Abstract
La voce offre una panoramica sistematica dell'elemento temporale nelle dinamiche di attuazione del prelievo tributario, evidenziando come l'ordinamento prescriva sia termini di adempimento degli obblighi sia termini di decadenza e prescrizione per l'esercizio dei diritti. Si esaminano, quindi, i tratti essenziali della disciplina dei termini di esercizio dei diritti e le conseguenze del mancato rispetto di essi.
Il concorso alle pubbliche spese si attua tramite una serie di rapporti giuridici i quali conducono conclusivamente a decrementi della sfera patrimoniale degli amministrati e correlativi incrementi della sfera patrimoniale degli enti pubblici. Al di là delle diverse ricostruzioni dottrinarie circa gli effetti (dichiarativi o costitutivi) degli atti richiesti al fine di permettere la realizzazione di tale concorso, può dirsi esservi sostanziale convergenza sul fatto che i rapporti giuridici sottesi a siffatte modificazioni patrimoniali abbiano ad oggetto prestazioni pecuniarie (o equiparate) generalmente riconducibili in ultimo allo schema del rapporto obbligatorio: correlativamente, primo punto di riferimento della regolamentazione non può che essere la disciplina generale di esso che, in Italia, è contenuta nel codice civile. Tuttavia, la complessità legata al fatto che l'entità delle suddette prestazioni è predeterminata dal diritto e deve corrispondere a specifici principi costituzionali (in particolare, quello di capacità contributiva), insieme con la particolare rilevanza degli interessi sottesi a tali rapporti, rendono evidente come a fronte di rapporti obbligatori rilevanti ai fini del riparto delle pubbliche spese (e, in particolare, di rapporti obbligatori di carattere tributario) la disciplina generale del rapporto obbligatorio subisca innumerevoli varianti, deroghe e complicazioni rispetto allo schema generale codicistico. Ciò fa sì che, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. già Cass., S.U., 22.6.1991, n. 7053, in materia di rapporti di solidarietà nel diritto tributario) e condiviso dalla dottrina prevalente, la disciplina dei rapporti obbligatori tributari sia il frutto della combinazione di norme speciali tributarie con regole e principi generali civilistici, nel senso che, in mancanza di normative speciali e derogatorie, tornano applicabili le regole codicistiche e che, pur in presenza di normative speciali e derogatorie, i criteri di coordinamento e applicazione di esse si rinvengono nei principi generali ispiranti a livello codicistico la disciplina del rapporto obbligatorio.
In questo contesto, è noto che tra le norme che informano la disciplina dei rapporti obbligatori vi sono quelli attinenti al versante temporale, le quali si traducono nella possibile presenza di termini per l'adempimento degli obblighi e nel possibile venir meno dei diritti per decorso del tempo (a sua volta legato al sistema della prescrizione e, in alcuni casi, anche a quello della decadenza).
Tale versante viene, naturalmente, in rilievo anche per i rapporti tributari: numerosissime sono, in tema, le regole speciali, ma ampi spazi residuano altresì all'applicazione dei principi generali civilistici. Le norme speciali in materia, per derogare al codice civile, devono avere almeno pari rango legislativo: e ciò a prescindere da ogni considerazione circa la ricomprensione di esse (che pur va affermata) nella riserva di cui all'art. 23 Cost. Tali norme speciali sono tradizionalmente ispirate al criterio – legato al principio di buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 Cost. – di ottenere rapidamente giuridica certezza in ordine alla verifica se si sia o meno realizzata in capo a un amministrato una fattispecie cui si collega un obbligo di concorso alle pubbliche spese e, in caso positivo, in ordine alla determinazione della misura delle prestazioni dovute in base al diritto in relazione alla fattispecie concretamente verificatasi. Dalla combinazione di tale criterio con l'ovvia esigenza per cui le prestazioni pecuniarie accertate come dovute abbiano effettivamente luogo in tempi definiti scaturiscono, generalmente, le norme speciali tributarie e le soluzioni ermeneutiche in materia di elemento temporale dei rapporti tributari, sia con riferimento ai termini di adempimento degli obblighi che ai termini di esercizio dei diritti in cui si traducono i rapporti tributari. Le diverse ricostruzioni dottrinarie in ordine agli effetti dichiarativi o costitutivi degli atti funzionali all'attuazione del prelievo non incidono sensibilmente sul funzionamento del sistema di prescrizione e decadenza nel diritto tributario che si viene a illustrare.
(i) L'esigenza che le prestazioni pecuniarie accertate come dovute abbiano effettivamente luogo in tempi definiti fa sì, anzitutto, che nelle singole leggi d'imposta siano contenute regole specifiche circa i termini entro i quali i pagamenti debbano avvenire. Il mancato adempimento dell'obbligo entro il termine non fa venir meno l'interesse dell'ente creditore a ottenere la prestazione (il cui adempimento, anzi, può essere ottenuto in via coattiva), ma comporta l'applicazione di maggiorazioni consistenti in interessi e, generalmente, l’irrogazione di sanzioni quanto meno pari al 30% dell'importo che avrebbe dovuto versarsi (art. 13 del d.lgs. 18.12.1997, n. 471).
(ii) Inoltre, pressoché tutte le leggi d'imposta stabiliscono termini entro i quali l'amministrato debba adempiere a obblighi di facere (come, ad esempio, quello di presentazione della dichiarazione) che assumono un ruolo «strumentale» rispetto a quelli essenziali aventi ad oggetto le prestazioni pecuniarie in cui si sostanzia il concorso alle pubbliche spese, ma che rispondono all'esigenza di ottenere rapidamente giuridica certezza in ordine alla esatta definizione della misura di tale concorso. Il mancato adempimento dell'obbligo strumentale entro il termine fa generalmente venir meno l'interesse dell'ente creditore a ottenere specificamente la prestazione di facere considerata, poiché il legislatore stabilisce meccanismi alternativi appositi in forza dei quali l'amministrazione può comunque acquisire o ritenere acquisite le informazioni necessarie. Naturalmente, il mancato adempimento entro il termine comporta altresì l'applicazione di regimi giuridici sfavorevoli all'inadempiente in relazione alla determinazione del risultato per il quale l'obbligo strumentale era stato previsto (es., possibilità di accertamento d'ufficio emettibile in tempi più ampi, modalità super-induttive di determinazione del dovuto, inasprimento della cornice edittale sanzionatoria) e, in molti casi, di apposite sanzioni.
(iii) In alcuni casi, poi, le leggi d'imposta pongono termini per l'adempimento di obblighi anche a carico dell'amministrazione (si pensi all'obbligo di erogare un rimborso entro un certo termine o all'obbligo di rispondere alle istanze di interpello entro novanta o centoventi giorni): analoghe risultano, a soggetti invertiti rispetto a quanto sopra detto, le conseguenze in caso di mancato rispetto degli obblighi stessi, fermo restando che il ritardo dell'amministrazione nell'adempimento di obblighi a oggetto pecuniario non comporta l'applicazione di sanzioni amministrative ma solamente di interessi.
L'esigenza di ottenere rapidamente giuridica certezza in ordine alla esatta definizione della misura del concorso cui è chiamato l'amministrato fa sì che il legislatore tributario ponga generalmente a carico di chi intende far valere un diritto, ma in certi casi anche di chi intende contestare l’altrui pretesa di diritto, l'onere di compiere una data attività entro un termine generalmente più breve di quello di prescrizione del diritto stesso, secondo il meccanismo della decadenza.
(i) In particolare, pressoché tutte le leggi d'imposta prevedono termini di decadenza entro i quali l'amministrazione possa esternare una pretesa creditoria di somme maggiori o diversamente qualificate rispetto a quelle determinate e versate spontaneamente dagli amministrati in virtù dei meccanismi di cui al precedente § 2.1, laddove l'amministrazione ritenga che la prestazione pecuniaria dovuta in base al diritto nella fattispecie concretamente verificatasi avrebbe dovuto essere superiore o diversamente qualificata rispetto a quella autodichiarata, autoliquidata e spontaneamente versata dal contribuente.
La Corte costituzionale, con sentenza 15.7.2005, n. 280, ha ritenuto generalmente obbligatoria la previsione da parte del legislatore di termini di decadenza, più brevi di quelli di prescrizione, posti a carico dell'amministrazione che intenda far valere nei confronti del contribuente una pretesa di natura tributaria. Per questa via, la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 25 del d.P.R. 29.9.1973, n. 602 che, al tempo, non prevedeva termini decadenziali per certi casi di notifica della cartella di pagamento.
(ii) Analogamente, laddove il contribuente commetta un errore di autoliquidazione ovvero laddove alla fattispecie prevista dal diritto come occasione di concorso alle pubbliche spese faccia fronte una pluralità di rapporti obbligatori (es. obblighi di pagamento di acconti, rapporti di sostituzione tributaria e simili), può verificarsi che i decrementi patrimoniali in concreto realizzati in capo al contribuente siano eccedenti rispetto a quelli richiesti in base alla legge e che, pertanto, insorga un diritto alla restituzione di quanto pagato in eccesso: anche in tali casi le leggi d'imposta prevedono generalmente termini di decadenza entro i quali il diritto al rimborso debba essere esercitato (sulle possibili diverse modalità con cui ciò può avvenire cfr. infra, § 3).
In taluni casi, poi, la disciplina stabilisce che la sede appropriata per far valere da parte del contribuente il suddetto diritto alla restituzione (o diritti potestativi, come ad esempio quelli all'esercizio di opzioni) debba coincidere con la sede di adempimento di un obbligo di natura strumentale come la presentazione della dichiarazione (cfr. il precedente § 2.1., punto ii): in tali ipotesi, il termine per l'adempimento dell'obbligo strumentale di facere assume la valenza anche di termine di decadenza per l'esercizio di diritti connessi.
(iii) Nella maggior parte dei casi, infine, il legislatore pone termini decadenziali anche per contestare le pretese esternate dal creditore. Quando si tratta di pretese avanzate dal contribuente, ciò generalmente non avviene: in particolare, stabilire un meccanismo di questo tipo a fronte di istanze di rimborso aprirebbe le porte alla formazione del cd. silenzio assenso che, invece, il legislatore attualmente esclude in questo settore. Per converso, laddove ricorra l’ipotesi in cui la pretesa del contribuente debba essere manifestata in occasione dell’adempimento di un obbligo strumentale, il termine di decadenza previsto affinché l’amministrazione possa vantare una pretesa maggiore (cfr. ultimo periodo del precedente punto ii di questo paragrafo) dovrebbe fungere di fatto anche da termine di decadenza per contestare la suddetta pretesa creditoria avanzata dal contribuente, con la conseguenza che essa dovrebbe divenire in linea di principio incontestabile decorso il termine senza interventi dell’amministrazione: la giurisprudenza, tuttavia, opina diversamente sulla base di una discutibile applicazione pro fisco del principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum (Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5069). Invece, quando si tratta di pretese esternate dall’amministrazione, la contestazione è sempre sottoposta a termine di decadenza di sessanta giorni (art. 21 d.lgs. 31.12.1992, n. 546), escludendosi da tale principio soltanto le esternazioni creditorie erariali che non corrispondano alle tipologie che il legislatore considera idonee a far insorgere l’immediato interesse alla contestazione (art. 19 d.lgs. n. 546/1992). In mancanza di tempestiva contestazione, la pretesa che l’amministrazione ha vantato non può più esser posta in discussione. Naturalmente, poi, una volta instauratosi il meccanismo di contestazione giudiziale, nel processo sono previsti a carico di tutte le parti del giudizio molteplici termini di decadenza per il compimento di attività processuali, cui si applicano i principi generali del processo civile e le norme speciali del d.lgs. n. 546/1992.
Concentrando, adesso, l’attenzione sui termini di decadenza per l’esercizio di un diritto, e quindi su quelli di cui ai precedenti punti (i) e (ii) di questo paragrafo, il principio generale è quello per cui, laddove entro il termine di decadenza non sia compiuta l'attività prevista dall'ordinamento, il diritto vantato non potrà più esser fatto valere, né se si tratti di diritto vantato dall'amministrazione (i), né se si tratti di diritto vantato dal contribuente (ii). Correlativamente, una volta trascorso il lasso di tempo coincidente con il termine di decadenza per l’esercizio del diritto non potranno essere compiute azioni idonee a porre il preteso debitore in una posizione peggiore di quella in cui si trovava al momento della scadenza di tale termine. Pertanto, laddove l'ordinamento preveda che l'esternazione della pretesa da parte del creditore debba essere compiuta secondo determinate procedure, modalità e forme, e laddove in un caso concreto l'atto di esternazione che il creditore ha effettuato entro il termine di decadenza non abbia soddisfatto tali requisiti, i vizi di esso non possono essere sanati decorso il periodo di tempo coincidente con il termine di decadenza. Ciò a meno che l'ordinamento preveda eccezionalmente una espressa «riapertura» del termine stesso per la specifica finalità di sanatoria, come avveniva con l'oggi abrogato art. 21 d.P.R. 26.10.1972, n. 636 a seguito delle modifiche del 1981. Da ciò consegue, con particolare riguardo agli atti dell'amministrazione, che dopo la scadenza del termine di decadenza di cui al punto (i) non potranno operare, neppure in sede giudiziale (e salva ovviamente l'intervenuta definitività della pretesa per mancata contestazione entro il termine di cui al punto iii), meccanismi lato sensu di «sanatoria» i quali presuppongano più o meno implicitamente la possibilità di emettere nuovamente un atto di contenuto analogo ma emendato dal vizio formale o procedimentale. Non potrà, ad esempio e a tacer d'altro, operare il meccanismo dell'art. 21 octies, co. 2, l. 7.8.1990, n. 241, né potrà considerarsi sanato l'eventuale vizio di notifica tramite la proposizione del ricorso (Cass., S.U., 5.10.2004, n. 19854).
La sottoposizione della maggior parte dei diritti di credito di natura tributaria a termini di decadenza non toglie, ovviamente, l'operatività con riferimento agli stessi anche del termine di prescrizione. Per cui, una volta compiuta tempestivamente l'attività prevista al fine di impedire la decadenza, il diritto del creditore non si eterna neppure se si tratta di un diritto di natura pubblicistica come quelli facenti capo all'amministrazione finanziaria (che, come tali, non sono mai stati considerati «indisponibili» ai sensi dell'art. 2934 c.c.), ma si estingue (o comunque ne è precluso l'esercizio) una volta decorso senza interruzioni il lasso di tempo coincidente con il termine di prescrizione del diritto stesso.
Il tema è studiato con particolare riguardo ai diritti di credito aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria, visto che per le posizioni giuridiche attive a fronte di obblighi di facere (cfr. supra, § 2.1, lett. ii e iii) esso presenta scarso rilievo pratico (a tacere del problema della qualificabilità o meno di tali posizioni come diritti di credito) alla luce degli speciali meccanismi di carattere legislativo che sterilizzano l'utilità dell'adempimento in forma specifica. Tranne casi particolari, peraltro, della prescrizione le leggi speciali tributarie non si occupano specificamente neppure con riferimento ai diritti a contenuto pecuniario, per cui il regime applicabile risulta essenzialmente mutuato dai principi generali civilistici, secondo quanto si illustrerà infra, § 4.
Essendo, come detto, i termini di decadenza previsti dal legislatore tributario funzionali a ottenere più rapidamente certezza in ordine alla esatta definizione della misura del concorso cui è chiamato l'amministrato in relazione a un determinato presupposto, dovrebbe conseguire una tendenziale coincidenza della durata di essi quando posti a carico dell'amministrazione e quando posti a carico del contribuente. Infatti, se la modificazione patrimoniale realizzata non corrisponde a quella effettivamente richiesta in base alla legge, il ristabilimento della corretta situazione dovrebbe essere garantito in pari modo tanto quando la non corrispondenza consista in una modificazione minore del dovuto quanto laddove consista in una modificazione maggiore. I termini di rimborso di cui al punto (ii) del precedente § 2.2, pertanto, dovrebbero coincidere con i termini per l'accertamento, che rientrano in quei termini posti carico dell'amministrazione di cui al punto (i) del medesimo paragrafo. In realtà, pur essendo stati fatti notevoli passi avanti nella normativa (si pensi all'ampliamento dei termini di cui all’art. 38 d.P.R. n. 602/1973), non sempre le previsioni legislative rispettano tale criterio e in ciò potrebbe rinvenirsi un profilo di incostituzionalità delle stesse per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione. Non è richiesto, invece, che, laddove i trasferimenti eccedenti rispetto al dovuto derivino da un errore commesso in sede di adempimento di obblighi strumentali di facere (in particolare, da errori in dichiarazione), siano riaperti i termini per compiere l'attività strumentale (e sia consentita, in particolare, la presentazione di una nuova dichiarazione cd. «integrativa»). Peraltro, laddove il legislatore nella sua discrezionalità preveda tale possibilità, come attualmente avviene (cfr. art. 2, co. 8, d.P.R. 22.8.1998, n. 322), deve comunque essere consentito all'amministrazione un termine congruo per il controllo della nuova situazione (ciò deriva dal principio fissato, in via generale, da Cass., S.U., 21.11.2000, n. 1196): ciò fa sì che, specie laddove il termine riaperto venga approssimativamente a coincidere con i termini decadenziali di cui al punto (i) del precedente § 2.2, il legislatore deve ragionevolmente concedere all'amministrazione un termine più ampio per esternare una eventuale pretesa creditoria maggiore relativamente agli aspetti oggetto dell'integrazione (cfr., sul punto, l'art. 1, co. 640, lett. b, l. 23.12.2014, n. 190).
Concentrando, adesso, l'attenzione proprio sui termini posti a carico dell'amministrazione per manifestare una pretesa creditoria di somme maggiori o diversamente qualificate rispetto a quelle determinate e versate spontaneamente dagli amministrati (cfr. supra, § 2.2, punto i), è possibile osservare come generalmente il legislatore preveda con riferimento al medesimo presupposto impositivo una pluralità di termini, che si modulano:
(i) a seconda della fase in cui l'inadempimento del contribuente avviene: in particolare, sono previsti termini appositi e diversi per vantare somme maggiori o diversamente qualificate rispetto a quelle autodeterminate come dovute dal contribuente (fase di accertamento) e per vantare somme maggiori di quelle spontaneamente versate (fase di riscossione), con la logica previsione del collegamento tra i due termini nelle ipotesi in cui la seconda segua la prima (art. 25 del d.P.R. n. 602/1973);
(ii) a seconda della tipologia di inadempimento dell'obbligo in cui il contribuente è incorso: in particolare, sono previsti in generale termini più ampi quando l’inadempimento dell’obbligo strumentale di cui al punto (ii) del § 2.1 sia integrale rispetto al caso in cui l’inadempimento sia soltanto parziale (es., art. 43 d.P.R. 29.9.1973, n. 600, che diversifica il termine di accertamento in caso di omessa dichiarazione e di infedele dichiarazione);
(iii) eventualmente, a seconda della gravità dell’inadempimento: si richiama, in proposito e ad esempio, la disciplina prevista dall'art. 37, co. 24 e 25, d.l. 4.7.2006, n. 223, conv. con mod. dalla l. 4.8.2006, n. 248 in tema di termini raddoppiati in presenza di inadempimenti costituenti presupposto anche di responsabilità penale, che è stata riconosciuta legittima dalla Corte costituzionale (C. cost., 25.7.2011, n. 247) ma che innumerevoli problemi esegetici ha causato tanto da indurre il legislatore ad eliminarla (art. 1, co. 132, l. 28.12.2015, n. 208), con efficacia che – contrariamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza – dovrebbe considerarsi retroattiva.
Sul piano dei principi generali, i termini decadenziali rispondono alla disciplina degli artt. 2964-2969 c.c. e 252 disp. att. c.c. Ciò vale anche per i termini di decadenza fissati per l'amministrazione e anche laddove gli interventi di essa nell'attuazione del tributo siano ricostruiti quali vicende di esercizio di poteri autoritativi: infatti, quanto meno la diffusa concezione della decadenza quale preclusione all'esercizio di un diritto ben si attaglia all'applicazione della relativa disciplina a vicende di diritti potestativi e poteri.
In virtù di ciò sarà, dunque, consentita la sospensione della decorrenza o la proroga dei termini decadenziali nei casi specificamente previsti da leggi speciali (si pensi alle ipotesi di riconoscimento del mancato funzionamento degli Uffici o ad alcune fattispecie legate a vicende condonistiche, da interpretare in senso restrittivo, come precisato da Cass., S.U., 22.9.2016, n. 18574 anche in relazione all’art. 3, co. 3, dello statuto dei diritti del contribuente, mentre non sarà consentita l’interruzione. Al riguardo, è bene osservare come la regola di cui all’art. 1310 c.c., per cui in caso di rapporto di solidarietà tra debitori gli atti del creditore idonei a interrompere la prescrizione nei confronti di uno dei condebitori valgono a interromperla nei confronti di tutti, non è per definizione applicabile ai termini di decadenza. Deve escludersi, quindi, l’operatività di meccanismi che a essa si ispirano con riferimento ai termini di decadenza nei rapporti di solidarietà tributaria. Pertanto, salva la ricorrenza di apposite previsioni di legge che deroghino al disposto dell’art. 2964 c.c. (come potrebbe essere, in ipotesi, l'art. 20, co. 2, d.lgs. 18.12.1997, n. 472), devono essere rigettate quelle tesi – per quanto sostenute dalla Cassazione (ma cfr. di recente, correttamente, Cass., 13.12.2017, n. 29845) – per cui il compimento da parte dell’amministrazione dell’atto impeditivo della decadenza (ad esempio, notifica di una cartella di pagamento) nei confronti di un solo condebitore in solido valga a ritenere impedita la decadenza anche con riferimento ai rapporti tributari relativi agli altri condebitori.
Nell'applicazione del regime civilistico della prescrizione ai crediti tributari, tre sono i principali problemi che si sono posti.
Il primo attiene all’individuazione del momento da cui il termine prescrizionale inizia a decorrere. La questione, di possibile interesse teorico se collegata alla ricostruzione (dichiarativa o costitutiva) delle attività attuative del tributo, ha tuttavia un rilievo operativo limitato. Invero, essendo nella larga maggioranza dei casi previsti termini di decadenza più brevi di quelli di prescrizione, e considerato che gli adempimenti richiesti per impedire la decadenza sono generalmente idonei altresì a impedire la prescrizione in base ai principi dell'art. 2943 c.c., una volta impedita la decadenza il termine di prescrizione è interrotto e, come tale, comincia a correre ex novo ex art. 2945 c.c., iniziando dal momento in cui il credito divenga inoppugnabile e quindi esigibile ex art. 2935 c.c. (Cass., 8.9.2004, n. 18110) e non correndo durante tutta l'eventuale pendenza del processo che riguardi il credito stesso ex art. 2945 c.c. (nonché in altri casi specifici, come quello contemplato dall'art. 21, co. 2, d.lgs. 10.3.2000, n. 74). Così, quando il diritto di credito pertiene all'amministrazione ed essa compia tempestivamente l'attività impeditiva della decadenza, essa disporrà di un tempo pari al termine prescrizionale per riscuotere il proprio credito che non venga pagato spontaneamente (salva, naturalmente, la presenza di ulteriori termini di decadenza da rispettare per i successivi segmenti procedimentali). Quando, invece, il diritto di credito pertiene al contribuente ed esso richieda tempestivamente il rimborso, egli disporrà di un tempo pari al termine prescrizionale (che, in caso di rimborso richiesto tramite istanza amministrativa, inizia a decorrere dopo novanta giorni dalla richiesta ex art. 2935 c.c. e art. 21, co. 2, d.lgs. n. 546/1992, mentre in caso di richiesta in dichiarazione decorre fin dalla presentazione di essa, come precisato da Cass., S.U., 7.2.2007, n. 2687) per adire il giudice al fine di ottenere la condanna dell'amministrazione al pagamento che non sia avvenuto spontaneamente (salva, naturalmente, l'emanazione da parte dell'amministrazione di un atto di diniego espresso cui, come tale, si applica il termine di impugnazione di cui all'art. 21, co. 1 del d.lgs. n. 546/1992).
Il secondo problema concerne la durata del termine prescrizionale dei crediti tributari. A fronte di disposizioni speciali operative in alcuni ambiti (cfr., ad esempio, l'art. 20 d.lgs. n. 472/1997 o l'art. 5, co. 51, d.l. 30.12.1982, n. 953, conv. con mod. dalla l. 28.2.1983, n. 53, che individuano rispettivamente in cinque e tre anni il termine prescrizionale del credito per le sanzioni amministrative tributarie e per la tassa automobilistica), la questione si è posta essenzialmente per i tributi cd. «periodici». Per essi, contrariamente a quanto da più parti sostenuto, la giurisprudenza ha costantemente escluso l'operatività della prescrizione breve quinquennale di cui all'art. 2948, co. 1, n. 4, c.c., affermando la durata decennale del termine (cfr., per tutte, Cass., 15.1.2014, n. 701).
Il terzo problema riguarda l'assimilabilità o meno dell'atto amministrativo mediante il quale il credito è vantato, una volta divenuto definitivo per mancata impugnazione nei termini di cui al punto (iii) del precedente § 2.2, alla sentenza passata giudicato, con conseguente idoneità dello stesso a trasformare in decennale ex art. 2953 c.c. il termine di prescrizione di durata inferiore previsto dalle singole leggi d'imposta. Tale assimilabilità, spesso sostenuta dall'amministrazione, è stata recisamente e giustamente esclusa dalla giurisprudenza (Cass., S.U., 17.11.2016, n. 23397 e Cass., S.U., 10.12.2009, n. 25790).
Come si è detto, la maturazione di una decadenza o di una prescrizione estingue il credito interessato dal termine (o, comunque, preclude l'azionabilità del diritto o del potere a esso sottoposto). Peraltro, nella materia tributaria, l'operatività di tale effetto estintivo (o preclusivo) del credito (o del potere) deve coordinarsi con il sistema di decadenze di cui al punto (iii) del precedente § 2.2 che interessa gli atti mediante i quali il credito stesso è fatto valere (o il potere esercitato): da tale coordinamento risulta ben possibile che la mancata tempestiva contestazione della maturazione di una decadenza o di una prescrizione precluda la giuridica valorizzazione degli effetti di essa e, pertanto, consenta di porre un credito decaduto o prescritto a base di azioni anche coattive per ottenerne il pagamento.
In particolare, quando il credito decaduto o prescritto è vantato dall'amministrazione finanziaria tramite un atto riconducibile a quelli di cui all'art. 19 d.lgs. n. 546/1992, il principio per cui tutte le antigiuridicità della pretesa fiscale devono tradursi in specifici motivi di ricorso introduttivo del giudizio non trova deroghe per quella specifica antigiuridicità costituita dalla tardività e fa sì che quest'ultima non possa in generale esser fatta valere se non viene contestata con apposito e tempestivo motivo di ricorso di parte contribuente. Rispettato tale principio processuale, peraltro, l'antigiuridicità costituita da decadenza o prescrizione determina sempre l'inefficacia della pretesa e non può essere considerata sanabile o comunque superabile, perché essa è strutturalmente idonea a incidere sugli effetti degli atti compiuti e per definizione non è emendabile (siccome il decorso lineare del tempo rende impossibile la riemanazione tempestiva dell'atto).
Per converso, quando la tardività riguarda il vanto di un credito da parte del contribuente, e in particolare la presentazione di istanza amministrativa di rimborso oltre i termini previsti dalla legge (e riconducibili a una delle ipotesi di termini di cui al punto ii del precedente § 2.2), la giurisprudenza suole affermare che le decadenze a carico del contribuente siano rilevabili anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento ex art. 2969 c.c. e, pertanto, anche quando non eccepite dall'amministrazione nei termini di cui all'art. 23 d.lgs. n. 546/1992 (per tutte, Cass., 25.1.2008, n.1605). Tale orientamento, peraltro, non merita condivisione poiché, a prescindere da ogni discussione circa l'indisponibilità o meno della materia, siffatte decadenze sostanziali non danno luogo a improponibilità dell'azione in senso tecnico e, pertanto, non rientrano nella ipotesi di rilevabilità d'ufficio di cui all'ultimo articolo del codice civile.
Fonti normative
Artt. 2934-2969 c.c.; art. 25 d.P.R. 29.9.1973, n. 602; art. 21 d.lgs. 31.12.1992, n. 546; art. 20 d.lgs. 18.12.1997, n. 472; singole leggi d’imposta.
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