CASALI, Ranieri
Figlio, molto probabilmente primogenito, di Guglielmino di Uguccio e di una nobildonna della casata dei Ghinori conti di Fasciano, era erede del prestigio e delle fortune accumulate dalla famiglia nel corso del sec. XIII. Non è noto l'anno della nascita, che forse si deve collocare nel penultimo decennio del sec. XIII, visto che nel 1325 egli risulta padre d'un figlio naturale a quanto pare già in maggiore età. Certo è che dopo la morte del padre fu il C. a dover guidare la famiglia attraverso le difficoltà di un momento politico assai delicato.
Quale sia stata la condizione dei Casali in Cortona durante il quinquennio del governo popolano, tra il 1319 e il 1324, non sappiamo con certezza. L'unica notizia sicura e significativa per quegli anni è una deliberazione del Consiglio del Comune del 1323, la quale permette al C., indicato con il soprannome di "Ciambrusino", di vendere un suo cavallo iscritto alla cavallata, a patto di sostituirlo con un altro di valore almeno equipollente. Era quello un momento di generale tensione in tutta la Toscana: nell'aprile-maggio del 1319 Firenze aveva chiesto aiuto a diverse città, compresa Cortona, contro Castruccio Castracani; e i successi di quest'ultimo e del vescovo di Arezzo Guido Tarlati - le cui rivendicazioni feudali su Cortona dovevano impensierire i Cortonesi - erano preoccupanti. Ecco che quindi i nobili e i magnati cittadini, per quanto temuti e malvisti dal popolo, rimanevano utili: quanto meno nelle cavallate.
Il giovane C. aveva comunque interesse ad appoggiarsi al populus cortonese: il ceto magnatizio, per quanto compresso nel suo insieme dall'affermazione di quello popolano, non per questo aveva deposto le vecchie rivalità. Ed era naturale che il gioco delle fazioni magnatizie si misurasse nel rapporto di ciascuna di esse con il movimento popolano. Alcune notizie ci mostrano quale tipo di politica fosse quella scelta dal C. in tale frangente. Una Memoria, peraltro sospetta - un po' come tutto il corpus cronachistico cortonese di Boncitolo e dei suoi continuatori -, riferisce che il C. "huomo molto ricco et astutissimo" avrebbe approfittato di una carestia per prestare "maliziosamente" parecchie migliaia di staia di grano, approfittando in seguito anche dell'ufficio consolare ricoperto e della scarsa autorità dei colleghi per condurre una politica personalistica. Il tutto per farsi un seguito fra gli strati più umili della popolazione. Più benevolo, ma non meno circostanziato, un altro cronista cortonese, che rileva come il C. facesse elemosine, prestasse somme di danaro e condonasse poi i debiti a chi li aveva contratti, dotasse fanciulle, componesse dissensi familiari. Un tale atteggiamento presupponeva l'annoso prestigio di una famiglia che poteva vantare di discendere da quell'Uguccio che nel 1261 aveva liberato Cortona dagli Aretini, ma certo era reso possibile dalle notevoli disponibilità economiche dei Casali. Data la scarsità di fonti specifiche coeve. queste notizie non sono controllabili in modo puntuale; sono però da considerare verosimili, giacché contrappongono l'agiatezza dei Casali a un tono economico generale piuttosto depresso, qual era in effetti quello del Cortonese in quegli anni; e la carestia durante la quale il C. avrebbe condotto le sue speculazioni politiche basate sul prestito del grano potrebbe agevolmente essere appunto quella del 1323.
I rapporti del C. con il popolo da un lato e gli esponenti del ceto magnatizio dall'altro vengono illustrati ancora da un altro episodio, per la verità di sapore leggendario, tramandato dalla cronachistica cortonese.
Intorno al 1320, una certa contessa, originaria secondo alcuni di Germania, secondo altri di Guascogna, di ritorno dalla corte di Napoli si sarebbe fermata alle falde del monte di Cortona, in un palazzo situato presso le Piagge a nord di Camucia. Qui avrebbe tenuto corte, invitandovi i personaggi più ragguardevoli della zona quali Ghino di Mira marchese di Civitella, Rigone d'Ugolino marchese di Petriolo, il C. stesso. Poiché la dama non celava la sua netta preferenza per quest'ultimo, il marchese Ghino lo avrebbe fatto percuotere da un famiglio; il C. sul momento avrebbe inghiottito l'offesa. Ma qualche tempo dopo i magnati, volendo rovesciare il governo popolano, si sarebbero accorti di non poter agire senza l'appoggio del C.: e questi, fingendo di accettare, avrebbe fatto in modo di fornire ai rettori del Comune le prove della congiura magnatizia e insieme l'opportunità di prevenirla.
Il 30 nov. 1323 il popolo, messo sul chi vive dalla delazione del C., corse alle armi, assalì le case dei magnati in procinto di ribellarsi, li costrinse alla fuga e li condannò in contumacia. La tradizione cittadina ricorda quel giorno come il "rumore di sant'Andrea". Ormai scopertamente in lotta con la città, i magnati in esilio architettarono di lì a poco, d'accordo con certi loro partigiani rimasti in città, un nuovo colpo di mano: sarebbe stato attaccato il palazzo del popolo, scacciatine i consoli delle società e rettori delle arti. L'attacco, coordinato all'interno e all'esterno della città, venne sferrato il 25 luglio 1324: da qui il nome dato alla giornata di "rumore dei santi Iacopo e Cristoforo", che, a differenza del "rumore di sant'Andrea", fu cruento. I ribelli furono respinti, parte giustiziati, parte condannati in contumacia. Tuttavia in quell'occasione una parte dei magnati combattè accanto al popolo, e tra di loro il C. e suo fratello Uguccio.
L'avvenimento contribuì in modo determinante a chiudere il quinquennio popolano nella vita politica cortonese e ad aprire una nuova era d'accordo fra populus e una parte dei magnati, che tuttavia, nel giro di pochi mesi, condusse alla signoria. Il processo contro i colpevoli dei fatti del 25 luglio fu istituito, significativamente, da un magnate, messer Corradino o Corraduccio di Petroio conte di Ceccorano, che era si priore dei consoli per il secondo semestre del 1324, ma, soprattutto, era suocero del Casali.
Gli avvenimenti interni condizionarono le scelte nel campo delle alleanze esterne. I magnati cortonesi esuli si collegarono sempre più strettamente al vescovo di Arezzo, Guido Tarlati; e ciò costrinse Cortona ad abbracciare la causa di Firenze, di Siena, di Perugia, di papa Giovanni XXII. La rottura con il Tarlati - che i Cortonesi soccorrevano ancora nel febbraio 1325 contro i guelfi guidati de Ferrante Malatesta - ebbe anche un altro effetto sulla situazione cortonese. Giovanni XXII difatti, scomunicato e deposto il Tarlati ed elevato in suo luogo alla cattedra episcopale aretina un suo nemico, Boso di Biordo degli Ubertini, sottrasse alla diocesi di Arezzo Cortona, elevata a sua volta a diocesi ed affidata al fratello di Boso, Ranieri degli Ubertini. Giova ricordare che tra Casali e Ubertini esisteva una lunga tradizione di amicizia.
La signoria del C. maturò in questo clima di fervida esaltazione cittadina per l'ottenuta cattedra episcopale, ma anche di timore per le reazioni del Tarlati e dei fuorusciti. Uguccio, fratello del C., era capitano del popolo per la seconda metà del 1325; e del resto, dopo i fatti del luglio 1324, tutti gli organi del Comune erano pieni di consorti e seguaci dei Casali. Si trattava ormai di sanzionare formalmente una situazione di fatto, elevando a signore il principale rappresentante della faniiglia che teneva in pugno le sorti di Cortona, e che da parte sua - se si vuole dar fede alla citata Memoria appartenente al corpus bmcitoliano - aveva fatto di tutto, sfruttando l'eccezionale momento politico e ricorrendo anche a sotterfugi, per non abbandonare l'ufficio consolare assunto al momento della carestia.
La documentazione relativa agli atti che accompagnarono la elevazione del C. a signore di Cortona ci è giunta in copia, ma pare attendibile. Vi figurano, quali protagonisti, parenti e sostenitori del C.: primi fra tutti il fratello Uguccio, lo zio materno Matteo Ghinori dei conti di Fasciano, il cognato Cecco d'Angelliere, il congiunto Uguccio di Fico. Per la verità, sulla data d'inizio della signoria grava qualche dubbio, che nel Settecento fu alla base di una rabbiosa polemica erudita. Si discettava cioè se la signoria del C. fosse iniziata nel 1325 o nel 1329. 1 fautori della seconda ipotesi si appoggiavano a due documenti del 1328-29 nei quali il C. viene chiamato semplicemente capitano del popolo. Si potrebbe a ciò opporre sia lo statuto dell'arte dei notai del 1321, recante un'integrazione del 1325 nella quale si nomina il "nobilis et potens miles dominus Ranerius generalis dominus civitatis Cortone", sia lo statuto cittadino del 1325 indicante il "magnifficus milles (sic) dominus Ranerius dominus civitatis Cortone". La questione, che potrebbe sembrare un fatto di pura cronologia, cela forse un contenuto concretamente politico. I primi anni della signoria del C. furono, in realtà, anni di signoria familiare, e un ruolo di punta fu giocato soprattutto dal fratello Uguccio. Solo verso il 1329, in effetti, la volontà del C. prese a differenziarsi in modo apprezzabile, e il suo governo ad assumere una piega sempre più decisamente personale.
I primi passi della signoria furono resi più facili dal sentimento di coesione cittadina creatosi a causa dei molti pericoli esterni. La città era minacciata dai Tarlati, dai magnati esuli, dai ghibellini di Città di Castello, dal conte di Montefeltro. Fu soprattutto Perugia a sovvenire i nuovi alleati nella difficile congiuntura. Frattanto il C. provvedeva a regolarizzare la vita pubblica cittadina e a legittimare nel contempo i propri poteri fornendo Cortona di un nuovo statuto, entrato in vigore sembra nel dicembre dell'anno 1325, e varando la nuova "libra".
Rasserenatosi l'orizzonte politico toscano, emersero però nel ceto dirigente cortonese parecchi dissapori, giustificati forse in parte dalla sempre più chiara disposizione del C. al dispotismo. Egli decise difatti, nel 1329, un inasprimento della politica daziaria, e nel 1330 dette al suo vicario delle disposizioni che contrastavano con lo statuto. Atti del genere dovettero alienargli parecchie simpatie fra i popolani che fin lì lo avevano appoggiato, e favorire il desiderio di cambiamenti cullato da qualche maggiorente del 1325 successivamente emarginato, a cominciare dallo stesso Uguecio Casali. Furono tessute così le fila di una nuova congiura, dall'estemo appoggiata dai Pecora di Montepulciano e soprattutto da Pier Saccone Tarlati - cui pare che Uguccio avesse offerto la signoria di Cortona - e del fratello di questo, Lealetto, che abitava in Cortona. Il C., suo figlio Bartolomeo e il vescovo Ubertini avrebbero dovuto esser soppressi. Tutta la faccenda sboccò in effetti, nel gennaio 1332, in un tentativo di sollevazione, che fu agevolmente soffocato: si ebbero qualche caduto nel tumulto, alcune esecuzioni capitali, diverse condanne in contumacia. Uguccio Casali, incarcerato, finì prigioniero i suoi giorni.
Soffocata la congiura, il C. si sentì più sicuro e al tempo stesso in grado d'individuare con chiarezza maggiore i suoi nemici, a cominciare da Pier Saccone Tarlati. Avviò pertanto una fase ancor più incisiva di governo, sia in politica interna riducendo di numero i consiglieri del Comune la cui nomina era del resto già soggetta al suo beneplacito, sia in politica estera collegandosi con Firenze, con Perugia e con i nemici dei Tarlati. Era in preparazione ormai la guerra contro Pier Saccone. Essa scoppiò difatti nell'aprile del 1335. In quest'occasione, quale capitano di guerra dei Perugini, il C. dette per la verità una ben modesta prova di sé. L'8 giugno subì dal Tarlati una grave sconfitta e dovette riparare in tutta fretta dietro le mura cortonesi. Riprese le operazioni contro Arezzo fra agosto e settembre, non riuscì a concludere molto di più che devastare le campagne. Finalmente l'accordo tra Firenze e il Tarlati del marzo 1337 spianò la via ad una pace alla quale i Perugini e il C. dovettero adattarsi: un rappresentante del C. era presente in Perugia per stipulare l'atto di pace generale, il 29 aprile. Dall'accordo la posizione di prestigio del C. usciva rafforzata grazie al costante appoggio accordatogli dal Perugini; Firenze mostrava di tenerlo in gran conto, e lo invitava a più riprese a prender parte all'impresa di Lucca; la pacificazione tra Ubertini e Tarlati aumentava il suo prestigio tra le nobili famiglie dell'Italia centrale.
A quel punto però un nuovo pericolo si profilava nella Toscana meridionale e nello scacchiere limitrofo: quello cioè delle compagnie di ventura licenziate dai Pisani e dal duca d'Atene. Nell'ottobre del 1342 la Gran Compagnia di Guarnieri di Urslingen si accampava nel Cortonese, e il C. si meritò un unanime elogio per aver trattato lo sgombero delle sue terre, fungendo da mediatore tra Guarnieri e Perugia. Nel contempo, in appoggio ai suoi nuovi amici, i Tarlati, il C. guardava con crescente interesse ad Arezzo. Secondo il Villani avrebbe appoggiato la parte pietramalesca nel tentato colpo di mano del giugno 1342; il fatto certo è ch'egli s'intromise a più riprese nelle lotte aretine fra guelfi e ghibellini durante il triennio 1343-45. L'8 genn. 1346 si tenne a Perugia, alla presenza dei più importanti signori e Comuni dell'Italia centrale, un parlamento per discutere le misure da prendere nell'imminente discesa di Luigi d'Ungheria, al quale partecipò anche il Casali. In quella sede fu deciso fra l'altro di reprimere il moto ghibellino a Orvieto che il C. aveva appoggiato: ancora una volta, tutto si svolgeva all'insegna della doppiezza. Può darsi che il C., pur mantenendosi per causa di forza maggiore fedele all'asse politico Firenze-Perugia-Siena, scrutasse ansiosamente l'orizzonte alla ricerca d'un'alternativa che gli consentisse la ripresa d'un più dinamico gioco. Se dobbiam credere a Matteo Villani, egli avrebbe infatti finito col volgersi all'astro nascente visconteo, sull'esempio di molti altri Piccoli signori e feudatari toscani, umbri, marchigiani, romagnoli. In ciò d'altra parte egli non si scostava troppo dall'impostazione della diplomazia perugina, molto più tiepida che non Firenze e Siena nell'abbracciare la causa antiviscontea.
Il C. si dimostrava nello stesso tempo governante energico e non improvvido della sua città, che tra il 1342 e il 1348 vegliava a più riprese a riformare con disposizioni riguardanti i dazi, la "libra", il gioco d'azzardo. Attraverso queste norme è agevole constatare come il C. volgesse soprattutto la sua attenzione all'approvvigionamento granario e all'ordine pubblico: era evidente che, nonostante tutto, temeva ancora le sedizioni. Anche in occasione della peste nera, che colpì Cortona nel maggio del 1348, il C. intervenne con una serie di disposizioni soprattutto riguardanti le questioni di eredità.
Un altro settore della vita cittadina nel quale egli curò d'intervenire con energia fu l'amministrazione della diocesi: il signore non intendeva permettere che alla cattedra cortonese ascendessero uomini che non fossero di sua fiducia. A Ranieri degli Ubertini, morto nel nov. del 1348 di peste, successe difatti Gregorio Nucciarelli dei da Fasciano, arcidiacono della cattedrale, imparentato con il C. per parte di madre.
Morì il 7 (o secondo altre fonti il 22) genn. 1351.
Dal matrimonio del C. con una figlia di Corraduccio di Petroio erano nati quattro figli: Bartolomeo, Iacopo, Diora, Giovanna. Il C. aveva fatto sposare Bartolomeo con Bartolomea di Francesco di Tano degli Ubaldini; Iacopo con Agnese di Galasso da Montefeltro; Diora con Gione di messer Giovanni dei marchesi del Monte; Giovanna con Pietro d'Arrigo dei conti di Santafiora. Entrambe le figlie figurano già vedove nel 1350. Lasciò inoltre un figlio naturale, Filippo o Lippo, detto Lipparello, che ebbe un qualche ruolo nella successiva storia della famiglia; e forse era suo figlio naturale anche quel Buccino di Ranieri che figura castellano del cassero in una pergamena del dicembre 1341.
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