Abstract
Vengono esaminati gli elementi costitutivi e la disciplina giuridica della promessa al pubblico, disciplinata dagli articoli 1989, 1990 e 1991 del codice civile italiano del 1942.
La promessa al pubblico è il negozio mediante il quale un soggetto (promittente) s’impegna pubblicamente a eseguire una prestazione in favore di chi (promissario) si trovi in una certa situazione o compia una determinata azione.
L’interesse per tale istituto deriva dalla grande portata innovativa del codice del 1942 e dal fatto che, ancor oggi, a decenni di distanza dall’entrata in vigore del codice, la promessa al pubblico resta al centro di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
Essa viene elaborata, come autonoma figura giuridica, all’inizio del XIX secolo, con riferimento alle promesse per il compimento di un’azione o per la produzione di un risultato. Tanto nello schema dettato dal Bürgerliches Gesetzbuch, quanto secondo l’impostazione tipica dei sistemi di common law, dall’ambito di applicazione dell’istituto è esclusa la promessa che non richiede un comportamento attivo da parte del promissario.
Nell’ordinamento italiano, la disciplina della promessa al pubblico costituisce il portato di una scelta compiuta dal legislatore proprio su ispirazione del modello tedesco: la dottrina italiana, conformemente a quanto disposto dai §§ 657 ss. del BGB, è stata sempre concorde nel limitare il campo di applicazione dell’istituto ai soli casi di promessa per una determinata prestazione. Ma, reagendo a questa costante tradizione, il codice civile del 1942 ha mutato l’ambito di applicazione dell’istituto, introducendo la categoria di promesse «a favore di chi si trovi in una determinata situazione» accanto alla già nota categoria di promesse a favore di chi «compia una determinata azione» (art. 1989, co. 1, c.c.).
Il grande discrimine tra queste due categorie è che nel primo caso la pretesa del promissario sorge «senza obbligo di fare alcuna prestazione o di svolgere qualche attività», mentre nel secondo caso «il destinatario della promessa deve rendersi attivo per guadagnare la prestazione» (Relazione del Ministro Guardasigilli Grandi al codice civile del 1942). Per cui, risulta valida, ad esempio, tanto la promessa di una somma alla famiglia più danneggiata da una calamità naturale, cioè la promessa che non richiede alcun tipo di sacrificio al destinatario, quanto la promessa fatta nei confronti di chi riporterà il cane smarrito dal promittente, cioè la promessa che implica uno scambio di prestazioni.
Art. 1989. Promessa al pubblico: «Colui che, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, è vincolato dalla promessa non appena questa è resa pubblica.
Se alla promessa non è apposto un termine, o questo non risulta dalla natura o dallo scopo della medesima, il vincolo del promittente cessa, qualora entro l'anno dalla promessa non gli sia stato comunicato l'avveramento della situazione o il compimento dell'azione prevista nella promessa».
Orbene, i tratti costitutivi dell’istituto della promessa al pubblico sono evidenziabili mediante l’analisi degli elementi costitutivi della fattispecie, che caratterizzano il contenuto essenziale della dichiarazione impegnativa. Tali elementi sono la prestazione promessa e la situazione o l’azione in funzione della quale la promessa è fatta.
Quanto alla prima, l’utilizzo del termine «prestazione» è indicativo dell’intento del nostro legislatore di considerare qualsiasi comportamento avente carattere patrimoniale e suscettibile, in quanto tale, di valutazione economica. Per cui l’oggetto della promessa al pubblico può consistere in un “dare”, “fare” (ivi compreso quel facere che si esplica nella stipula di un contratto) e, almeno in linea teorica, in un ‘non fare’ (Cass., sez. III, 17.9.1983, n. 5625).
In accordo alla regola generale prevista dall’art. 1346 c.c., inoltre, tale oggetto deve essere, a pena di nullità, possibile, lecito, determinato o determinabile.
La prestazione promessa è ab origine determinata quando è sufficientemente specificata in tutti i suoi elementi oggettivi (ad esempio: limiti quantitativi), ma l’offerta risulta comunque valida anche nel caso in cui l’entità della prestazione non è determinata nella promessa stessa. In tal caso spetta al promittente stabilire la ricompensa con i criteri dell’arbitrium boni viri, ai quali si pensa che egli abbia voluto riportarsi.
La prestazione promessa è, invece, determinabile quando la legge o il titolo (cioè, la stessa dichiarazione impegnativa) sanciscono i criteri sulla base dei quali procedere alla sua successiva determinazione. La lacuna del regolamento negoziale può essere così colmata da puntuali previsioni normative scaturenti da leggi dispositive o dagli usi, o alla stessa può supplire il giudice applicando il principio dell’equità integrativa.
La dottrina si è pronunciata altresì circa il particolare caso di una «prestazione complessa», che si ha ad esempio allorquando colui che promette offre un premio a chi risolverà un problema tecnico e si impegna contestualmente ad acquistarne il relativo brevetto. In tal caso il promittente non si limita a promettere una ricompensa a chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, ma gli offre anche di «acquistare i diritti che possono derivare dall‘azione richiesta al destinatario» (Di Majo, A., Promessa unilaterale (dir. priv.), in Enc. dir., 1988, 64 ss.)
Bisogna, in tale ipotesi, distinguere due atti diversi: una promessa al pubblico e un’offerta di contratto, vera e propria proposta contrattuale fatta a persona incerta. Nel caso in cui si riscontrino i profili di entrambi gli atti, si potrà applicare a ciascuno di essi la relativa disciplina.
Infine, sempre con riferimento alla prestazione promessa è stata affrontata da autorevoli giuristi la questione riguardante la possibilità di dedurre ad oggetto di una promessa al pubblico l’impegno a concludere un futuro contratto e vi è stata unanimità nel ritenere che ciò sia incompatibile con la fisionomia stessa dell’istituto. Infatti, nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1989 c.c., la prestazione promessa spetta all’oblato senza bisogno di una sua accettazione. Concorde con tale orientamento è stata anche la Suprema Corte che si è pronunciata circa la qualificazione giuridica dei bandi di concorso per l’assunzione in rapporti di impiego, considerati quali offerte al pubblico preordinate alla conclusione di un successivo contratto e non quali promesse al pubblico (Cass., sez. lav., 06.6.2007, n. 13273).
Ma parte della dottrina più recente ha ritenuto tale limite eccessivamente rigido e ne ha proposto un ridimensionamento, prevedendo che possano essere ricondotte alla categoria della promessa al pubblico anche ipotesi in cui il promittente offre una vera e propria prestazione, la quale in teoria dovrebbe incontrarsi con il consenso del destinatario (es. offerta di appalto). Ciò sarebbe possibile scomponendo l’operazione economica in due diverse sequenze, così come esaustivamente illustrato da Adolfo Di Majo: «La scomposizione è un risultato obbligato, ove, ad esempio, il promittente si offra di stipulare un contratto con chi risulterà vincitore di una gara, offrendo condizioni migliori. Vi è un aspetto di obbligatorietà unilaterale, derivante inequivocabilmente dalla promessa del soggetto. La promessa è di offrire il contratto al vincitore. Sulla base di tale promessa colui che risulterà vincitore matura una legittima pretesa a vedersi assegnato il contratto promesso. Ma egli dovrà necessariamente manifestare il consenso alla conclusione del contratto, attraverso l‘esercizio di un diritto acquisito. Anche in tal caso torna allora utile distinguere l‘aspetto della promessa in cui si esprime l‘esigenza che il soggetto beneficiario risulti “il migliore” e/o quello tecnicamente più affidabile (attività questa non negoziabile) e l’aspetto ulteriore in cui un rapporto contrattuale si instaura tra il soggetto promittente e il vincitore. Resta fermo che la vittoria della gara non è considerata come prestazione negoziabile» (Di Majo A., Promessa unilaterale, cit., 64 ss.).
Posto quanto detto sulla prestazione oggetto di promessa, il discorso intrapreso circa gli elementi costitutivi dell’istituto disciplinato dall’art. 1989 c.c. va ora completato in relazione alle circostanze in vista delle quali la promessa è fatta.
Caratteristica fondamentale dell’istituto in esame è il particolare procedimento di formazione, in cui il sorgere del rapporto giuridico è successivo rispetto alla costituzione del vincolo a carico del promittente. Autorevole dottrina ha parlato, a tal proposito, di ‘formazione successiva’ della promessa al pubblico: stando al contenuto dell’art.1989, co. 1, c.c., la promessa vincola il suo autore non appena è resa pubblica, ma l’impegno che sorge a carico del promittente, al momento della pubblicazione della dichiarazione promissoria, non coincide con l’obbligo di adempiere la prestazione promessa, dato che quest’ultimo viene ad esistenza pur sempre in virtù della dichiarazione, ma solo una volta che la situazione prevista si sia verificata o l’azione richiesta sia stata compiuta.
«Il concetto di formazione successiva si pone come strumento tecnico di tutela delle peculiari esigenze del traffico, per le quali ab initio si assicura la possibilità di svolgimento di quelli che benissimo vengono detti “germi di diritti“ e che in tal modo non passano dal nulla all‘esistenza, nell‘istante in cui la fattispecie è compiuta, ma cominciano ad esistere, come germi appunto, tosto che un elemento costitutivo della fattispecie si determini, e così iniziano il loro ciclo storico, che si svolge e si compie parallelamente a quello formativo della fattispecie. Del rapporto e del diritto si ha in questo modo una storia prenatale, come del frutto e della creatura vivente, storia che non può essere puntualizzata in un solo istante» (Messina, G., La promessa di ricompensa al pubblico, Milano, 1948).
È necessario, dunque, distinguere due diverse ipotesi: da un lato la promessa a favore di chi «si trovi in una determinata situazione» (ad esempio: promessa di premio al cliente che nel mese precedente ha compiuto il maggior numero di acquisti di pacchetti presso un’agenzia di viaggio), dall’altro, la promessa a favore di chi «compia una determinata azione». Tale distinzione è ben tracciata nella relazione al Re del Ministro Guardasigilli, là dove si precisa che quando la promessa è collegata a una situazione nella quale il beneficiario si trova, la pretesa del promissario sorge senza che questi debba «svolgere qualche attività»; mentre, quando la promessa è collegata al compimento di una determinata azione, il beneficiario della stessa «deve ritenersi attivo per guadagnare la prestazione».
Ma che qualificazione giuridica riveste il concetto di ‘azione’? L’orientamento prevalente, nel rispondere a tale domanda, si è conformato con quello che è il senso profondo dell’istituto previsto dall’articolo 1989 c.c., in cui è l’interesse del promittente ad assumere rilievo preminente. In tale prospettiva, l’azione così come la situazione che deve essere addotta dal quisque de populo per conseguire quanto promesso, rileva solo come evento o fatto idoneo a soddisfare uno specifico interesse, non necessariamente di tipo patrimoniale, ma anche mecenatistico o solidaristico, purché apprezzabile. Non viene, invece, in considerazione la volontà negoziale del destinatario della promessa, proprio perché l’azione o la situazione richieste dal promittente non sono fatti negoziabili, e dunque non sono in sé idonei a costituire prestazioni (Di Giovanni, F., Le promesse unilaterali, in Alpa, G. – Patti, S., diretto da, Trattato teorico-pratico di diritto privato, Padova, 2010, 119 ss.).
Occorre rilevare però che, come già per la prestazione oggetto della promessa, anche rispetto alla qualificazione dell’azione e della situazione, non sono mancate divergenze di vedute. Ciò su cui la dottrina concorda è che risulta certamente affetta da nullità una promessa che si riferisce a una situazione o a un’azione inesistenti o impossibili. Vi è unanimità anche nel ritenere che rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 1989 c.c. il caso in cui la situazione prevista dalla dichiarazione promissoria si sia già verificata prima della sua pubblicazione, purché il promittente non ne fosse a conoscenza; ma tale unanimità viene meno nel caso in cui la promessa sia in favore di chi «compia una determinata azione» e l’azione sia stata già compiuta.
Con riferimento a tale ipotesi, si sono consolidate due posizioni differenti.
Da una parte c’è chi ritiene che la circostanza debba considerarsi inammissibile, in quanto priva di fondamento sotto il profilo causale. Fatta salva, infatti, l’ipotesi in cui risulti che il promittente non intendesse incentivare il compimento dell’azione bensì ricompensare lo stesso se già posto in essere, la promessa, presentandosi priva di una ragione giustificativa, non può che dichiararsi nulla ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c.. Ciò in quanto, rispetto alle promesse onerose, l‘obbligo del promittente trova la sua giustificazione nella prestazione richiesta. Nel momento in cui si ha riguardo ad un’azione già compiuta, viene meno la causa dell’attribuzione e, conseguentemente, anche l’oggetto dello scambio per impossibilità (o inesistenza) della prestazione.
Alla stessa conclusione può pervenirsi con riguardo alle promesse gratuite.
Questa posizione non incontra però il consenso della dottrina prevalente, che ritiene ammissibile la promessa anche nel caso di un’azione già compiuta configurandola quale promessa in favore di chi si trovi in una determinata situazione: la situazione di essere autore dell’attività richiesta (Gorla, G., Il contratto, Milano, 1955, 148 ss.). Tale ammissibilità è riconosciuta senza dubbio allorché la dichiarazione promissoria contempli espressamente il caso dell’azione già compiuta senza indicarne l’autore, poiché se questi fosse individuato, non ci troveremmo dinanzi a una promessa al pubblico, venendo a mancare il carattere di indeterminatezza che le è proprio. Ma può anche darsi che la promessa non contempli l’azione come già compiuta. In tal caso occorre verificare, alla luce dell’interpretazione dell’atto, se il promittente ha emanato la promessa comprendendovi, anche implicitamente, l’ipotesi di azione consumata (ad esempio: promessa in favore di chi risolva, o abbia risolto, un determinato problema scientifico).
Ancora, può accadere che la promessa miri a sollecitare un’azione che in realtà, all’insaputa del promittente, è già stata posta in essere. Con riferimento a tale circostanza, si sono delineate nel tempo differenti opinioni: c’è chi vi ravvisa un’ipotesi di inesistenza della causa dell’atto, chi vi scorge un’ipotesi di errore (per cui la dichiarazione risulta annullabile per errore essenziale del promittente) e chi invece giudica irrilevante il problema (adducendo che l‘ipotesi prospettata rientri tra quelle astrattamente previste dall‘art. 1989).
Come rilevato da A. D’Angelo, in definitiva, le diverse soluzioni possono dipendere dal contenuto concreto della promessa e dalla sua interpretazione (Cass, 09.06.1969, n. 2052).
L’art. 1989 c.c., considerando distintamente l’ipotesi della promessa di una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione e quella della promessa a favore di chi compia una determinata azione, si limita a porre degli schemi strutturali, che possono servire al raggiungimento delle più diverse finalità, con la conseguenza che è rimesso all’autonomia del privato fissare in concreto il regolamento di interessi che attraverso quello schema egli vuole attuare. La promessa al pubblico non è un infatti un negozio tipico, bensì uno schema strutturale, la cui disciplina generale riguarda solo il procedimento di formazione della fattispecie e all’interno del quale l’attribuzione patrimoniale si pone in funzione della realizzazione di un interesse la cui determinazione è rimessa essenzialmente alla volontà del promittente. Ciò comporta che, anche nella promessa al pubblico, come nei contratti, vi è la possibilità di una molteplicità di regolamenti di interessi, rispetto ai quali può determinarsi una tipologia e rispetto ai quali funzionano i limiti negativi posti all’autonomia privata e, precisamente, i limiti dell’ordine pubblico e del buon costume (Ferri, G., Autonomia privata e promesse unilaterali, in Studi in onore di Emilio Betti, Milano, 1962, vol. V, 127 ss.).
«Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale»: l’articolo 1324 c.c. esprime un’identità di ratio tra disciplina dei contratti e disciplina degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.
Trattasi di una disposizione che identifica la patrimonialità quale carattere del contenuto degli atti unilaterali tra vivi e, più specificamente, della prestazione oggetto dell’obbligazione: «restituendo il predicato al suo proprio luogo, si può dire che soltanto la prestazione ha carattere patrimoniale e che, in forza di metonimie, l’attributo della patrimonialità è esteso al rapporto giuridico ed al contenuto dell’atto unilaterale» (Irti, N., Per una lettura dell’art. 1324 c.c., in Riv. dir. civ., Padova, 1994).
La realtà è che la promessa al pubblico realizza non meno dei contratti un fenomeno di cooperazione economica, la quale può assumere in concreto diverse espressioni. Diverse sono solo le modalità di realizzazione di tale fenomeno e ciò a causa dell’indeterminatezza dell’altro soggetto del rapporto e talora, addirittura, dell’incertezza della sua esistenza. Da ciò scaturisce un’insicurezza della realizzazione dell’interesse del promittente, che non sussiste nei contratti.
Per quanto riguarda il contenuto e la disciplina sostanziale dei rapporti instaurati con la promessa al pubblico, infatti, valgono, in linea di massima, le stesse regole stabilite per i corrispondenti contratti instaurati con i normali schemi contrattuali, dovendosi distinguere, a tal fine, tra promesse onerose e gratuite. Quanto alle prime, il riconoscimento è subordinato agli stessi requisiti richiesti in generale per tutti i negozi patrimoniali (art. 1322 e ss. c.c.). La disciplina dei singoli rapporti, a sua volta, dipende dalla loro qualificazione: è necessario individuare, in base alla natura della prestazione e all’assetto degli interessi che si costituisce, il relativo schema tipico (ad esempio: compravendita, locazione) che servirà da parametro, sia per integrare la regolamentazione predisposta dal promittente, sia per sostituirla, in caso di contrasto con disposizioni inderogabili.
Quanto alle promesse gratuite non sorge alcun problema se il contenuto corrisponde a quello dei negozi tipici a titolo gratuito diversi dalla donazione (esempio: la promessa di mettere un immobile, per un certo periodo, a disposizione delle vittime di un terremoto) o aventi per oggetto un obbligazione di fare (esempio: la promessa di effettuare gratuitamente un recital). Quando invece la promessa implica la disposizione di un diritto o l’assunzione di una obbligazione di dare, configurandosi come atto di liberalità in senso stretto, l’esenzione della disciplina generale della donazione è limitata alle ipotesi di promesse gratuite per una causa socialmente utile, come tipicamente si verifica allorché l’iniziativa è determinata da spirito di solidarietà o è destinata a favorire attività di interesse generale. Infatti, il riconoscimento delle liberalità compiute tramite le promesse al pubblico è stato richiesto ed attuato in quanto siano dirette a realizzare scopi di pubblica utilità.
In conclusione, dunque, la figura disciplinata negli artt. 1989 e ss. c.c. è uno schema strutturale alternativo a quello previsto negli artt. 1326 e ss. c.c., fondato sullo scambio di promesse. Le diversità riguardano solo il modo attraverso cui gli interessi si realizzano nelle due ipotesi: la funzione economico sociale che nei contratti si realizza attraverso lo scambio delle prestazioni, è indubbiamente individuabile anche nelle promesse unilaterali. La stessa possibilità, prevista dall’art. 1990 c.c., di una revoca della promessa per giusta causa, ne è la dimostrazione evidente (Cass., sez. lav., 14.03.1991, n. 2674).
Come si evince dallo stesso nomen iuris, tratto caratteristico e individualizzante della promessa al pubblico è che la stessa è «rivolta al pubblico», divenendo vincolante non appena resa conoscibile ai destinatari cui è rivolta, con l’impiego dei mezzi idonei allo scopo, quali, ad esempio, comunicati stampa o manifesti.
Ampio dibattito in dottrina è sorto intorno al concetto di «pubblico» ma vi è unanimità nel ritenere che all’obbligatorietà della promessa al pubblico non può nuocere l’indeterminatezza della persona nel momento in cui essa si manifesta. Infatti, per quanto tali promesse siano apparentemente rivolte in incertam personam, il destinatario sarà determinato allorché dimostrerà di trovarsi nelle condizioni previste o compirà l’azione designata (Cass., sez. lav., 07.10.1963, n. 2663).
Ma per configurarsi la fattispecie in esame è necessario che la promessa sia diretta alla massa indifferenziata delle persone o può la stessa essere circoscritta, secondi i criteri più vari, solo a una cerchia limitata di persone? La questione è ancora oggi dibattuta: ampio contrasto in dottrina è sorto circa la riconducibilità nell’alveo della promessa al pubblico oppure in quello dell’offerta a persona determinata, delle dichiarazioni rivolte ad una cerchia limitata di destinatari, quali ad esempio gli studenti di una università, gli iscritti a un club, gli abbonati a un quotidiano.
Non mancano coloro che sostengono che in ipotesi del genere verrebbe meno il requisito della destinazione al pubblico, partendo dalla considerazione che il promittente possa, in tal caso, conoscere sin dall’inizio i potenziali destinatari dell’attribuzione promessa ed avere esclusivamente l’intenzione di premiare chi per primo gli comunichi l’avvenuto compimento dell’azione o l’avveramento della situazione (Branca, G., Delle obbligazioni, sub artt. 1960 - 1991, cit., 464 ss.; Ferri, G., Le promesse unilaterali, i titoli di credito, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, Milano, 1972, 29 ss.). Tra questi autori c’è anche chi, pur riconoscendo che in alcuni casi la dichiarazione promissoria possa avere destinatari determinati per numero ed identità, ciò nonostante la considera una promessa al pubblico, considerando che «l’unico limite posto dall’articolo 1989 c.c. alla capacità di espansione dell’istituto è costituito dalla necessaria correlazione della promessa con una certa situazione o col compimento di un’azione» (Sbisà, G., Promessa al pubblico, da Dig. civ., 1997; in senso conforme: Cass., 17.09.1983, n. 5625).
Ancora, nell’analizzare il carattere «pubblico» della promessa non si può prescindere dalla considerazione della sua divulgazione. In base al disposto dell’art. 1989, co. 1, la promessa al pubblico ha effetto vincolante per il promittente non appena è resa pubblica (Cass., sez. lav., 20.02.1963, n. 421): è dal momento in cui è stata attuata la pubblicità della dichiarazione promissoria che iniziano, dunque, a decorrerne gli effetti. Grande rilevanza viene attribuita al momento della pubblicazione della promessa, definita da parte della dottrina come «la forma essenziale di tale negozio» (Falqui Massida, C. – Jacchia, M., Promesse unilaterali, Gestione d’affari, Ripetizione dell’indebito, “Soluti retentio”, Arricchimento senza causa, Torino, 1968).
Ma qual è il rapporto intercorrente tra forma e pubblicità della promessa al pubblico? La dottrina prevalente, per rispondere a tale domanda, ha prima di tutto distinto i requisiti formali dell’atto prescritti ai fini di prova o di validità, dalle modalità di comunicazione dell’atto stesso, che permettono la conoscenza ai terzi.
Partendo da tale distinzione, ha così qualificato la promessa al pubblico come negozio giuridico a forma libera, dal momento che né l’art. 1989 c.c. né le successive disposizioni raccolte nello stesso titolo prescrivono nulla a tal proposito.
Per cui, è stata confutata la tesi di quanti hanno rintracciato, invece, nella necessaria pubblicità della promessa al pubblico l’evidenza del suo formalismo.
Si tratta, infatti, di una tesi derivata da una confusione tra i concetti di forma e di pubblicità, la cui distinzione va, invece, tenuta ferma: «in senso teorico forma è quella vincolata o solenne, caratterizzata dall’uso della scrittura o della dichiarazione davanti ad un pubblico ufficiale e deve essere espressamente prescritta dalla legge. L’art. 1989 c.c., invece, si limita ad indicare che la promessa deve essere rivolta al pubblico e non stabilisce particolari modalità di manifestazione della volontà» (Sbisà, G., La promessa al pubblico, cit., 259 ss.) .
Considerata, dunque, la promessa al pubblico quale negozio giuridico a forma libera, risulta corretto ritenere che la promessa può essere formulata con ogni mezzo idoneo allo scopo, purché la dichiarazione promissoria sia conoscibile ai potenziali destinatari.
Correlativamente, la prova della promessa potrà essere data con mezzi diversi a seconda dei casi: se, ad esempio, la promessa è rivolta al pubblico attraverso comunicati sui giornali, la prova può essere data con la produzione del testo tipografico, mentre è il promittente che ha l’onere di provare i fatti dai quali potrebbe dipendere l’eventuale inefficacia dell’impegno risultante dal testo pubblicato, per l’eventuale difformità tra questo e l’originale, dovuta a colpa o dolo del terzo. Quando, infatti, il promittente affida a un terzo il compito di comunicare la dichiarazione, assume la responsabilità del suo comportamento e la protezione del promissario opera tanto in caso di alterazione intenzionale, quanto in caso di alterazione colposa o comunque involontaria. Ma, nel caso in cui il promissario non sia in grado di esibire il testo stampato, la prova potrà essere data per testimoni o con qualsiasi altro mezzo, risultando, dunque, la prova del testo tipografico, sufficiente ma non necessaria.
L’art. 1989, co. 2, c.c. prevede che: «se alla promessa non è apposto un termine, o questo non risulta dalla natura o dallo scopo della medesima, il vincolo del promittente cessa, qualora entro l'anno dalla promessa non gli sia stato comunicato l'avveramento della situazione o il compimento dell'azione prevista nella promessa».
La promessa al pubblico ha un suo termine di validità: la legge, infatti, non consente l’assunzione di un vincolo a tempo indefinito e, se un termine non è stato apposto dallo stesso promittente e non è desumibile dalla natura o dallo scopo della promessa, esso è fissato per legge in un anno a partire dal momento in cui la promessa è stata resa pubblica.
In base al disposto dell’art. 1989, co. 2, la comunicazione dell’avveramento della situazione o del compimento dell’azione deve avvenire ad opera del beneficiario della dichiarazione promissoria (Cass. sez. lav, 18.05.1967, n. 1039). Ma tale onere è previsto ogni qualvolta si configuri un’ipotesi di promessa al pubblico o risulta limitato alla sola ipotesi di mancata indicazione del termine di validità della promessa? Un problema, questo, sorto a causa dell’infelice formulazione della norma. Fondamentali, a tal proposito, sono apparse le parole di Giuseppe Ferri: «Manca ogni giustificazione logica per ipotizzare una diversità di disciplina quando il termine sia fissato dal promittente e quando non lo sia. La fissazione di un termine può avere rilevanza sul periodo di validità della promessa, che può essere minore e invece maggiore di quello che, in mancanza, è stabilito dalla legge con norma suppletiva, ma non può modificare evidentemente i presupposti che sono necessari perché il beneficiario acquisti e conservi il diritto alla prestazione» (contra Branca, G., Delle promesse unilaterali, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1974, 406 ss.).
Ma, anche se tale tesi appare molto persuasiva, non può non menzionarsi il punto di vista di quanti ritengono la comunicazione necessaria nei soli casi di indeterminatezza (o di indeterminabilità) del termine finale di validità, nonché nelle ipotesi di unicità ed indivisibilità della prestazione promessa, a fronte di più potenziali aventi diritto (Graziani, C.A., Le promesse unilaterali, in Tratt. Rescigno, Torino, 1984, 627 ss.).
Unanimità di vedute non vi è stata neppure con riferimento alla natura giuridica di tale comunicazione: c’è chi l’ha definita come un atto di disposizione con cui il promissario manifesta la volontà di accettare la promessa rivoltagli, chi come un elemento della fattispecie costitutiva del diritto del beneficiario, la quale pertanto si completerebbe con tale comunicazione e non con il solo fatto dell’avveramento della situazione o del compimento dell’azione e chi, ancora, come un presupposto per la conservazione del diritto già acquisito con l’avveramento della situazione o il compimento dell’azione. I fautori di questa ultima linea teorica hanno, inoltre, cercato di spiegare come mai il diritto di ottenere l’attribuzione promessa si consolidi in capo al beneficiario solo con l’avvenuta comunicazione. Meritevoli di attenzione, a tal proposito, le formulazioni di Giuseppe Branca: «Alla domanda si possono dare due risposte; la prima: l’obbligazione del promittente ha per fonte la promessa, poiché questa dopo un anno si invalida come se non si fosse mai perfezionata; niente di strano che cada anche l’obbligo tutto derivante da essa; la seconda è: si tratta di una specie di decadenza; il diritto di chi si trova in quella situazione o compie quella azione nasce con queste, ma deve essere esercitato entro un anno e si comincia ad esercitare proprio con la comunicazione diretta al promittente» (Branca, G. Delle obbligazioni, cit., 469 ss.).
In ogni caso, occorre ribadire che, quale che sia il ruolo attribuito alla comunicazione, se l’avveramento della situazione o il compimento dell’azione non valgono a completare la fattispecie costitutiva del diritto, ciò non significa che essi siano del tutto irrilevanti: essi, come elementi di una fattispecie a formazione successiva, se non producono gli effetti definitivi, producono almeno quelli preliminari. E infatti, il concreto verificarsi della situazione prevista nella promessa rende inefficace la revoca della stessa, consentita prima della scadenza del termine, ove ricorra una giusta causa, a norma dell’art. 1990 c.c.
Questa norma è stata utilizzata proprio a sostegno delle diverse tesi: c’è chi l’ha utilizzata per dimostrare che la fattispecie costitutiva del diritto si completa con l’avveramento della situazione o con il compimento dell’azione e chi, invece, l’ha utilizzata per dimostrare che se il rapporto obbligatorio si fosse in tal modo determinato, una revoca successiva della promessa non sarebbe stata neppure ipotizzabile.
«La promessa può essere revocata prima della scadenza del termine indicato dall'articolo precedente solo per giusta causa, purché la revoca sia resa pubblica nella stessa forma della promessa o in forma equivalente.
In nessun caso la revoca può avere effetto se la situazione prevista nella promessa si è già verificata o se l'azione è già stata compiuta» (art. 1900 c.c.).
La promessa al pubblico è configurata per legge come proposta irrevocabile, dalla quale però si differenzia, in quanto, al maturarsi della situazione, la qualità di creditore si acquisisce e l’obbligazione nasce automaticamente senza alcuna necessità di accettazione e in quanto una possibilità di revoca sussiste solo quando ricorra una giusta causa.
L’irrevocabilità non è infatti assoluta in quanto, prima del verificarsi dei fatti che fungono da presupposto della legittimazione ad accettare, la promessa può essere revocata per giusta causa, purché la revoca sia resa pubblica nella stessa forma dell’effettuata promessa o in forma equivalente.
Particolarmente dibattuta è stata, in dottrina e giurisprudenza, la portata di tale norma, sia a causa della mancanza di dati storici sull’origine e lo scopo della disposizione, sia del disinteresse mostrato dalla dottrina nelle ricerche sulla giusta causa in generale.
Anzitutto, occorre soffermarsi sulla definizione di «revoca»: la dottrina è stata concorde nell’affermare che «si tratta di un atto negoziale, unilaterale e recettizio, mediante il quale l’autore della dichiarazione da revocare, o chi è autorizzato a sostituirsi a lui o a subentrargli, esprime una volontà contraria rispetto a quella manifestata in precedenza, neutralizzandone, così, la rilevanza giuridica» (Romano, S., Proposta irrevocabile e promessa unilaterale, in Scritti minori, III, Milano, 1980).
L’aver riconosciuto tale potere di ritrattazione e gli eventuali limiti al suo esercizio, è dipeso dal bilanciamento, operato dal legislatore, tra interessi giuridici contrapposti: l’ammissione della revocabilità della promessa induce a ritenere che tra gli interessi in conflitto, il legislatore ha scelto di sacrificare quello dei destinatari.
Sulle ragioni di tale scelta, però, non c’è unanimità di vedute. La tesi più condivisa è quella di quanti, muovendo dalla constatazione dell’ampia concorrenzialità che governa la formazione del rapporto obbligatorio originato dalla promessa al pubblico, sostengono che il riconoscimento al promittente del potere di revoca, si giustifichi in ragione della corrispondente «posizione di libertà dei destinatari della promessa in ordine all’assunzione del rischio dell’infruttuosità dell’attività che compiono e degli oneri che sostengono» (D’Angelo, A., Le promesse unilaterali, cit., 784 ss.).
Ma, ancorché le argomentazioni della dottrina siano riuscite a chiarire la ratio del riconoscimento di tale potere in capo al promittente, la giurisprudenza si è spinta oltre la mera ricerca dei motivi, fino a giungere ad ammettere la rilevanza giuridica dell’affidamento del destinatario della promessa e la risarcibilità sia per equivalente che in forma specifica del danno a lui arrecato dal legittimo ritiro del promittente (Cass. 25.9.1996, n. 8470).
Orbene, per giungere ad individuare la portata effettiva della norma in esame (art. 1990 c.c.) non ci si può esimere dalla considerazione della nozione di giusta causa.
«Giusta causa», scrive F. Carnelutti, «è quell’avvenimento esteriore che, influendo sullo svolgimento del rapporto, determina la prevalenza dell’interesse di una parte all’estinzione, sull’interesse dell’altra alla conservazione del rapporto» (Carnelutti, F., Del recesso unilaterale nel mandato di commercio, in Studi di diritto commerciale, Roma, 1917, 260 ss.).
Ma quali sono i fatti sopravvenuti che integrano la giusta causa di revoca? La dottrina è unanime nel ritenere tali tutti quei fatti che impediscono la prosecuzione del rapporto, di talché l’interesse alla realizzazione cede di fronte all’interesse all’estinzione (Sangiorgi, S., Giusta causa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 550 ss.). Una qualificazione, quella appena esposta, che prende le mosse dagli artt. 2119 e 2159 c.c. e che risulta condivisa anche da quanti hanno ritenuto rilevante, per potersi parlare di giusta causa ex art. 1990 c.c., ogni fatto sopravvenuto che rende inutile la prestazione richiesta. E, conformemente con tali definizioni, c’è anche chi ha parlato al riguardo di irrealizzabilità del fenomeno di cooperazione economica o di sopraggiunta svalutazione dell’utilità sociale della promessa.
Tutto ciò dimostra come si sia delineata nel tempo una nozione piuttosto ampia di giusta causa, non comprensiva delle sole cause di invalidità e di inefficacia della promessa. Una nozione che non può che atteggiarsi diversamente a seconda che si tratti di promesse a titolo oneroso (fondate sull’aspettativa di cooperazione che si attende dalla controparte) e di promesse a titolo gratuito (dove non si riscontra un fenomeno di collaborazione tra le parti).
Nel primo caso, venendo in considerazione solo quelle vicende che incidono oggettivamente sulla funzione economica dell’operazione, sussisterà una giusta causa di revoca ogni qual volta, in conseguenza di avvenimenti sopravvenuti, indipendenti da situazioni di colpa, non sia più realizzabile la finalità perseguita dal promittente, o non sia utilizzabile la prestazione richiesta.
Nell’ambito delle promesse a titolo gratuito, invece, occorre distinguere quelle in cui vengono usati gli schemi di contratti nominati, che non costituiscono liberalità, da quelle che hanno per contenuto una obbligazione di dare. Rispetto al primo gruppo, la previsione di circostanze tipiche legittimanti l’estinzione dell’obbligo sorto in capo al promittente porta ad escludere qualsiasi altra ipotesi di revoca al di fuori di quelle normativamente fissate. In ogni caso in cui la promessa si risolva in un’obbligazione di fare, la giusta causa dovrà essere intesa come circostanza sopravvenuta causativa di un eccessivo aggravio per il promittente. Invece, nella diversa ipotesi di promessa gratuita avente ad oggetto una prestazione di dare, giusta causa di revoca è da qualificarsi come quel mutamento delle condizioni patrimoniali del promittente tale da far venire meno la proporzionalità dell’attribuzione alle sue condizioni economiche. Ciò in quanto tali promesse si configurano come atti di liberalità la cui vincolatività è subordinata al concetto di utilità sociale.
La portata dell’art. 1990 c.c. si apprezza anche con riguardo all’ipotesi in cui, durante la pendenza del termine di validità e, in ogni caso, prima che la situazione si sia verificata o l’azione sia stata compiuta, vengano apportate modifiche alla dichiarazione originaria resa dal promittente.
Vi è unanimità di vedute in dottrina e giurisprudenza (Cass. n. 2674/1991, cit.) nel ritenere che una siffatta variazione comporti una vera e propria revoca della promessa, soprattutto allorquando la stessa riguardi i criteri di identificazione dei beneficiari dell’attribuzione promessa.
Tale orientamento è stato a lungo condiviso sino a diventare una vera e propria regola di portata generale, rispetto alla quale costituisce un’eccezione l’ipotesi in cui la modifica apportata all’atto posto in essere dal promittente consenta di assicurare il miglior perseguimento delle finalità della promessa, senza pregiudicare i criteri di identificazione dei beneficiari.
In conclusione di questo complessivo quadro circa la disciplina generale della promessa al pubblico, non ci si può esimere dall’analizzare il disposto dell’articolo 1991 del codice civile in forza del quale «se l'azione è stata compiuta da più persone separatamente, oppure se la situazione è comune a più persone, la prestazione promessa, quando è unica, spetta a colui che per primo ne ha dato notizia al promittente».
Tale norma regola l’ipotesi in cui la prestazione promessa sia unica e, seppure divisibile, non ripartibile.
In tale situazione, allorquando più persone abbiano svolto separatamente l’azione oppure versino nella situazione in ragione della quale la promessa è fatta, occorre applicare il criterio della priorità della comunicazione per risolvere il conflitto. Prevarrà, pertanto, colui che per primo avrà informato il promittente circa l’avvenuto compimento dell’azione o l’avveramento della situazione.
Non rientra, invece, nell’ambito di applicazione di tale norma il caso in cui l’azione sia stata compiuta congiuntamente da più persone, ciascuna delle quali avrà diritto alla prestazione e potrà pretendere, se questa è divisibile, la propria parte dal promittente; altrimenti, troverà applicazione il diverso regime fissato dall’art. 1317 c.c..
Il legislatore ha lasciato altresì insoluta l’ipotesi della contemporaneità delle notizie.
Per addivenire ad una soluzione anche in tal caso occorre prendere le mosse dall’espressione «dar notizia». Secondo la dottrina prevalente, con la stessa si è inteso dare rilevanza non già al momento iniziale del processo di comunicazione, ma a quello terminale della recezione. Se, tuttavia, più persone abbiano contemporaneamente reso noto al promittente l’avvenuto compimento dell’azione o il verificarsi della situazione, ciò comporterà una parità di condizioni tale per cui vi sarà la partecipazione di tutte sulla medesima cosa (attribuzione ex aequo).
Nella specifica ipotesi disciplinata dall’art. 1991 troverà invece applicazione il noto principio prior in tempore potior in iure a vantaggio di colui che per primo avrà dato notizia al promittente del compimento dell’azione.
Resta dunque in ogni caso ferma l’idea che l’onere di comunicazione rappresenta il mezzo scelto dal legislatore per risolvere il conflitto tra più aventi diritto della medesima prestazione. Emblematiche, a tal proposito, le parole di Branca: «La comunicazione al promittente che altro è se non un atto di esercizio? Dunque, il primo che ha compiuto l’atto, se fosse stato il solo, già da quel momento sarebbe divenuto creditore, così come accade ad un locatario; ma, appunto, come accade ai locatari di una stessa cosa, anche fra gli autori dell’azione prevista nella promessa prevale il primo che esercita il diritto» (Branca, G., Delle obbligazioni, cit., 474 ss.).
È pacifico che la regola dettata dall’art. 1991 c.c. sia però derogabile da parte del promittente.
Artt. 1989-1991 c.c.
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