giunsero a contatto, lungo il confine del Fish River, con i bantu, più numerosi e sviluppati. Ne nacquero contrasti e scontri fra le due popolazioni, ambedue in espansione demografica e bisognose di terre per gli uomini e per il bestiame; ebbe così avvio la serie delle guerre cafre (cafri erano chiamate dai portoghesi quelle popolazioni bantu), condotte dai boeri (contadini), come furono chiamati i coloni europei, con una loro propria organizzazione, mentre la Compagnia olandese ne restava estranea. Al termine delle guerre napoleoniche, nel 1814, la colonia del Capo fu ceduta agli inglesi che l’avevano già occupata dal 1795 al 1803 e poi dal 1806; le autorità britanniche ristabilirono un più stretto controllo centrale e introdussero norme più liberali nei confronti delle popolazioni di colore. Frattanto, nella tribù zulu degli nguni si era imposto, agli inizi del secolo, un grande genio militare, Chaka, che, divenuto capo della sua tribù, cominciò a condurre razzie e guerre contro le popolazioni confinanti. La politica bellicosa di conquista degli zulu, proseguita sotto la guida di Dingaan (che nel 1828 aveva ucciso il fratello uterino Chaka), ebbe ripercussioni nell’intera Africa meridionale, spingendo le popolazioni attaccate a organizzarsi in forma più salda ed efficiente per difendersi, ovvero a spostarsi, con guerre o con pacifiche migrazioni; sorsero così, fra l’altro, il regno dello Swaziland e quello dei basuto. Nel 1835 i boeri, per sottrarsi all’autorità britannica (il contrasto con la quale si era aggravato dal 1825 per i provvedimenti governativi a protezione dei non europei) e per organizzarsi liberamente secondo la propria tradizione politico-religiosa, cominciarono a emigrare in massa (➔ ) oltre l’Orange e verso le praterie del Natal; nel 1840, vinta la resistenza degli zulu guidati da Dingaan, il capo A. Pretorius proclamava la Repubblica boera del Natal. Il tentativo di indipendenza fu però stroncato energicamente dal governo britannico e nel 1845 il Natal fu annesso alla colonia del Capo (dal 1856 fu eretto in colonia separata); la Gran Bretagna riconobbe invece con la convenzione del fiume Sand (1852) le repubbliche create dai boeri nel Transvaal e lo Stato libero dell’Orange (convenzione di Bloemfontein, 1854). Le autorità del Capo estesero nel 1871 il proprio controllo sui griqua (il cui territorio aveva acquistato importanza per la scoperta a Kimberley nel 1868 di giacimenti diamantiferi) e sui basuto, ma ciò portò il governo britannico a scontrarsi con gli zulu. Col pretesto di difendere da questi ultimi i coloni europei, insufficientemente tutelati dalla debole amministrazione boera, la Gran Bretagna si annesse nel 1877 la Repubblica sudafricana del Transvaal (nata nel 1856 dall’unificazione dei piccoli Stati boeri sorti a N del Vaal). Nel 1880 i boeri insorsero contro gli inglesi che, sconfitti alle colline di Majuba nel febbr. 1881, dovettero restituire l’autonomia al Transvaal, pur mantenendo la sovranità sul territorio e il controllo delle sue relazioni estere (Convenzione di Pretoria, 3 ag. 1881). Il periodo di governo di C.J. Rhodes, primo ministro della colonia del Capo dal 1890 al 1896, desideroso di unificare tutti i territori abitati da coloni europei, segnò un nuovo fallito tentativo (il cosiddetto Jameson raid, 1895-96) di assorbimento del Transvaal, dove nel 1886 erano stati scoperti giacimenti auriferi. Gli inglesi si levarono a paladini degli uitlanders, vittime della politica nazionalista e xenofoba del presidente del Transvaal S.J.P. Kruger; il nuovo contrasto tra boeri e governo britannico (che nel 1885 aveva esteso il suo controllo sul Bechuanaland) portò alla sanguinosa guerra anglo-boera (dichiarata dal Transvaal il 9 ott. 1899). La strenua resistenza dei boeri fu piegata dopo tre anni (31 maggio 1902); il Transvaal e l’Orange divennero colonie britanniche, ma riottennero ampia autonomia nel 1906 e 1907. Una certa riconciliazione fra inglesi e boeri, promossa dal governo britannico, consentì la creazione dell’Unione Sudafricana (31 maggio 1910), dominio dotato di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva nelle mani dei ca. 1 milione e 250.000 bianchi, in maggioranza afrikaner (o boeri), rappresentati dal South African party (SAP) di L. Botha, primo ministro nel 1910-19. La popolazione africana (4.500.000 individui ca.) fu gradualmente privata dei pochi diritti di cui aveva goduto nelle colonie del Capo e del Natal; per difenderne le prerogative fu costituito nel 1912 l’African national congress (ANC), che non poté però impedire l’anno seguente l’approvazione di una legge che vietava ai neri l’acquisto di terre al di fuori delle riserve nelle quali essi erano stati confinati. Appena migliori erano infine le condizioni riservate ai ca. 500.000 coloureds (meticci) e ai quasi 200.000 asiatici, in maggioranza indiani, immigrati nel corso del sec. 19°. Nella Prima guerra mondiale il Sudafrica si schierò con la Gran Bretagna, nonostante le simpatie per la Germania nutrite dai boeri più estremisti (alcuni dei quali diedero vita nel 1914 al Nationalist party, NP), e nel 1920 il governo presieduto da J.C. Smuts, succeduto a Botha nel 1919, ottenne dalla Società delle nazioni il mandato sull’Africa del Sud-Ovest, già colonia tedesca. Alla vittoria dei nazionalisti nelle elezioni del 1924 e alla nomina di J.B.M. Hertzog a primo ministro fecero seguito l’inasprimento della legislazione razziale (nel 1926 i neri furono esclusi dagli impieghi qualificati nei settori industriale e minerario) e l’adozione di una politica più indipendente da Londra. Indebolito dalle conseguenze della crisi economica internazionale, nel 1933 Hertzog accolse nel suo governo Smuts e acconsentì alla fusione di NP e SAP nello United party (UP, 1934), abbandonando il suo orientamento decisamente antinglese in cambio di un irrigidimento della legislazione razziale; il compromesso resse sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando Hertzog si dimise perché contrario all’entrata in guerra contro la Germania, approvata a strettissima maggioranza dal Parlamento, e la guida dell’esecutivo fu nuovamente assunta da Smuts (1939). In questo periodo il Sudafrica conobbe un notevole sviluppo industriale; tale crescita e la parallela introduzione di nuove tecnologie in agricoltura provocarono massicci fenomeni di inurbamento che riguardarono, oltre agli più poveri, anche centinaia di migliaia di neri, a dispetto delle proibizioni di legge. Riorganizzato per iniziativa di D.F. Malan, nelle elezioni del 1948 l’NP conquistò il consenso compatto dei boeri e la maggioranza assoluta dei seggi; il governo nazionalista, presieduto dallo stesso Malan (1948-54), applicò una politica di rigida segregazione dei diversi gruppi etnici, obbligati per legge a risiedere in zone separate, a usufruire di mezzi di trasporto e luoghi pubblici distinti e a svolgere attività lavorative differenti (➔ ); ogni opposizione fu stroncata e il South African communist party (SACP) fu messo al bando (molti suoi esponenti confluirono allora nell’ANC). Il NP si impose nettamente in tutte le successive elezioni sino al 1981 e i governi da esso espressi, guidati da J.G. Strijdom (1954-58), H.F. Verwoerd (1958-66) e B.J. Vorster (1966-78), accentuarono progressivamente la politica di segregazione. In particolare, nel 1959 fu avviata la costituzione di regioni separate, popolate da singole etnie africane, dotate di autogoverno e destinate a divenire indipendenti (➔ ); nel 1960 furono banditi i partiti antirazzisti (l’ANC e il Pan africanist congress, PAC, nato nel 1959 da una scissione del primo), che intrapresero allora la strada dell’opposizione armata al regime segregazionista. Quest’ultimo fu ripetutamente condannato a livello internazionale dall’OUA, dall’ONU – in contrasto con Pretoria anche per la questione dell’ex Africa del Sud-Ovest (➔ Namibia) – e dai membri afroasiatici del Commonwealth; per non piegarsi alle pressioni di quest’ultima organizzazione il Sudafrica ne uscì, proclamando la Repubblica (31 maggio 1961). Le sanzioni economiche votate dalla comunità internazionale a partire dal 1962 non impedirono alla Repubblica s. di beneficiare di ingenti investimenti dall’estero (in particolare dai Paesi occidentali, ai cui occhi Pretoria appariva come un bastione dell’anticomunismo in Africa) e di diventare la nazione più industrializzata del continente. La supremazia economica consentì alla Repubblica s., dalla seconda metà degli anni Sessanta, di allacciare con alcuni Paesi africani rapporti commerciali e diplomatici, interrotti o contrastati per il coinvolgimento di Pretoria nelle guerre civili scoppiate in Angola e Mozambico, giunti all’indipendenza (1975) sotto la guida di movimenti di liberazione di ispirazione marxista. Sul piano interno, gli anni Settanta fecero segnare un aumento della conflittualità sociale e razziale (nel 1973 un’ondata di scioperi nel settore minerario portò alla concessione di aumenti salariali e alla registrazione dei principali sindacati dei lavoratori africani; nel 1976 fu repressa con oltre mille morti una rivolta scoppiata a Soweto contro un progetto di riforma dell’istruzione, che prevedeva fra l’altro l’introduzione dell’afrikaans nelle scuole riservate ai neri), cui il governo reagì rafforzando l’apparato militare e poliziesco e stringendo i tempi nel concedere l’indipendenza, mai riconosciuta a livello internazionale, a quattro bantustan (Transkei, 1976; Bophuthatswana, 1977; Venda, 1979; Ciskei, 1981). P.W. Botha, succeduto al dimissionario Vorster nel 1978, per rispondere alle esigenze di sviluppo economico del Paese e di allargamento del mercato interno avviò una limitata attenuazione dei divieti che impedivano ai neri l’accesso a impieghi qualificati nell’edilizia e nell’industria e una revisione delle leggi che vietavano i rapporti sessuali e i matrimoni tra persone di razze diverse; nel 1984 fu varata una nuova Costituzione, che istituiva un Parlamento tricamerale in rappresentanza di bianchi, asiatici e coloureds e aboliva la carica di primo ministro, attribuendo tutti i poteri al presidente della Repubblica, carica assunta dallo stesso Botha. Le elezioni per le camere degli asiatici e dei meticci, svoltesi nell’ag. 1984, videro però una partecipazione molto ridotta degli aventi diritto, grazie al boicottaggio organizzato dallo United democratic front (UDF), organizzazione antirazzista multietnica nata nel 1983, e da alcuni dei partiti delle rispettive comunità; contro la nuova Costituzione, che continuava a privare dei diritti politici la stragrande maggioranza della popolazione, si moltiplicarono le proteste dei neri, spesso sfociate in aperte rivolte, che portarono nel 1986 alla proclamazione dello stato d’assedio. In un clima di acuta tensione sociale emersero divisioni all’interno della stessa comunità nera, in particolare tra gli attivisti (prevalentemente xosa) dell’ANC e quelli del movimento Inkatha, organizzazione nazionalista di massa degli zulu, guidata dal capo G.M. Buthelezi, primo ministro del bantustan del KwaZulu (➔ ; Natal). Sul piano internazionale, l’isolamento della Repubblica s. fu accentuato dall’avvento all’indipendenza dello Zimbabwe (ex Rhodesia) nel 1980; il rafforzamento della guerriglia indipendentista in Namibia portò le truppe di Pretoria a frequenti incursioni in Angola, ove erano situate le basi dei guerriglieri, e a scontri con le forze cubane, alleate del governo angolano, mentre difficili restavano le relazioni col Mozambico, nonostante un patto di non aggressione firmato nel 1984. Solo il mutamento di clima nelle relazioni internazionali dopo l’avvento al potere di M.S. Gorbacëv in URSS rese infine possibili gli accordi del dic. 1988 tra Repubblica s., Angola e Cuba, raggiunti con la mediazione degli USA, che determinarono il ritiro sudafricano da Namibia e Angola. L’irriducibile opposizione dell’ANC all’interno e il continuo deteriorarsi delle condizioni economiche del Paese, gravato da enormi spese per sicurezza e difesa e dagli effetti delle sanzioni economiche varate nel 1984-85 da ONU, CEE, USA e Commonwealth, convinsero infine consistenti settori dell’NP (confermato primo partito nelle elezioni del 1987 e del 1989) dell’impossibilità di mantenere il regime di segregazione. Nel febbr. 1990 F.W. de Klerk, subentrato al dimissionario Botha nell’ag. 1989, annunciò in Parlamento la prossima scarcerazione del leader dell’ANC, N.R. Mandela, la fine del bando nei confronti dei partiti antirazzisti e l’avvio di negoziati con questi ultimi per dare al Paese una nuova Costituzione. Entro il giugno 1991 il governo abolì le principali leggi segregazioniste e la comunità internazionale ridusse le sanzioni economiche contro Pretoria (definitivamente cancellate nel 1993); nel dic. 1991 si riunì una conferenza multipartitica, incaricata di redigere una nuova Costituzione, i cui lavori furono più volte interrotti per le resistenze opposte dall’estrema destra razzista (organizzata nel Freedom front, FF), ma soprattutto per la posizione assunta dall’Inkatha freedom party (IFP, come era stato ribattezzato nel 1990 il movimento degli zulu), favorevole alla creazione di una federazione sudafricana di Stati indipendenti. I negoziati portarono infine a una Costituzione provvisoria nella quale non vi era più traccia dei bantustan come entità separate, assorbiti nelle nove regioni dotate di ampia autonomia amministrativa e legislativa in cui è stata ordinata la nuova Repubblica. Nell’apr. 1994 si tennero le prime elezioni a suffragio universale, vinte dall’ANC con il 62,6% dei voti, contro il 20,4% del NP, il 10,5% dell’IFP e il 2% del FF, e nel maggio 1994 Mandela fu eletto dal Parlamento capo dello Stato; il leader dell’ANC diede vita a un governo di unità nazionale (composto, secondo quanto previsto dalla Costituzione provvisoria entrata in vigore nell’apr. 1994, da tutti i partiti che avevano ottenuto almeno il 5% dei voti), che ha varato un «programma per la ricostruzione e lo sviluppo» mirato a una crescita più equa dell’economia e della società, e in particolare volto al potenziamento dell’edilizia popolare e a garantire alla maggioranza della popolazione l’accesso all’istruzione elementare e ai servizi sanitari di base.
La Repubblica s. affrontò problemi di enorme gravità: la necessità di una transizione incruenta da un regime autoritario e razzista a una democrazia; la creazione di un nuovo ordine costituzionale; l’esigenza di garantire uno sviluppo economico caratterizzato da una maggiore equità sociale; l’obbligo di assicurare in una situazione di fortissimi squilibri l’ordine pubblico, che fino a quel momento era stato sinonimo di repressione statale, violenta e spesso illegale, nei confronti di tutte le forme di protesta. I primi anni della nuova Repubblica s. si caratterizzarono dunque per un preciso filo conduttore: evitare la catastrofe, la vendetta dell’oppresso sull’oppressore, l’esplosione incontrollata del conflitto etnico, non solo tra bianchi e neri, ma nella stessa comunità di colore, al cui interno erano state alimentate divisioni e contrapposizioni, in particolare tra gli zulu e il resto della popolazione nera. Il compito del governo era ostacolato dal perdurare della tensione e degli incidenti tra attivisti dell’ANC e dell’IFP nel KwaZulu-Natal (oltre 4500 vittime nel periodo 1993-95); dall’apr. 1995 l’IFP, adottate posizioni apertamente secessioniste, cessò di partecipare ai lavori dell’Assemblea costituente (l’Assemblea nazionale e il Senato, eletti nell’apr. 1994, riuniti in seduta comune), mettendo in pericolo l’approvazione entro il termine previsto (maggio 1996) di una Costituzione definitiva. La creazione di procedure parlamentari fortemente garantiste per le minoranze, la promulgazione (contemporanea alle prime elezioni) di un testo costituzionale provvisorio e l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione, presieduta dal vescovo anglicano D.M. Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984, riuscirono tuttavia a ricondurre la situazione nell’alveo del confronto democratico. La giovane generazione di neri che affrontava l’esperimento della democrazia era in larga parte priva di strumenti culturali che non fossero quelli di una militanza politica condotta spesso in chiave fortemente antagonista e militarizzata. A un esito pacifico contribuirono il clima internazionale, un vasto consenso popolare, il comportamento delle forze politiche, ma certamente e soprattutto Mandela, presidente della Repubblica dal maggio 1994. La figura di Mandela, già carismatica nel lunghissimo periodo di detenzione, diventò quella di un padre della patria, equilibrato e al di sopra delle parti, che coniugava aspetti di continuità della tradizione africana con quelli di modernità di un capo di Stato democratico. Un ruolo estremamente importante, anche per le sue valenze simboliche, assunse nella fase di transizione anche la Commissione per la verità e la riconciliazione (1995-98): voluta da Mandela, essa aveva il compito di stilare un elenco di coloro che, su ambedue i fronti, avevano subito violenze durante il regime di apartheid, individuare i colpevoli dei crimini, amnistiarli nel caso in cui avessero reso piena confessione e dimostrato che il reato era stato commesso per motivi politici e non personali. La commissione consentiva così a un intero Paese di specchiarsi nel suo passato recente, permetteva alle vittime di non sentirsi dimenticate e di non considerare le proprie sofferenze annullate dalla politica di compromesso istituzionale con gli esponenti del vecchio regime, e incanalava al tempo stesso sul terreno dell’ammissione delle colpe, del riconoscimento delle vittime e di una consensuale condanna morale molte tensioni e lacerazioni. Alcuni degli esponenti più importanti del passato regime e del partito di governo si rifiutarono di testimoniare, ma questo non incise in modo determinante sul ruolo svolto dalla Commissione perché, mentre i torti più gravi e generali potevano essere considerati in qualche modo impersonali e rinviati al giudizio della storia, che aveva già definitivamente condannato il regime dell’apartheid, erano le sofferenze individuali che dovevano trovare riconoscimento e risposta. Il mantenimento dei presupposti per una convivenza civile trovò conferma nella nuova Costituzione, approvata dal Parlamento nell’ottobre 1996 e promulgata il 4 febbraio 1997. Il nuovo testo costituzionale sottolineava la difesa delle garanzie individuali e prevedeva, all’interno di una visione centralistica dello Stato, il riconoscimento di una limitata forma di autonomia alle province. Il potere legislativo era attribuito a due Camere: l’Assemblea nazionale, costituita da 400 membri eletti a suffragio universale con metodo proporzionale, e il Consiglio nazionale delle province, di 90 membri, 10 per ciascuna Assemblea provinciale, a sua volta eletta a suffragio universale proporzionale. I limitati poteri attribuiti alle province, soprattutto in materia di educazione, sollevarono obiezioni da parte delle forze politiche a più forte insediamento regionale, come il partito zulu (IFP), che si rifiutò di partecipare alla stesura del testo definitivo. I vasti e articolati piani economici varati dal governo dopo le elezioni del 1994 si scontravano con la strutturale arretratezza del sistema. Sul piano economico la Repubblica s. presentava un duplice insieme di problemi: quelli legati a uno sviluppo economico insufficiente, dopo un decennio caratterizzato da un tasso di crescita negativo, e quelli legati alla presenza di fortissime disuguaglianze sociali. La mancata crescita economica era il risultato di fattori diversi: elementi strutturali riguardanti lo stesso assetto del sistema produttivo; fuga dei capitali nazionali, non compensata da un flusso adeguato di investimenti stranieri; difficoltà ad aumentare gli scambi internazionali dopo il rallentamento determinato dal boicottaggio contro l’apartheid; ristrettezza del mercato interno, dal quale era sostanzialmente esclusa la gran parte della popolazione nera. Proprio quest’ultima, inoltre, ancora nel 1994 si trovava in condizioni decisamente miserevoli: il 53% (rispetto al 2% dei bianchi) viveva infatti al di sotto della soglia di povertà, l’80% delle abitazioni era sprovvisto di elettricità, 12 milioni di persone erano prive di acqua potabile, le terre assegnate erano le meno produttive. I capitali stranieri esitavano inoltre a orientarsi verso il Paese sia per la carenza di manodopera qualificata, sia per gli elementi di preoccupazione sollevati dalla situazione dell’ordine pubblico. Quest’ultima non era in effetti rassicurante: un tasso di omicidi nel 1997 tra i più alti al mondo, i furti frequentissimi, le squadre private di vigilanza armata estremamente diffuse. Il traffico della droga tendeva inoltre a espandersi, mentre, nel clima di insicurezza di alcune aree dei maggiori centri urbani, le case venivano spesso trasformate in fortini. A questa ondata di criminalità concorreva certamente la tensione sociale che scaturiva dalla presenza, soprattutto in alcune città, di una popolazione nera di diseredati, in precedenza esclusi ed espulsi dalle aree urbane, senza occupazione, senza alloggio e dunque privi delle condizioni minime di sopravvivenza, che convivevano con una società bianca e opulenta dallo stile di vita occidentale. In politica estera la Repubblica s. democratica assunse immediatamente una maggiore visibilità, svolgendo un’intensa attività diplomatica e proponendosi come mediatrice nelle guerre e nelle crisi regionali africane. Alla crescita del credito e del prestigio a livello internazionale presso tutte le maggiori potenze occidentali, di cui il Paese divenne rapidamente un interlocutore privilegiato, non fece però riscontro un’analoga capacità di intervento in Africa, e le diverse iniziative di mediazione intraprese in Angola e in Congo non ottennero alcun successo. Un esito più favorevole, con l’entrata fin dal 1994 nella Southern African development community (SADC), ebbe l’impegno ad allargare la cooperazione economica nell’Africa australe per promuovere una sempre maggiore integrazione e stabilità dei Paesi dell’area. In questo contesto trova spiegazione l’assai discusso intervento armato, condotto sotto l’egida della SADC, in Lesotho nel settembre 1998 in appoggio al partito di governo. In una situazione di relativa stabilità politica, ma di sofferto equilibrio complessivo, la decisione di Mandela di non ricandidarsi alla presidenza della Repubblica, pur suscitando preoccupazioni nell’opinione pubblica interna e internazionale, confermò lo sforzo del Paese di superare una visione personalistica del potere e di continuare nel processo di democratizzazione. Il successore designato fu il vicepresidente T. Mbeki, militante fin dall’adolescenza nell’ANC, leader pragmatico, apprezzato dal mondo degli affari, convinto sostenitore della necessità di un «rinascimento» africano. L’ANC giungeva a questa scadenza elettorale presentando un bilancio della sua azione di governo in cui aspetti negativi, come le incerte condizioni dell’economia e la crescente criminalità, si coniugavano ai successi politici e istituzionali e a un grande sforzo di introdurre più estesi diritti di cittadinanza, case, acqua, istruzione. Le elezioni del giugno 1999 registrarono una schiacciante vittoria dell’ANC, che con il 66% dei voti guadagnava 266 dei 400 seggi dell’Assemblea nazionale, appena un seggio in meno dei due terzi sufficienti a modificare la Costituzione e 14 in più di quelli ottenuti nelle elezioni del 1994. Il voto segnò inoltre la sconfitta del New national party, nuova denominazione del NP, che ottenne appena 28 seggi rispetto agli 82 del precedente Parlamento, e il successo del Democratic party (DP), di tradizioni liberali ma presentatosi con un programma conservatore, passato da 7 a 38 seggi. Infine, l’IFP conquistò 34 seggi. Una vittoria così ampia, se confermava lo straordinario consenso dell’ANC, metteva anche in luce un possibile problema per una democrazia così giovane, quello della mancanza di forza dell’opposizione. Nello stesso mese, secondo le previsioni, l’Assemblea nazionale elesse Mbeki presidente della Repubblica. Il nuovo governo cercò di garantire continuità sia sul piano interno sia su quello internazionale, incontrando però notevoli difficoltà e non potendo contare sul carisma e sull’indiscussa popolarità di Mandela. Mbeki assunse in qualche caso posizioni assai discutibili, come quando sembrò sottovalutare la complessità del problema AIDS, dichiarando, nel generale sconcerto, il proprio scetticismo sull’origine virale della malattia, in occasione della Conferenza mondiale sull’AIDS svoltasi a Durban nel luglio 2000, o quando esitò ad assumere posizioni esplicite di condanna sul sostegno offerto da R. Mugabe, presidente del confinante Zimbabwe, alle politiche di espropriazione e alla violenza nei confronti dei proprietari terrieri bianchi. Qualche successo fu raggiunto nel 2000 nella lotta alla criminalità che rimaneva elevata, alimentata fra l’altro anche da una disoccupazione in forte accrescimento. La situazione economica generale rimaneva infatti contrassegnata da tassi di incremento del PIL nel complesso ancora modesti (2,1% nel 1999) e da una bilancia commerciale negativamente influenzata dai bassi prezzi dell’oro. Un evento di grande valore simbolico e di grande risonanza internazionale si verificò nell’aprile 2001, quando, in seguito a una coraggiosa e determinata iniziativa di Mandela, le grandi società internazionali di produzione di farmaci contro il virus HIV, responsabile dell’AIDS, ammisero il diritto dei Paesi poveri e particolarmente colpiti dall’epidemia di disporre a basso costo di farmaci efficaci nel trattamento della malattia, ritirandosi dal processo che avevano intentato contro la legge della Repubblica s. che ne permetteva la fabbricazione senza il pagamento dei relativi brevetti. Sfiduciato dall’ANC, Mbeki si dimise dalla carica nel sett. 2008; dopo la breve presidenza di K. Motlanthe, nel 2009 fu eletto presidente J. Zuma, con Motlanthe vicepresidente.