proibizionismo
Gli Stati Uniti in guerra contro le bevande alcoliche
Col termine proibizionismo si intende la legislazione che tra il 1920 e il 1933 rese illegali negli Stati Uniti la fabbricazione, l’importazione e lo spaccio di bevande alcoliche. Nonostante la sua severità, tale legislazione fu largamente disattesa, sicché l’uso di bevande alcoliche, reso possibile in primo luogo dalle attività della criminalità organizzata, rimase ampiamente diffuso
Fin dalla prima metà dell’Ottocento in America si erano sviluppate correnti rigoriste di matrice religiosa che consideravano l’alcolismo come un’intollerabile causa di degenerazione fisica e morale e quindi invocavano una legislazione proibizionista. Un primo notevole successo fu conseguito quando lo Stato del Maine accolse la richiesta tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Nella seconda metà dell’Ottocento andarono sviluppandosi numerose organizzazioni che invocavano la temperanza e la proibizione, la più attiva delle quali a livello nazionale divenne l’Anti-saloon league, guidata non solo da pastori protestanti ma anche da varie personalità politiche, che non si limitavano a chiedere un uso moderato delle bevande alcoliche ma ne esigevano il totale divieto in tutti gli Stati Uniti. La loro azione, nonostante le opposizioni a una misura tanto intransigente che, se applicata, avrebbe colpito potenti interessi economici, raggiunse lo scopo nel gennaio 1920, quando entrò in vigore il 18° emendamento alla Costituzione.
Tra le giustificazioni addotte da coloro che avevano sostenuto la causa vi erano anche quelle secondo cui il proibizionismo, oltre a migliorare lo standard morale dei cristiani e dei cittadini, avrebbe contribuito a far sì che il paese avesse lavoratori e soldati più efficienti. È significativo che fra i partigiani del proibizionismo vi fosse il grande industriale Henry Ford, notoriamente favorevole al fatto che gli operai anche fuori dalla fabbrica mantenessero buoni costumi, con giovamento della loro salute fisica e mentale e conseguente grande vantaggio per il processo industriale.
Una cosa era la legge, un’altra la possibilità e la volontà di attuarla. In realtà la fabbricazione, l’importazione e lo spaccio delle bevande alcoliche continuarono in condizioni di clandestinità che risultò impossibile contrastare efficacemente. I locali in cui tali bevande venivano vendute erano numerosissimi. Le autorità per lo più lasciarono correre, nonostante taluni casi di repressione. La gestione dell’alcol cadde soprattutto nelle mani delle bande criminali, che si arricchirono enormemente. La corruzione di amministratori pubblici e poliziotti divenne un fenomeno corrente e ben noto.
A prendere atto del fallimento del proibizionismo fu il presidente Herbert Clark Hoover il quale, nel 1929, decise di nominare una commissione di indagine per accertare quale fosse lo stato delle cose e quali le reali possibilità di far rispettare la legge. La conclusione fu che l’uso dell’alcol era ormai troppo radicato e sostenuto da una parte troppo grande della società americana per poter vincere la battaglia scatenata dai rigoristi e che l’applicazione della legge era risultata fino ad allora molto imperfetta.
In effetti il proibizionismo – come misero in luce alcune serie inchieste – aveva influito positivamente su certi individui e gruppi, inducendoli a curarsi maggiormente della famiglia e a evitare una spesa improduttiva come l’alcol; ma d’altra parte esso aveva accresciuto anzitutto in molti giovani l’inclinazione e persino il gusto di violare una legge che le stesse autorità facevano rispettare assai poco e con scarsa convinzione. Nel dicembre 1933 il 18° emendamento fu abolito fra il tripudio quasi generale. La lezione tratta dall’insuccesso del proibizionismo fu che occorreva piuttosto cercare di combattere la piaga dell’alcolismo puntando sull’educazione individuale e collettiva e rinunciando a ricorrere alla forza dello Stato.