MEZZOGIORNO, QUESTIONE DEL
. È stata una delle più complesse questioni che abbiano agitato la vita italiana dopo l'unificazione del regno. Non sospettata nei primi decennî dopo l'unità nazionale, si rivelò ben presto all'indagine di studiosi meridionali e non meridionali (tra i quali primi, non per ordine di tempo soltanto, L. Franchetti e S. Sonnino) e divenne argomento di lunghe e vivaci discussioni fra sociologi, storici, economisti, uomini politici. I risultati dell'inchiesta agraria dell''81, la crisi economica dell''86, ripercossasi gravemente sul Mezzogiorno, gli avvenimenti culminati nella costituzione dei fasci dei lavoratori siciliani e nei tumulti per fame in località varie, l'urgenza di provvedere a particolari necessità del Mezzogiorno (malaria, emigrazione, ecc.) portarono la questione ai programmi dei partiti (dal socialista al conservatore), ai comizî elettorali, alla discussione in parlamento, all'agitazione legale nel paese. G. Fortunato, E. Ciccotti, L. Franchetti, N. Colaianni, A. De Viti De Marco, F. S. Nitti e altri molti, studiarono la questione nei vari aspetti, additandone i rimedî in un complesso di provvidenze generali e particolari. Fu buona promessa quando nel 1900 G. Zanardelli, presidente del Consiglio dei ministri, visitò una delle regioni più povere e arretrate del Mezzogiorno, la Lucania; e dal 1900, infatti, cominciarono a votarsi leggi speciali per il Mezzogiorno o regionali (Lucania, Sardegna, Calabria).
L'essenza del problema è consistita anzitutto in una differenza di condizioni tra parte settentrionale e parte meridionale della penisola, coesistenti, dal 1860 in poi, in un unico corpo di nazione. Differenza tanto sensibile, da far parlare addirittura di due Italie: l'Italia delle Alpi, dei laghi, dei fiumi, e l'Italia dei vulcani, degli stagni, delle fiumare; l'Italia verdeggiante di colture, ricca di strade, di ville, di casolari, di canali, di traffici, d'industrie, e l'Italia dalle campagne riarse, impervie e malariche, senza case e abitanti per molti chilometri; l'Italia dalle ordinate e spaziose città, e l'Italia dalle borgate ipertrofiche che delle città e dei borghi rurali hanno tutti gli svantaggi, nessuno dei vantaggi; l'Italia della borghesia operosa, della piccola borghesia e del proletariato industriali o manifatturieri, e l'Italia del contadiname, del modesto artigianato e della disorganica borghesia. E, quel che più conta, grande sproporzione fra nord e sud nel campo dell'attività umana, nell'intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione; diversità profonda di consuetudini e di tradizioni, di vita morale e intellettuale: un'Italia dall'analfabetismo basso, dal vivo interesse ai comuni e grandi problemi, dai partiti politici ben formati e dalle grandi correnti d'idee e un'Italia dove l'analfabetismo nel 1860 toccava il 98% per le femmine e poco meno per i maschi, dove il prevalere d'interessi municipali individuali ostacolava la formazione di forti aggregati e d'ogni altra forma di vita collettiva intellettuale e morale, dove le grandi manifestazioni intellettuali erano personali, prive di continuità, dove infine più grave era la criminalità. Di fronte a una parte della penisola più ricca, più colta, più civile stava l'altra, povera, analfabeta, "barbara", come fu, con scarsa simpatia, chiamata. E di qui un'Italia politicamente ritornata, dal 1860, alla tradizione unitaria creata da Roma e interrotta dal Medioevo in poi, ma tutt'altro che concorde tra una parte che, raggiunto uno stato di agiatezza, si sente impacciata dal tardo progredire dell'altra, e questa la quale sospetta che la floridezza della prima non sia dovuta tutta a virtù propria o a cause di naturale preminenza.
Quali le cause di tanta diversità? Ne furono indicate molte: la razza, quella mediterranea, condannata a una civiltà di ordine inferiore rispetto a quella della razza aria della restante penisola; la minore densità della popolazione; il clima eccessivamente mite e la terra naturalmente prodiga di suoi tesori che ammollirebbero le popolazioni condannandole all'inerzia e a "strana sensualità"; i Borboni e molte altre ancora. In ognuna di queste indicazioni v'è forse un po' di verità, circonfusa però di molto errore. È ovvio, p. es., che il fattore antropologico ed etico costituisca il substrato d'ogni organismo sociale e che perciò non possa essere trascurato nello studio d'un problema, ch'è, nella sua essenza, sociale ed economico. Ma altro è riguardare la razza come un presupposto remoto delle manifestazioni d'un popolo, altro è farla assurgere a causa e a suprema causa di tutta la quanto mai complessa questione del Mezzogiorno. L'infondatezza di quest'ultimo assunto apparirà, quando si rifletta, da un lato, che la razza si forma nella storia e nella storia si trasforma, che è effetto piuttosto che causa di essa, e che di razze pure, da quando si entra nella storia, non si può parlare, per le profonde secolari mescolanze con altri popoli e, dall'altro, che la storia del Mezzogiorno non conferma l'affermata inferiorità della razza mediterranea, ché i popoli di cui essa forma il substrato furono i primi ad attingere un alto grado di civiltà, e già splendevano quando Roma sorgeva, ché Italia meridionale e Sicilia furono i paesi più floridi tra il sec. X e il XIII e la repubblica di Amalfi solcava con le sue navi tutto il Mediterraneo quando il comune di Firenze era bambino. È certo vero che la minore densità della popolazione, cui il Loria e la sua scuola ascrissero il tardo sviluppo del Mezzogiorno, rende difficili quei frequenti e attivi contatti dei quali si alimentano il commercio, la grande industria, l'agricoltura intensiva; ma la minore densità del Piemonte e della Lombardia rispetto alla Sicilia e alla Campania impedì forse loro uno sviluppo tanto maggiore in ogni forma di vita economica sociale e intellettiva? Più che la densità contano la distribuzione, le azioni e reazioni che, per effetto di questa, intercedono tra gli elementi della popolazione, per cui, mentre una popolazione costituisce una massa organica con caratteri e rapporii sempre più definiti e moralmente svolti, un'altra si presenta come un'immensa massa disorganica e disgregata. Quanto alla fertilità, è ormai pacifico che la naturale fertilità del Mezzogiorno è da relegare nel regno delle illusioni; ché nel Mezzogiorno, accanto a poche zone, fecondate dal duro lavoro umano e meglio favorite dalla posizione, troppe altre vi sono, impoverite da coltura depauperatrice, impervie, dalle acque sregolate, e dalla malaria micidiale. Altra leggenda è l'indolenza delle popolazioni meridionali, complice il molle clima.
Più che altro, l'arretrata vita economica del Mezzogiorno ne spiegava l'inferiorità sociale e morale. La sua vita economica è quale la geografia e la storia l'hanno resa. Cioè, da un lato, la costituzione geologica, la configurazione orografica del paese e la naturale povertà di troppe plaghe hanno opposto spesso grandi difficoltà alle comunicazioni e all'incremento della produzione, e hanno reso micidiale la malaria; dall'altro, lo spostarsi delle grandi vie commerciali, della ricchezza e della civiltà dalle regioni meridionali verso l'Europa centrale, il secolare prevalere del grave feudalismo e del dispotismo nel Mezzogiorno, quando altrove questi erano già crollati, l'isolamento che fece del Mezzogiorno un regno appartato e quasi fuori mano, l'anarchia perenne che dominò nel reame dalla guerra del Vespro in poi, il comune irrigiditosi, dopo promettenti accenni, in organismo puramente amministrativo, in balia di feudatarî, del regio potere, di consorterie, l'analfabetismo, resero impossibile la formazione d'una economia rigogliosa e vitale col conseguente venir su d'una classe borghese dai larghi orizzonti, e di classi popolari congiunte dalla coscienza di comuni interessi e da comuni intenti. E la debolissima costituzione economica influì a sua volta nel rendere più gravi le cause suddette, e ostacolò seriamente la soluzione dei molti problemi del Mezzogiorno: agricoltura estensiva e latifondismo, malaria e disordine idraulico, disboscamento, difetto di strade oltre il limite tollerabile in paese civile, prevalenza per secoli della pastorizia sull'agricoltura, debito ipotecario, usura, ecc.
Non che l'Italia meridionale sia rimasta per secoli, come fu detto, "pietrificata" o come una "macchina spenta sopra un binario morto". Già dal 1700 si ebbero accenni a formazione d'un ceto borghese, non più esclusivamente di esercenti professioni liberali; ma solo dopo gli eventi rivoluzionarî degli ultimi del '700, e per effetto dell'abolizione della feudalità sui primi del sec. XIX, di un certo vantaggio derivato dagli accadimenti guerreschi del primo quindicennio di quel secolo, della tenue pressione tributaria, del proposito di bastare a sé stessi e di ricostruire la finanza e l'economia - principî cui si attenne costantemente l'amministrazione borbonica dal 1830 in poi -, si venne formando una vera classe borghese, la quale dove allargò la coltura della terra, dove la migliorò, dove fece sorgere delle fabbriche, alcune delle quali divennero finanche esportatrici. È vero che il latifondo a coltura estensiva del Mezzogiorno non poteva paragonarsi affatto al latifondo irriguo della bassa Lombardia o dei ducati caratterizzato dal largo allevamento a stalla, servito da canali e da strade, con centri di consumo vicini e facilmente raggiungibili; è vero che le industrie del Mezzogiorno cresciute all'ombra del protezionismo non potevano reggere al confronto con quelle lombardo-venete venute su a dispetto dell'Austria e della concorrente industria tedesca d'oltralpe, e i 34 milioni di lire che il Mezzogiorno con 7 milioni di abitanti destinava, avanti il '60, all'amministrazione civile e ai servizî pubblici erano pochi rispetto ai 42 milioni che spendeva il Piemonte popolato da soli 5 milioni di abitanti: ma il cammino percorso era sicuro indizio dell'energia delle popolazioni e promessa di migliore avvenire. Quelle conquiste recenti avrebbero potuto rassodarsi e allargarsi, se nel sistema politico inaugurato col '60 avessero trovato condizioni favorevoli e nei governanti consapevolezza della vastità e complessità del problema e arte e sapienza di governo. Invece, contro l'opinione del Cavour il quale avvertiva che armonizzare nord e sud d'Italia presentava ardue difficoltà, nella fretta di dare unità a regioni che una minoranza aveva unito al Piemonte, s'intese risolvere il problema estendendo la più rigida e cristallizzata uniformità fiscale, legislativa, amministrativa a tutta quanta la penisola, cioè a parti che presentavano profonde differenze nella storia, nelle leggi, nelle condizioni economiche, nella civiltà, nella geografia, nel clima. È vero che nel regime unitario le condizioni sociali e civili del Mezzogiorno, a lungo andare migliorarono; ché, da un lato, entrò presto nell'opinione dei più essere l'unione politica imprescindibile necessità, non essendo consentita a piccole strutture politiche un'esistenza autonoma vigorosa e dignitosa; e, dall'altro, con l'unità, più spontanei furono i contatti con la civiltà settentrionale, più vivo il ricambio, più forte l'impulso degli elementi d'integrazione e di organizzazione sociale; e nella comune Italia i meridionali recarono la genialità, la libertà, l'impulsività del loro carattere e del loro ingegno, e la loro qualità di teorici e dottrinarî dello stato, i settentrionali la loro quadrata forza meditativa, la tenacia, la compatta e disciplinata organizzazione amministrativa. Ma gravissimi gli oneri finanziarî imposti al Mezzogiorno dal '60 in poi; il carico tributario era infatti assai più grave, proporzionatamente alla ricchezza, che non sull'Italia centrale e settentrionale, e il regime doganale assai più proibitivo che protettivo, essendo volto a tutelare l'industria, prevalentemente settentrionale, in gran parte sacrificando l'agricoltura, quasi unica attività del Mezzogiorno. Tanto più gravi furono rovinate dalla concorrenza delle settentrionali, in seguito all'abolizione delle barriere doganali interne; e la sua agricoltura, che aveva sempre difettato di capitale d'esercizio, vide sparire le ultime riserve per effetto dell'acquisto dei beni delle soppresse corporazioni religiose. Mentre, poi, necessità politiche e militari, oltre all'intento d'impiegare i mezzi disponibili in opere che avrebbero più largamente e prontamente reso, indussero a riservare al nord una larghissima parte delle somme stanziate dallo stato per opere pubbliche, il Mezzogiorno continuò a rimanere a lungo e per estese contrade senza strade, senza ferrovie, senza scuole, senza acquedotti, senza cimiteri. Mali questi resi più gravi dalle ricorrenti crisi agrarie dovute al carattere aleatorio proprio dell'agricoltura meridionale, alla depressione di prezzi dei prodotti agrarî, alla guerra di tariffe con la Francia, alla concorrenza dei prodotti similari spagnoli e tunisini sui mercati esteri, alla perdita d'alcuni mercati americani. Di qui, difficoltà e angustie in tutti i ceti: nei modesti proprietarî di terreni, d'anno in anno irretiti nel debito e costretti a subire vendite giudiziarie per insolvenza d'imposte, nella classe artigiana dissanguata dall'usura, nel contadiname portato all'estremo limite di squallore e di degradazione fisica e morale. Di qui l'emigrazione a grosse ondate, anche da zone dell'interno.
Espressione dell'arresto di sviluppo della pubblica ricchezza e dello stato economico e morale del Mezzogiorno era Napoli, la cui popolazione quasi doppia nel 1862 di quella di Milano, la superava intorno al 1900 di appena 89.000 ab.; superiore nel '62 circa 4 volte a quella di Genova, scendeva nel 1900 a poco più del doppio; doppia nel '62 di quella di Torino, la superava nel 1900 di appena un terzo.
La crisi, ch'era generale a tutta la penisola, fu per fortuna superata in tempo relativamente breve. E con la ripresa generale dell'economia italiana, col pareggio del bilancio, con qualche ritocco all'ordinamento doganale, si aprì per l'Italia una serie di anni di più larga produzione, di commerci più attivi, di maggiore fiducia nelle forze operose del suo popolo e nel suo avvenire. Nel Mezzogiorno l'inizio della nuova vita fu segnato dagli emigranti. Con le larghe loro rimesse, si formarono nuovi capitali e nuovi capitalisti, si liquidarono molte posizioni debitorie con allottamenti e vendite ad "americani" di grosse, medie e piccole proprietà da anni indebitate, con vantaggio insperato dei proprietari antichi, più larghi capitali d'esercizio si dedicarono alle terre passate ai nuovi proprietarî forniti di migliori energie e di vigoroso spirito di intrapresa. Ricominciò la rinascita per virtù propria, e coi nuovi e sempre più abbondanti capitali dell'emigrazione si iniziò l'industrializzazione del Mezzogiorno. Vi cooperarono l'allargarsi dell'orizzonte commerciale italiano, la maggiore facilità dei trasporti, il diminuito analfabetismo, un più accurato studio e una più acuta sensibilità dei bisogni dei centri nazionali e internazionali di consumo. Si elevò il reddito unitario di non poche terre; la pastorizia si ritirò davanti all'aratro; dove il suolo e la capacità d'assorbimento dei mercati consentivano, all'agricoltura estensiva si venne sostituendo quella intensiva; si cominciarono a introdurre macchine e concimi. Così la Puglia, soprattutto Terra di Bari, completò la sua trasformazione agraria, la fascia settentrionale e orientale della Sicilia estese la zona degli agrumi; la Campania, la coltura irrigua; l'Avellinese migliorò la sua attrezzatura agraria; tutto il Mezzogiorno s'elevò nell'economia agraria. Si allargarono antiche fabbriche, non di prodotti alimentari soltanto; altre nuove sorsero; fu tentata l'introduzione della grande industria del cotone e della lana con capitali in gran parte di settentrionali. La ripresa fu generale anche nella vita morale e sociale: s'elevò il livello della media cultura, migliorarono le abitudini; i contatti frequenti con genti d'altre parti d'Italia e dell'estero favoriti dalle ferrovie e quel facile varcare l'Oceano fecero smettere alle popolazioni del Mezzogiorno la scorza ruvida d'un tempo e aprirono le menti a più ampî orizzonti.
Alla risurrezione del Mezzogiorno, lo stato non rimase estraneo. Richiamata la sua attenzione da crisi agrarie, dall'esodo di tanta parte della popolazione, dallo spopolamento addirittura di alcune regioni, dall'allarme di parlamentari d'ogni partito, esso, dopo quarant'anni di quasi completo oblio, ha inteso assolvere nella questione meridionale il maggiore dei suoi doveri di politica interna. Furono così promulgate le leggi speciali per la Basilicata - la più duramente colpita dal '60 in poi, l'unica in Italia che presentasse una sconfortante diminuzione nella sua popolazione assoluta -, per la Sardegna, per la Calabria, per il Mezzogiorno intero; venne estesa la legge per il risanamento di cui quella per Napoli era stato il primo classico esempio; si ebbero leggi sulla malaria e sul chinino di stato, sull'insegnamento elementare e per gli asili d'infanzia, per industrializzare Napoli e buona parte del Mezzogiorno, mercé larga disponibilità di energia elettrica a buon mercato ottenuta dalle piogge invernali raccolte in bacini montani; riforma e successivi ritocchi della legge dell'82 sulle bonifiche in modo da farvi rientrare anche quelle, fin allora ignorate o trascurate, da compiere nel Mezzogiorno; leggi dirette a spezzare il latifondo meridionale e a promuovere la piccola proprietà. Con il governo fascista l'intervento del potere statale in pro del risollevamento del Mezzogiorno ha assunto continuità, rapidità e ampiezza di proporzioni nuove. È stato compiuto l'acquedotto che fornisce la linfa vitale alla Puglia. Lucania, Sardegna, Calabria hanno o vanno costruendo alcuni bacini montani dai quali, se non ancora l'agricoltura, s'è avvantaggiata certa attività industriale. Si sono avviate, per effetto della legge sulla bonifica integrale, le bonifiche, che si accresceranno ancora per ovviare all'effettivo bisogno d'un paese che deve rimediare al disordine idraulico di molti secoli. Qui e là si va spezzando il latifondo, non più col sistema di decreti improvvidi dell'immediato dopoguerra, ma per l'azione concorde degli aiuti finanziarî e delle disposizioni dovute alla legge sulla bonifica integrale, per il passaggio di terre in mani nuove avvenuto durante la guerra mondiale e per gli alti prezzi delle derrate agrarie, del grano in particolar modo. In Puglia, nel Salernitano, in Calabria, in Sicilia s'è allargata la coltura delle primizie, delle uve da tavola, delle frutta per conserve alimentari. Napoli, che dal regime fascista ha avuto potenti aiuti, ha visto migliorare le sue opere portuali ed è diventata un grande porto moderno; Bari è per avere un porto degno del suo sviluppo demografico e dell'importanza del suo traffico soprattutto con l'Oriente europeo a promuovere il quale è sorta la Fiera del Levante; Cagliari diverrà base navale in armonia con la nuova importanza strategica e politica assunta dalla Sardegna.
Molte strade, molti acquedotti sono stati costruiti; l'automobile ha messo in contatto paesi che fino a pochi anni addietro erano rimasti del tutto segregati. L'analfabetismo ha ricevuto un rude colpo. Anche l'ambiente sociale si viene in parte mutando. Molti dei proprietarî meridionali sono oggi alla testa di aziende, spesso iniziatori e propulsori di nuove intraprese, il medio ceto con i viaggi, con l'istruzione, s'è aperto più largo orizzonte, ha sviluppato e affinato le sue qualità fattive e non attende più tutto dallo stato; le classi popolari, non più interamente alla mercé del proprietario, nella loro conquistata dignità umana, hanno una fierezza propria, per merito anche dei partiti di massa e di organizzazioni sorte a tutela dei loro interessi. Si sono attenuati il disordine e l'incoerenza dei varî ceti; per effetto della guerra libica, della guerra mondiale e degli avvenimenti posteriori si sono attenuati o eliminati molti malintesi che dividevano il sud dal nord d'Italia.
Certo, non tutti scomparsi sono i segni lasciati al Mezzogiorno, e specialmente a talune sue plaghe più appartate e meno favorite da natura, da tanti secoli di storia, di leggi, d' istituzioni, così diverse da quelle del resto d'Italia. Non tutto il Mezzogiorno si è egualmente avvantaggiato delle provvidenze governative, anche degli ultimi anni. Ancora parecchi paesi attendono la strada, l'acquedotto, la scuola, l'asilo, cioè la soddisfazione di bisogni essenziali alla vita civile. Si attende ancora il pieno risultato della legge speciale sul Mezzogiorno che si proponeva di popolare zone disabitate: il programma di ruralizzare l'Italia ha bisogno ancora di tempo per essere attuato in ogni plaga del Mezzogiorno.
Tuttavia, di una "questione meridionale" non si può più, oggi, legittimamente parlare: e perché tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i provvedimenti del governo fascista che mirano, intenzionalmente, a elevare il tono dell'Italia agricola specialmente meridionale. Ma più ancora, perché ogni traccia di contrasto, di antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono scomparsi dagli animi per la fusione operata dalla guerra mondiale e dal fascismo.
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