Abstract
La presente voce esamina le presunzioni quali istituti che si ricollegano all'ambito delle prove nel processo civile e sono disciplinati dagli artt. 2727, 2728 e 2729 c.c. Vengono considerati la struttura, il funzionamento e l'efficacia sia delle presunzioni legali, che hanno attinenza con la regolamentazione dell'onere della prova, sia delle cd. presunzioni semplici, che, a differenza delle prime, attengono alla prova dei fatti nel giudizio e, per questa ragione, sono da considerarsi mezzi di prova in senso proprio.
Le presunzioni sono istituti che attengono, in linea generale, alla prova dei fatti nel processo e sono disciplinate agli artt. 2727-2729 c.c. Negli articoli del codice civile richiamati, il termine presunzioni si riferisce a due fenomeni diversi tra di loro, anche se ricollegabili, con modalità differenti, al contesto probatorio. Definendo le presunzioni come «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato», l'art. 2727 c.c. accosta, infatti, impropriamente, le cd. presunzioni legali, che hanno attinenza con la regolamentazione dell'onere della prova, alle cd. presunzioni semplici, che, invece, attengono alla prova dei fatti nel giudizio e, per questo, sono da considerarsi mezzi di prova in senso proprio (su queste nozioni si rinvia a Taruffo, M., Presunzioni: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1 ss.; Comoglio, L.P.-Ferri, C.-Taruffo, M., Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011, 505 ss.; Comoglio, L.P., Le prove civili, Torino, 2010, 645 ss.). Poiché ci si trova di fronte a istituti che presentano differenze di struttura sostanziali, è opportuno considerare di seguito i due tipi di presunzione in modo distinto, mettendone in luce le principali caratteristiche.
Come si è anticipato, le presunzioni legali devono essere correlate con le regole che provvedono a individuare la distribuzione degli oneri probatori posti a carico delle parti nel processo. Pertanto, la definizione contenuta nell’art. 2727 c.c. non è adeguata, in quanto sembra presentare, impropriamente, le presunzioni legali, come procedimenti logico-conoscitivi in base ai quali da un fatto noto si risale ad un fatto ignorato. In realtà, secondo un più corretto inquadramento, la dottrina ritiene che le presunzioni legali debbano essere ricondotte a un meccanismo normativo che non riguarda l'accertamento giudiziale dei fatti, ma che incide sul regime di distribuzione dell'onere della prova (Taruffo, M., op. loc. citt.). Come è noto, nel nostro ordinamento le regole fondamentali in materia sono contenute nell'art. 2697 c.c., che stabilisce che chi fa valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui si fonda l'eccezione. La distribuzione degli oneri probatori accolta dall'art. 2697 c.c. è sottoposta, talvolta, a inversioni, modificazioni o attenuazioni. Sia pur con le precisazioni che seguono, le cd. presunzioni legali, disciplinate dagli artt. 2727 e 2728 c.c., rappresentano i principali meccanismi attraverso i quali l’onere della prova subisce modifiche o inversioni per intervento del legislatore, in quanto le norme che le prevedono escludono la necessità, per la parte a favore della quale operano, di fornire la prova di un fatto che rientra nella fattispecie dalla stessa parte dedotta in giudizio.
All'interno della categoria delle presunzioni legali occorre poi ulteriormente distinguere quelle assolute, in presenza delle quali il meccanismo normativo non ammette la prova contraria, da quelle relative, che invece ammettono la possibilità di fornire tale prova (Comoglio, L.P.-Ferri, C.-Taruffo, M., op. cit., 482).
Le presunzioni legali assolute, poiché escludono completamente che il fatto presunto possa essere oggetto di prova contraria, secondo la dottrina, non operano una reale modificazione diretta degli oneri probatori sul piano del diritto processuale, in quanto, più propriamente, agiscono sul piano del diritto sostanziale (Taruffo, M., op. cit., 1). In altri termini, delle presunzioni assolute il legislatore si serve come meccanismi volti a modellare la disciplina di un determinato rapporto, riformulando la configurazione sostanziale della fattispecie giuridica, ovvero cristallizzando in «forme giuridiche positive, determinate regole di esperienza» (Comoglio, L.P., op. cit., 650 ss.). Gli effetti processuali delle presunzioni legali si determinano, pertanto, solo in modo indiretto, in quanto la legge esclude, a differenza di quanto avviene nel caso delle presunzioni relative, che la parte, a sfavore della quale le presunzioni assolute operano, possa fornire la prova contraria del fatto presunto (Comoglio, L.P., op. cit., 650 ss.; cfr. Taruffo, M., op. cit., 2, il quale esclude espressamente che le presunzioni legali assolute costituiscano un fenomeno di natura processuale, in quanto l'esclusione dell'onere della prova altro non sarebbe che un mezzo utilizzato dal legislatore per rafforzare il rigore della disciplina sostanziale, escludendo che la parte possa in alcun modo contestare «i presupposti per l’esistenza dell’effetto giuridico previsto dalla norma»). Più specificamente, le norme che prevedono presunzioni assolute non fissano alcuna presunzione in ordine alla verità di fatti, ma si limitano a dichiarare nullo un atto o ad escludere l'azione in giudizio, sulla base di un ragionamento presuntivo che costituisce la premessa logica della norma stessa (Taruffo, M., op. cit., 1; secondo Fabbrini, G., Presunzioni, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, 280, invece, tra le due ipotesi di presunzioni legali, la possibilità o meno di fornire la prova contraria costituisce l'unico criterio di distinzione).
Le presunzioni legali relative (o juris tantum) incidono sull'onere della prova e si caratterizzano per l'ammissibilità della prova contraria a carico dell'altra parte: esse operano, cioè, provocando una relevatio ab onere probandi in favore della parte che ha allegato il fatto coperto da presunzione, poiché tale parte non è tenuta a provarlo. Pertanto, l'effetto immediato della presunzione legale relativa è, da un lato, l'eliminazione della necessità, a favore di una parte, di dimostrare in giudizio l'esistenza di un determinato fatto e, dall'altro, l'imposizione a carico della controparte dell'onere di fornire la prova contraria, ove non si voglia esporre agli effetti giuridici della fattispecie cui il fatto stesso si riferisce (Taruffo, M., op. cit., 2). Tale prova contraria potrà vertere sul fatto opposto a quello presunto, ovvero su fatti incompatibili con l'esistenza del fatto presunto (Fabbrini, G., op. cit., 283; Comoglio, L.P., op. cit., 652 ss.; Patti, S., Probatio e praesumptio: attualità di un'antica contrapposizione, in Riv. dir. civ., 2001, I, 487). A tale proposito la giurisprudenza ha precisato che la prova del fatto contrario a quello oggetto della presunzione legale può essere fornita con ogni mezzo, anche attraverso una sola presunzione semplice, purché grave e precisa (art. 2729 c.c., su cui v. infra, § 5.; Cass., 16.5.1997, n. 4328; Cass., 21.6.1985, n. 3721). Nell'ipotesi in cui sia posta una presunzione legale iuris tantum, l'incertezza della prova fornita per vincerla nuoce a chi aveva l'onere di dare la prova contraria; tuttavia, quest'ultima è pur sempre una prova, cui fa da parametro la normalità degli accadimenti e dei comportamenti umani e che, nei riguardi del giudice, deve indurre soltanto una condizione di certezza morale razionalmente giustificabile: in tal caso spetta, cioè, al giudice l'accertamento in ordine alla prevalenza della presunzione legale, ovvero di quella semplice volta a dimostrare che il fatto presunto non si è verificato (Cass., 9.1.1973, n. 10).
Le singole ipotesi nelle quali il legislatore ha previsto meccanismi di presunzione relativa sono numerose e presentano ciascuna caratteristiche peculiari, le quali si configurano in modo diverso in relazione al funzionamento delle singole fattispecie (Fabbrini, G., op. cit., 279); tra le ipotesi più rilevanti – oltre alla presunzione di buona fede del possessore (art. 1147 c.c.) e, più in generale, le altre presunzioni relative alla disciplina del possesso (v. artt. 1141-1143 c.c.) – si possono indicare, ad esempio, quelle previste dagli artt. 880, 881, 897-899 c.c., in materia di proprietà; parimenti importanti sono l'art. 1117 c.c. in tema di comunione di alcune parti dell'edificio condominiale, e gli artt. 1335 e 1352 c.c. per i contratti in generale (per un’ampia rassegna v. Fabbrini, G., op. cit., 286; Comoglio, L.P., op. cit., 653; Andrioli, V., Presunzioni - dir. civ. e dir. proc. civ., in Nss. D.I., XIII, Torino, 1957, 769).
I giudici, talvolta, si servono di regole giurisprudenziali finalizzate a sollevare una parte dall'onere di provare un determinato fatto, al di fuori delle ipotesi in cui ciò sia espressamente previsto da una norma giuridica. Queste ipotesi integrano le cd. presunzioni giurisprudenziali, il cui sistema di funzionamento è analogo a quello delle presunzioni legali relative, le quali – come è emerso in precedenza – non hanno struttura inferenziale, né attengono direttamente alle modalità di accertamento dei fatti controversi, bensì operano sul piano degli oneri probatori. L'assenza di espresse disposizioni normative non vale, peraltro, a ricomprendere le presunzioni in esame nel novero delle presunzioni semplici: per converso, le presunzioni giurisprudenziali presentano il medesimo meccanismo di funzionamento e la medesima struttura delle presunzioni legali relative, alle quali sono assimilabili. Esse consistono, cioè, in “manipolazioni” giurisprudenziali della distribuzione degli oneri probatori previsti dalle norme generali. Del resto, le regole di creazione giurisprudenziale in esame sono analoghe a quelle mediante le quali il legislatore stabilisce presunzioni legali relative, essendo presenti in entrambi i casi «regole di giudizio» che incidono sulla ripartizione degli oneri di prova posti a carico delle parti, modificando o invertendo la distribuzione prevista dall'art. 2697 c.c. (Verde, G., Le presunzioni giurisprudenziali, in Foro it., 1971, V, 177; Id., L’onere della prova nel processo civile, Napoli-Camerino, 1974, 135 ss.; Comoglio, L.P., op. cit., 655; Taruffo, M., Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 736 ss.; Id., Presunzioni, cit., 3; Id., sub art. 2728, in Comm. c.c. Cendon, VI, Torino, 1991, 211). Secondo la giurisprudenza, ad esempio, in caso di ritardato adempimento di un’obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, co. 2, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva (Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499).
Le presunzioni semplici sono riconducibili alle cd. prove per induzione e consistono in strumenti probatori rappresentati da un ragionamento inferenziale che il giudice formula allo scopo di trarre conclusioni attinenti alla verità o alla falsità di un factum probandum. Pertanto, esse consistono in mezzi di prova in senso proprio che permettono l’accertamento dei fatti controversi. La struttura del ragionamento presuntivo corrisponde a quella del ragionamento per induzione e può essere rappresentata, secondo la dottrina, in base al seguente schema logico minimo: posto un fatto F, noto al giudice, esso viene preso come premessa di una inferenza I, basata su di un criterio C, la quale permette di attribuire un grado di conferma G di attendibilità all’asserzione per cui il fatto da provare FP è vero o falso (Taruffo, M., Presunzioni, cit., 2; Comoglio, L.P.-Ferri, C.- Taruffo, M., op. cit., 506 ss.; Comoglio, L.P., op. cit., 659 ss.).
Nello schema, formato da più elementi, emerge che la premessa del ragionamento presuntivo è rappresentata da un fatto noto F, chiamato fonte di presunzione o indizio. Il fatto FP è il fatto che si intende provare (il factum probandum) e può consistere in un fatto principale, o anche in un fatto secondario che va provato al fine di fondare su di esso un’ulteriore inferenza relativa a un fatto principale. Il fatto F si assume come vero in quanto viene provato o viene percepito direttamente dal giudice o, ancora, è un fatto notorio o pacifico: esso, chiamato factum probans, è la base di partenza o premessa dell’inferenza. Il fatto F è sempre un fatto secondario, che rileva, dal punto di vista logico, come premessa del ragionamento inferenziale. È il giudice che, discrezionalmente, individua la fonte di presunzione: qualsiasi circostanza può essere assunta come fonte di presunzione, purché risulti idonea, mediante l'applicazione di idonei criteri di ragionamento, a determinare conclusioni conoscitive circa il fatto da provare. Dalle considerazioni che precedono risulta che le presunzioni sono tipicamente prove indirette, che muovono dalla conoscenza di un fatto per derivarne la conoscenza di un altro fatto, non conosciuto (Comoglio, L.P.-Ferri, C.-Taruffo, M., op. cit., 506).
Le presunzioni semplici sono atipiche, a differenza delle presunzioni legali: l’art. 2729 c.c. le definisce soltanto in via generale e residuale, indicandole come presunzioni che non sono «stabilite dalla legge», e sono quindi «lasciate alla prudenza del giudice». Quest’ultima parte della norma richiama il “prudente apprezzamento” secondo il quale il giudice deve valutare le prove in base al primo comma dell’art. 116 c.p.c., e, quindi, riconduce alla discrezionalità del giudice il ricorso alle presunzioni (sul tema, in generale, Taruffo, M., Commento all'art. 116 c.p.c., in Carratta, A.-Taruffo, M., Commentario del codice di procedura civile. Libro primo: disposizioni generali art. 112-120. Poteri del giudice, Bologna, 2011, 519 ss.). La costante giurisprudenza afferma che la valutazione del giudice in materia di presunzioni non sia censurabile in Cassazione, purché la decisione del giudice appaia congruamente motivata (ex multis, cfr. Cass., 22.1.2009, n. 1632; Cass., 26.11.2008, n. 28224; Cass., 18.8.2007, n. 17628; Cass., 11.5.2007, n. 10847). Quanto alla definizione legislativa delle presunzioni semplici, l’art. 2727 c.c. parla di «conseguenze» tratte dal giudice. Al riguardo, secondo la dottrina, è opportuno distinguere, nel significato di presunzione, ciò che attiene al ragionamento che il giudice pone in essere per trarre una conclusione, dalla conclusione stessa che costituisce il risultato (ossia: la conseguenza) di quel ragionamento (Comoglio, F.P., op. cit., 659 ss.).
L’art. 2727 c.c. afferma che il giudice prende le mosse da un «fatto noto» (ossia da un enunciato relativo a un fatto che si assume come vero) per risalire ad un «fatto ignorato» (ossia ad un enunciato relativo ad un fatto diverso che è incerto). La dottrina ha sottolineato che l’espressione «risalire ad un fatto ignorato» – che può alludere a questo fatto come a un prius rispetto al fatto noto, e all’attività del giudice come a una sorta di scoperta di qualsivoglia fatto sconosciuto – potrebbe essere fonte di confusione. Più correttamente, per un verso, il ragionamento inferenziale parte dalla premessa, ossia dal fatto noto, e muove in avanti verso la conclusione sul fatto ignorato; per altro verso, il factum probandum è individuato (dalle parti o dal giudice) come ipotesi da verificare, e quindi è già prefigurato come possibile conclusione del ragionamento presuntivo. Pertanto, il ragionamento inferenziale serve a stabilire se un enunciato di fatto che si è già formulato in via ipotetica viene o non viene confermato a livello probatorio sulla base del fatto noto (Taruffo, M., Considerazioni sulle prove per induzione, in Riv. trim dir. proc. civ., 2010, 1165 ss.).
L’art. 2729 c.c. non prende esplicitamente posizione intorno ai criteri che il giudice dovrebbe impiegare al fine di dare fondamento all’inferenza presuntiva. Ciò è comprensibile in quanto le presunzioni semplici sono atipiche e vengono definite solo per esclusione. La legge, tuttavia, per evitare abusi, arbitri e fraintendimenti da parte del giudice, individua determinati requisiti delle presunzioni, alla presenza dei quali è subordinato il loro utilizzo. In ogni caso, la mancanza di criteri normativi espressi non esclude – e, anzi, implica – la necessità che la discrezionalità del giudice venga esercitata in modo razionale, non arbitrario e controllabile (sul tema, in generale, Ferrer Beltrán, J., La valoración racional de la prueba, Madrid-Barcelona-Buenos Aires, 2007, passim; su questi profili, v. infra, § 5.).
In tempi recenti la dottrina ha rilevato un’analogia strutturale tra gli argomenti di prova, di cui all'art. 116 c.p.c., e le presunzioni semplici (Taruffo, M., op. loc. ultt. citt.; sul tema, v. Ruffini, G., “Argomenti di prova” e “fondamento della decisione” del giudice civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 1329 ss.; Chiarloni, S., Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto, ivi, 1986, 845; Vanz, C., La circolazione della prova nei processi civili, Milano, 2008, 127 ss.). Secondo questo inquadramento, l’argomento di prova presenta una struttura inferenziale simile a quella della presunzione poiché in entrambi i casi il giudice assume come premessa un fatto (ad esempio, il comportamento di una parte in giudizio o una risposta data all’interrogatorio libero, ex art. 116 c.p.c.), e da questa premessa ricava una conclusione relativa alla verità o alla falsità di un enunciato che riguarda un altro fatto. In questa prospettiva, oltre a poter svolgere una funzione “ancillare” nel contesto della valutazione delle altre prove, l’argomento di prova non ha soltanto una funzione sussidiaria poiché, se è abbastanza grave e preciso, svolge una funzione probatoria autonoma consentendo di provare un fatto della causa (Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992, 459 ss.). Ad esempio, il rifiuto di consentire l’ispezione non dice nulla intorno ad altre prove, ma potrebbe fornire indicazioni circa l’oggetto dell’ispezione; il rifiuto di esibire un documento potrebbe indicare elementi intorno al contenuto del documento. L’analogia tra argomenti di prova e presunzioni è stata utilizzata anche al fine di affermare che l’argomento di prova ha la stessa efficacia probatoria delle presunzioni semplici, se e quando sussistono i requisiti di gravità, precisione e concordanza che l’art. 2729 c.c. prevede per queste ultime (v. infra, § 5.).
Nella legge si possono individuare più livelli in corrispondenza dei quali sono posti limiti alla discrezionalità del giudice nell'uso delle presunzioni semplici. Alla regola per cui le presunzioni semplici sono affidate alla prudenza del giudice fa da contrappunto quella secondo cui l'impiego delle presunzioni è ammesso solo quando esse integrino i requisiti della «gravità», della «precisione» e della «concordanza» (art. 2729, co. 1, c.c.). Attraverso i requisiti posti dalla legge, pertanto, sono stati introdotti limiti e criteri tesi a evitare che la discrezionalità del giudice nell'impiego delle presunzioni possa essere esercitata in modo abusivo o arbitrario.
La gravità di una presunzione semplice risiede nella capacità della presunzione stessa di produrre conclusioni relative al factum probandum che abbiano un rilevante grado di attendibilità (Comoglio, L.P.-Ferri, C.-Taruffo, M., op. cit., 508). Secondo gli orientamenti più recenti della giurisprudenza, affinché vi sia gravità, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di ragionevolezza e di probabilità (ex multis, Cass., 8.10.2013, n. 22898; Cass., 31.10.2011, n. 22656; Cass., 28.5.2007, n. 12438; Cass., 1.8.2007, n. 16993). L’orientamento ha opportunamente superato una precedente linea interpretativa, secondo la quale una presunzione era ritenuta grave soltanto quando essa fosse in grado di attribuire certezza assoluta alla conclusione sul fatto ignorato, approdando all'idea che siano sufficienti inferenze deduttive razionalmente giustificate e fondate su un adeguato grado di probabilità (Taruffo, M., Considerazioni sulle prove per induzione, cit., 1165 ss.).
L’idoneità a produrre conclusioni chiare, convergenti e non equivoche sui fatti ignorati integra il secondo requisito richiesto dalla legge, quello della precisione della presunzione, ampiamente sovrapponibile a quello della gravità. Si ritiene che la presunzione manchi di precisione quando è equivoca, ossia quando le conclusioni che possono essere inferite dai fatti noti non sono in grado di riportare in modo preciso al factum ignorato, ovvero riconducono, in modo contraddittorio, a una pluralità di fatti diversi (Comoglio, L.P.-Ferri, C.-Taruffo, M., op. cit., 508).
Il requisito della concordanza delle inferenze presuntive previsto dall’art. 2729 c.c. è stato, perlopiù, di difficile lettura interpretativa. Stando a una lettura della norma legata al dato testuale, questo requisito sembrerebbe limitare l’impiego delle presunzioni alla sola ipotesi in cui sia possibile formulare una pluralità di ragionamenti inferenziali (almeno due) sulla base di diversi fatti noti, e tutte queste inferenze conducano alla medesima conclusione. Così interpretata, secondo la dottrina, la norma condurrebbe a ritenere che solo in presenza di più presunzioni si possa propriamente dire che vi sia una loro concordanza rispetto alla dimostrazione del fatto incerto sotto il profilo probatorio. In effetti, la concordanza di più presunzioni gravi e precise rappresenta una condizione ottimale di rilevante fondamento cognitivo, in quanto tale concordanza può essere equivalente a una vera e propria prova del fatto ignorato (in dottrina, Taruffo, M., Considerazioni, cit., 1165 ss.; in giurisprudenza, in questo senso, ad esempio, Cass., 31.10.2008, n. 26331, secondo la quale, se non risultano più inferenze presuntive, si verifica un vizio di motivazione e quindi la decisione è censurabile; si v. anche Cass., 15.7.2008, n. 19445). L’interpretazione restrittiva, tuttavia, comporterebbe una limitazione eccessiva del campo di applicazione della norma e, quindi, dell’ambito di operatività delle presunzioni. Dottrina e giurisprudenza, pertanto, superando l'accezione restrittiva del requisito della concordanza, ritengono che non sia sempre necessaria una pluralità di inferenze presuntive relative allo stesso fatto ignorato: se la presunzione è sufficientemente grave e particolarmente precisa, essa può costituire da sola il fondamento probatorio dell’accertamento del fatto ignorato (cfr., ad esempio, Cass., 29.7.2009, n. 17574; Cass., 11.9.2007, n. 19088; Cass., 1.8.2007, n. 16993; Cass., 11.5.2007, n. 10847; Cass., 18.4.2007, n. 9245; Cass., 24.1.2007, n.1575; in dottrina: Comoglio, L.P., op. cit., 667; Taruffo, La prova, cit., 449 ss.). Non si può escludere, infatti, che una sola inferenza sia idonea ad attribuire un grado di probabilità prevalente all’ipotesi sul factum probandum. Tuttavia, l’inferenza deve essere effettivamente grave e precisa, poiché in caso contrario non potrebbe attribuire all’ipotesi sul fatto da provare un grado adeguato di conferma probatoria (cfr. Cass., 11.5.2007, n. 10847; Cass., 18.4.2007, n. 9245). Tutto ciò per evitare il rischio di abusi o fraintendimenti da parte del giudice.
Si può verificare che vi siano varie inferenze presuntive convergenti, ma che nessuna di esse sia in grado da sola di fondare la conclusione sul fatto ignorato in modo sufficientemente rilevante. In questo caso, la dottrina ritiene una soluzione ragionevole considerare che – diversamente da quanto accadrebbe se si applicasse il calcolo matematico delle probabilità congiunte – sia possibile effettuare la somma dei gradi di conferma che le varie inferenze attribuiscono alla medesima conclusione (per un’analisi logica della situazione che si verifica quando sullo stesso fatto vi sono più prove convergenti, ampiamente, Taruffo, M., La prova, cit., 256 ss., 260 ss.). In altri termini, «un insieme di presunzioni concordanti può (ma ciò non accade necessariamente) fornire alla conclusione sul fatto ignorato un grado di conferma adeguato (e prevalente su quello dell’ipotesi contraria) anche quando nessuna delle varie inferenze singolarmente prese sarebbe sufficiente da sola a giustificare tale conclusione» (così, Taruffo, M., Considerazioni, loc. cit.).
Un'altra situazione problematica che si può verificare è quella in cui non ci sia convergenza tra le diverse inferenze che possono essere ricavate da differenti fatti noti, dai quali derivano, attraverso il ragionamento presuntivo, conclusioni diverse. Ovviamente, in una simile ipotesi, la presenza di una sola inferenza che sia prevalente, ossia che presenti caratteristiche di gravità e di precisione di una rilevanza tale da essere idonea, da sola, a fondare la prova del fatto ignoto, semplifica la soluzione del problema. Infatti, in questo caso, l'inferenza prevalente surclassa le altre inferenze, le quali, anche se non concordanti, non rilevano (v. più ampiamente Taruffo, La prova, cit., 261 ss.). Molto più complesso è, invece, il caso in cui giudice si trovi di fronte ad una pluralità di inferenze discordanti, basate su diversi fatti ed egualmente dotate di un grado sufficiente di gravità e precisione. In questo caso, la mancanza di convergenza diventa problematica, in quanto la verità e la falsità del fatto ignoto ricevono entrambe supporto. Del resto, la situazione non è infrequente in ambito probatorio: come sul medesimo fatto si possono avere prove positive e negative, o si possono avere prove relative a versioni diverse di quel fatto, la medesima difficoltà si può verificare quando si tratta di presunzioni semplici. La soluzione del problema, in effetti, si fonda proprio sul parallelo tra il caso della pluralità di inferenze non concordanti e quanto accade nell'ambito delle prove in generale. A fronte di prove positive e negative che vertono sullo stesso fatto, ovvero di prove che confermano versioni diverse di esso, vi è un criterio che permette di superare l’impasse per il quale, nel caso di specie, non risulterebbe dimostrata nessuna ipotesi sul fatto. Il riferimento è al cd. criterio della probabilità prevalente, secondo il quale la scelta del giudice deve prediligere l'ipotesi sul fatto che risulta aver ottenuto il grado relativamente più elevato di conferma probatoria. Analogamente, una corretta applicazione del criterio permette di risolvere la situazione problematica che si verifica allorchè da vari fatti noti siano derivabili diverse inferenze presuntive non concordanti: la soluzione è quella di stabilire quale di tali inferenze attribuisca un grado di conferma relativamente maggiore ad un’ipotesi sul fatto ignorato (Taruffo, M., op. ult. cit., 264 ss.; Id., Considerazioni, cit., 1165 ss.).
La legge prevede, infine, un ulteriore limite generale all'impiego delle presunzioni. Il legislatore, infatti, è intervenuto ad attribuire prevalenza alla prova scritta, rispetto alla quale le presunzioni sono destinate a cedere: l’art. 2729, co. 2, c.c. esclude espressamente che possano essere usate nei casi in cui è esclusa la prova testimoniale.
Oltre ai requisiti della gravità, precisione e concordanza previsti dalla legge, il ragionamento presuntivo condotto dal giudice deve sottostare ai criteri generali (particolarmente importanti per la valutazione delle prove) di razionalità che ne assicurino la tenuta, la correttezza e la controllabilità. Ora, l'art. 2729 c.c. non dice espressamente quali siano i criteri in base ai quali il giudice è chiamato a condurre il ragionamento presuntivo. Come si è anticipato, la disposizione prevede che le presunzioni semplici non sono «stabilite dalla legge», e sono quindi «lasciate alla prudenza del giudice». Quest’ultima parte della norma, tuttavia, evoca chiaramente il prudente apprezzamento secondo il quale il giudice deve valutare le prove in base al primo comma dell’art. 116 c.p.c., e quindi riporta alla discrezionalità del giudice il ricorso alle presunzioni. In questa prospettiva, la mancanza di criteri normativi implica necessariamente che la discrezionalità del giudice venga esercitata in modo razionale, non arbitrario e controllabile, così come accade per la valutazione delle altre prove (Taruffo, M., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009, 135, 205 ss.; Ferrer Beltrán, J., op. cit., passim). Ciò vale, a maggior ragione, per le presunzioni semplici, le quali, essendo inferenze che permettono al giudice di trarre conclusioni in ordine ai fatti incerti, postulano un’articolazione logicamente corretta del ragionamento nel quale si sviluppano.
In primo luogo, è molto importante che i giudici conoscano negli aspetti fondamentali le caratteristiche logiche generali del ragionamento che affrontano quando compiono una presunzione. È, cioè, necessario che siano noti al giudice gli aspetti conoscitivi del procedimento decisorio affrontato in sede di presunzione: ciò contribuisce a individuare un metodo razionale, rendendo il giudice consapevole dei singoli passaggi che compie nel suo ragionamento, così come del loro grado di certezza e di incertezza (come è stato autorevolmente osservato, è razionale soltanto quel metodo nel quale il giurista-interprete «diventa consapevole dei singoli passaggi metodici che compie, così come del loro grado di certezza e di incertezza»: così Kaufmann, A., Il ruolo dell’abduzione nel procedimento di individuazione del diritto, in Ars Interpretandi, 2001, 333 ss.). A questo riguardo, è necessario distinguere la presunzione come ragionamento inferenziale dalla presunzione come risultato o conclusione di questa inferenza, ossia come prova dell’enunciato relativo al factum probandum. Inoltre, due sono le principali caratteristiche strutturali delle inferenze del ragionamento presuntivo da prendere in considerazione, per le quali è possibile proporre solo alcuni sintetici richiami. Secondo la dottrina, il ragionamento che il giudice compie quando prende le mosse da un fatto noto e risale a un fatto ignorato «è costituito da inferenze che muovono da premesse particolari, ossia da enunciati relativi a circostanze specifiche, e giungono a conclusioni pure particolari, ossia ad altri enunciati relativi a fatti specifici, attribuendo a tali conclusioni un grado di conferma probatoria che si determina in funzione del criterio impiegato per formulare l’inferenza» (Taruffo, M., Considerazioni, cit., 1165 ss., il quale si richiama al concetto di conferma induttiva, su cui v. l’ampia analisi di Cohen, L.J., The Probable and the Provable, Oxford, 1977, 29 ss.). Fermo il richiamo generale all’induzione, si può mettere in luce che studi di epistemologia e di filosofia della scienza hanno distinto dal ragionamento induttivo generale gli strumenti logici rappresentati da inferenze ampliative che prendono l'avvio da un processo di costruzione di ipotesi esplicative, formulate partendo da elementi noti, sulla base dei quali il soggetto conoscente pone in essere un ragionamento inferenziale di tipo ampliativo, nel senso che la conclusione del ragionamento non è inclusa nelle premesse di partenza e aggiunge nuovo contenuto rispetto a queste (senza pretesa di completezza, si v. Lipton, P., Inference to the Best Explanation, London, 2004, passim; Thagard, P., Evaluating Explana tions in Law, Science, and Everyday Life, in Current Directions in Psychological Science, 15, 2006, 141 ss.; Id., The Best Explanation: Criteria for Theory Choice, in Journal of Philosophy, 75, 1978, 76 ss.; Tuzet, G., La prima inferenza. L'abduzione di C.S. Peirce fra scienza e diritto, Torino, 2006, passim; Magnani, L., Abduction, Reason and Science. Process of Discovery and Explanation, New York-Boston-Dordrecht-London-Moscow, 2001). La distinzione emerge chiaramente nelle parole di Carcaterra, il quale osserva che mentre per l’induzione «quello che è vero di alcuni (il campione) la generalizzazione lo estende a molti altri (la popolazione), nell’abduzione da certi dati (gli indizi) si risale a qualcosa (l’ipotesi) che, invece, non è un ampliamento numerico di quei dati: è un quid neppure necessariamente omogeneo con i dati, che può essere, e spesso è, di natura ontologicamente diversa da quella dei dati stessi e di cui possiamo avere un genere di esperienza differente e per di più un’idea talvolta appena intuitiva» (Carcaterra, G., Indizi di norme, in Sociologia dir., 2002, fasc. 3, 123 ss.). Per la configurazione che le caratterizza, le inferenze che sono alla base del ragionamento presuntivo sembrano prestarsi a essere altresì analizzate secondo lo schema logico dell’abduzione, il quale riesce a mettere in luce le connotazioni ampliative della conoscenza proprie del ragionamento presuntivo, che consentono di sviluppare la ricerca/costruzione di ipotesi in funzione dell'accertamento di fatti non conosciuti.
Sotto un secondo profilo, ha grande importanza il valore conoscitivo delle nozioni che il giudice adotta come criteri per la formulazione del ragionamento presuntivo: ciò fornisce un criterio generale di razionalità che permette la valutazione dei risultati che le inferenze producono, dato che possono venire in considerazione valori conoscitivi molto diversi. In particolare, il riferimento è ai parametri che vengono utilizzati per creare la correlazione inferenziale fatto ignoto-fatto ignorato, all’esito della quale si potrà eventualmente dire che l’ipotesi-conclusione è stata confermata. Il problema, in realtà, è generale, in quanto, nella teoria delle prove, una delle questioni più importanti riguarda la determinazione delle fonti di questi criteri e la valutazione della loro attendibilità (su questi temi, si vedano, anche per riferimenti, Taruffo, M., Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 551 ss.; Id., Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Id., Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 121 ss.: Twining, W.L., Rethinking Evidence. Exploratory Essays, II ed., Cambridge, 2006, 335 ss., 338). In proposito va rilevato che il novero delle nozioni che forniscono i criteri in base ai quali il giudice formula le inferenze probatorie, sia che si tratti di valutare l’esito delle prove, sia che si tratti di inferenze a carattere presuntivo è molto ampio e ricomprendere parametri che possono avere un valore conoscitivo molto diverso (Gonzáles Lagier, D., Quaestio facti. Ensayos sobre prueba, causalidad y acción, Lima-Bogotá, 2005, 56, 61 ss.; Taruffo, M., La prova nel processo civile, cit., 216 ss., 220 ss.). Come ha rilevato la dottrina, è possibile che tali nozioni corrispondano a leggi scientifiche di carattere universale, trasposte in formulazioni espresse nel linguaggio corrente. Ad esempio, che un corpo lasciato cadere dall'alto cada verso il basso, ovvero che la temperatura di ebollizione dell'acqua sia di 100° sono eventi che si ricavano anche dall’esperienza, pur costituendo fenomeni che corrispondono a precise leggi fisiche e chimiche formulate in termini universali. Se il giudice utilizza tali nozioni per fondare un ragionamento presuntivo, ricorre a una regola generale e l’inferenza che viene formulata sulla base di essa produce una conclusione dotata del carattere della certezza deduttiva. Tuttavia, molto più frequente è l'ipotesi per cui i criteri dei quali il giudice si avvale sono costituiti da regole generali non universali, ma caratterizzate da un alto livello di probabilità, confermato da un elevato grado di frequenza statistica. Se la legge che permette di collegare il fatto noto al fatto ignorato descrive un fenomeno che si produce nel 95% dei casi, allora la conclusione dell'inferenza è altamente attendibile e può avere un carattere di certezza pratica. Le situazioni descritte in precedenza godono di una “situazione conoscitiva” ottimale ma non sono molto frequenti. Molto spesso i giudici che valutano le prove o compiono ragionamenti presuntivi ricorrono a nozioni del senso comune: esse, come ha messo in evidenza la dottrina, si fondano su mere generalizzazioni che esprimono l’id quod plerumque accidit, ossia quella che appare essere la “normalità” di determinati accadimenti o comportamenti, ma non hanno carattere universale né quasi-universale e, pertanto, conferiscono un limitato grado di conferma alle conclusioni che ne vengono derivate (Taruffo, M., La prova nel processo civile, cit., 216 ss., 220 ss. in argomento, si v. in particolare Schauer, F., Profiles, Probabilities and Stereotypes, Cambridge, Mass.-London, 2003, 7, 10, 55, 108, 131). In realtà, il giudice fa ricorso, in questi casi, a semplici criteri tratti dalla esperienza comune, che corrispondono a generalizzazioni spurie, ossia a pseudo-regole, non dotate di reale carattere conoscitivo e basate su giudizi e opinioni diffusi in un certo contesto sociale in un determinato momento storico. Una ragionamento inferenziale basato su criteri come questi potrebbe benissimo condurrebbe a conclusioni del tutto errate, ovvero prive di un minimo grado di conferma accettabile (su questi caratteri, presenti nella maggior parte delle massime d’esperienza comunemente utilizzate anche in ambito giudiziario, si v. Twining, W.L., op. cit., 310, 338, 443; Taruffo, M., Senso comune, cit., 132). Come le singole prove che si riferiscono ad una ipotesi vanno comparate sul piano dei valori conoscitivi che integrano il livello di conferma, così anche le presunzioni devono essere impiegate ponendo massima attenzione ai criteri che costituiscono il fondamento del ragionamento presuntivo: come è già emerso in relazione al requisito della gravità, solo in ipotesi del tutto eccezionali e piuttosto rare il criterio che attribuisce fondamento alla presunzione è costituito da una legge universale, in grado di attribuire all’inferenza presuntiva un grado di gravità equivalente alla certezza deduttiva della conclusione.
La controllabilità circa la tenuta e la correttezza del ragionamento presuntivo svolto dal giudice si realizza attraverso la motivazione della sentenza. Pertanto, la garanzia generale di razionalità della decisione che si fonda su argomenti di prova, così come su presunzioni semplici, è rappresentata – come accade per la valutazione dell’efficacia di tutte le prove – da una motivazione del giudizio che permetta di ricostruire in modo adeguato il complesso delle ragioni e delle giustificazioni che fondano la decisione del giudice (per tutti, Taruffo, M., La semplice verità, cit., 237 ss.). La costante giurisprudenza è nel senso che l’impiego che il giudice fa della sua prudenza in materia di presunzioni non sia censurabile in Cassazione, purché la decisione del giudice appaia congruamente motivata (ex multis, cfr. Cass., 22.1.2009, n. 1632; Cass., 26.11.2008, n. 28224; Cass., 18.8.2007, n. 17628; Cass., 11.5.2007, n. 10847; Cass., 20.7.2006, n. 16728; Cass., 23.1.2006, n. 1216; Cass., 10.1.2006, n. 154).
Nell’ambito del ragionamento presuntivo si può verificare il caso per cui il fatto noto, che si assume come premessa di un’inferenza presuntiva, è noto perché la conferma dell’enunciato che lo riguarda deriva a sua volta da un’inferenza presuntiva: ossia, il fatto noto è tale perchè deriva, a sua volta, da un’altra presunzione (su questi profili, v. Taruffo, M., Considerazioni, cit., 1165 ss.). A questo riguardo, vale la regola espressa dal brocardo praesumptum de praesumpto non admittitur: in altri termini, sono tradizionalmente escluse le “presunzioni di secondo grado”, in quanto il ricorso alle presunzioni semplici deve essere limitato ai casi nei quali la premessa del ragionamento inferenziale, il fatto noto, è provato sulla base di evidenze probatorie non costituite da presunzioni, ovvero cade direttamente sotto la percezione del giudice (cfr. su questo argomento Scalamogna, M., L’efficacia probatoria degli argomenti di prova, in Riv. dir. proc. 2009, 1165 ss., ove anche numerosi indicazioni di dottrina e di giurisprudenza; v. inoltre Comoglio, L.P., op. cit., 656 ss.). La ratio della regola – che vale a livello interpretativo – è piuttosto evidente, in quanto tende ad evitare che la prova del fatto ignorato si fondi su un cumulo di inferenze presuntive, ciò che renderebbe “a tenuta non sufficiente” la presunzione finale relativa al fatto ignorato, rendendola non idonea a dare fondamento probatorio di tale fatto.
Tuttavia, sul piano logico, non sempre in una concatenazione di ragionamenti inferenziali l'ultima inferenza è necessariamente più debole della precedente; pertanto, la regola tradizionale può essere messa in discussione. Partendo da queste premesse, la dottrina ha osservato che nel caso della cd. “presunzioni di secondo grado” vi è una successione lineare di ragionamenti inferenziali, la conclusione di ciascuno dei quali costituisce la premessa dell’inferenza successiva. Il controllo circa i requisiti di precisione e gravità deve avvenire in corrispondenza di ciascun segmento della successione. In altri termini, in relazione ad ogni singola inferenza il giudice deve stabilire se il fatto noto è in grado di attribuire – facendo ricorso a idonei criteri di inferenza - un grado adeguato di attendibilità al fatto ignorato. Se il giudice conduce in questo modo il ragionamento inferenziale complesso, il fatto ignorato diventa noto in quanto la verità dell’enunciato che lo descrive è confermata sulla base della presunzione derivante da un altro fatto noto. Ovviamente, la mancanza dei requisiti di gravità o di precisione in relazione ad una sola inferenza è sufficiente per escludere la validità dell’intero ragionamento. Se questa eventualità non si verifica, e, quindi, come ha rilevato la dottrina, se ogni anello della catena ha una forza sufficiente, la catena giunge ad una conclusione finale che risulta sorretta da un adeguato grado di conferma, ossia dal grado di conferma che caratterizza l’ultima delle inferenze concatenate: il che porta ad escludere, a priori, la fondatezza logica della regola praesumptum de praesumpto non admittitur (Taruffo, M., Considerazioni, cit., 1165 ss.).
Artt. 2727-2729 c.c.; 116 c.p.c.
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