Politici ed economisti del primo Settecento – Introduzione
Per comprendere appieno il significato e la portata delle proposte che emergono da questa antologia è necessario richiamare sia pur brevemente le condizioni della società cui, almeno nella maggior parte, questi intellettuali reagirono e si contrapposero. Dobbiamo ritornare per un momento ai problemi che caratterizzarono la realtà italiana all’interno della crisi del XVII secolo.1 Anche se esiste una certa divergenza di opinioni fra gli storici sul momento culminante di essa (comunque da collocarsi fra gli anni Venti e Quaranta), appare comunque certo che le conseguenze si protrassero a lungo, continuando a caratterizzare l’economia e lo stesso sviluppo sociale nei primi decenni del XVIII secolo.2 Un primo elemento da evidenziare: la progressiva diminuzione dell’attività industriale-artigianale, soprattutto nel settore tessile. È un discorso che non riguarda solo le zone che producevano principalmente materie prime (lana e seta grezze), e che non avevano mai avuto una fiorente struttura produttiva di pezze lavorate, come il Meridione, ma anche la Toscana, Venezia e la Lombardia.3 La decadenza delle arti della seta e della lana in quest’ultima regione era ancora un dato da cui partiva il giovane Pietro Verri negli anni Cinquanta del Settecento.4 Alla crisi delle attività produttive (e quindi alla perdita di prestigio dei gruppi sociali legati a tali attività) aveva corrisposto in quasi tutta Italia il ritorno alla terra, che è per esempio così evidente in Lombardia e nel Veneto. In quest’ultima regione il patriziato cittadino della Dominante si era impadronito tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento di oltre la metà della Terraferma. Non si trattava però di una scelta che fosse in grado di spostare verso la terra capitali ed energie nuove. Quasi sempre era piuttosto un tipo di investimenti parallelo a quello, distorto e tipico di un’economia malata, rivolto agli arrendamenti e agli appalti in genere.5 Nessun cambiamento produttivo. Semmai si aggravavano le condizioni dei contadini che pagavano anche questa fase subendo un maggiore sfruttamento. Erano evidenti nelle campagne italiane i segni di una degradazione delle strutture produttive, dove alla ricomposizione dei latifondi corrispondevano – puntuali – l’arretramento del seminativo a favore del pascolo, il dominio dell’agricoltura estensiva, le conseguenze di una ricerca di rendita senza impiego di capitali. Un altro dato aveva caratterizzato la società italiana tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo: la crescita delle forze centrifughe all’interno degli stati. È un dato abbastanza paradossale. Nella misura in cui si rafforza e diventa assoluto, lo stato della Controriforma subisce una contemporanea perdita di identità rispetto al potere della Chiesa e soprattutto delle aristocrazie locali. Esiste – parallelo – anche un altro processo sociale che si manifesta nella progressiva emarginazione dei ceti professionali. Ne è insieme sintomo e causa l’accentuarsi della pratica della venalità delle cariche,6 che si diffonde in quasi tutti gli stati italiani, determinando un reclutamento del personale politico in cui la competenza – o meglio la cultura professionale quale si poteva acquisire nelle facoltà di legge – non è più un requisito rilevante. Ma la crisi che colpisce le università italiane va ben oltre le facoltà giuridiche. Investe in realtà contemporaneamente arti, medicina e teologia.7 Stati e Chiesa impediscono di organizzare come in passato quella ricerca e quella libera trasmissione del sapere che erano stati l’antico orgoglio dell’università. Non a caso nei settori universitari dominati dalla necessità di rispondere anche ai problemi delle libere professioni (la preparazione di avvocati e di medici) erano emersi – altrettanto soffocanti – i poteri corporativi dei collegi professionali. Questo non poteva non avere un drammatico riflesso sugli intellettuali, che perdevano ogni autonomia e capacità di intervenire con un ruolo autonomo e critico sulla realtà. Non a caso il Seicento era stato il secolo delle accademie, gli spazi fittizi dove gli intellettuali nascondevano la loro perdita di prestigio con le forme morte di una democrazia ludica e mistificante.8 La Controriforma aveva spento progressivamente ogni creatività, se non altro nell’àmbito della ricerca scientifica, e di conseguenza interrotto ogni comunicazione con quell’Europa che aveva prodotto il pensiero di Bacone, Cartesio, Gassendi e Spinoza e si preparava a mettere in circolazione quello di Locke, Leibniz e Newton. L’Italia, che pur aveva avuto Galileo, era rimasta sostanzialmente estranea alla cultura della rivoluzione scientifica.
Nella seconda metà del Seicento c’erano stati i segni di una ripresa, anche se il quadro economico di fondo non sembra essere molto mutato. Prima di tutto gli stati. Il modello assolutistico di Luigi XIV non fu affatto una meteora isolata. Trovò una serie di corrispondenze e di coincidenze anche negli spazi italiani. Basti pensare al Mezzogiorno. La rivolta di Masaniello aveva rappresentato un trauma troppo forte perché lo stato spagnolo non ripensasse ai suoi modi di amministrare. È vero che nello schiacciare la rivolta popolare la feudalità più potente si era rivelata una forza risolutiva,9 ma fu altrettanto facile per i governanti spagnoli capire che l’aumento di potere dell’aristocrazia era stato a sua volta una causa determinante della rivolta.10 Così progressivamente lo stato aveva cominciato a prendere le distanze e a cercare di controllare le forze centrifughe. Si tratta di un processo lento, ma significativo.11 Se rispetto alla Chiesa la risposta fu quella di rispolverare un più fermo atteggiamento giurisdizionalistico, nei confronti della feudalità lo stato spagnolo nel Meridione compì una scelta più complessa. La base di reclutamento del personale politico, infatti, venne allargata ai ceti professionali, in particolare agli avvocati, l’avanguardia di quel «ceto civile» che si stava affermando come gruppo intermedio fra aristocrazia e plebe nelle città e particolarmente a Napoli. La grande cultura giuridica del Seicento (da Grozio a Pufendorf) forniva a questo personale togato un’ideologia complessa in cui al diritto feudale e comunque alla preminenza del diritto privato si contrapponeva uno spazio sempre più allargato del diritto pubblico.12 A questa nuova prospettiva corrispondeva una diversa concezione giurisdizionalistica, non più appoggiata al tradizionale regalismo, all’idea che il sovrano avesse diritti sulla Chiesa nazionale in quanto sacerdote.13 Si affermava piuttosto il concetto ben più moderno che lo stato dovesse difendere le proprie giurisdizioni in nome della sua natura pubblica, per assicurare la felicità dei suoi soggetti. Tale apertura significava un ben più profondo e autonomo senso di responsabilità dei funzionari nei confronti dei diritti dello stato, un minor timore delle rappresaglie ecclesiastiche. Il fenomeno non era soltanto legato alle condizioni particolari del Mezzogiorno, dove la crescita dei «togati» nella seconda metà del Seicento aveva un notevole legame con la vivacità della cultura locale e una traduzione immediata non solo nella letteratura, ma perfino nella pittura, dove è possibile trovare nobili che omaggiano – con ruoli ormai del tutto rovesciati rispetto alla tradizione – giudici e avvocati.14 In realtà – per fare un altro esempio – dopo una lunga crisi politica, istituzionale e sociale che coincise con le guerre civili e la prima Reggenza, anche il Piemonte conobbe nella seconda metà del Seicento il tentativo di rinnovamento di Carlo Emanuele II.15 Assolutismo in politica e mercantilismo in economia saranno del resto le linee direttrici delle riforme realizzate nel primo Settecento da Vittorio Amedeo II. C’è una profonda interazione fra questa ripresa dello stato – di cui Luigi XIV e il colbertismo erano in qualche modo i prototipi giganteschi e ossessivi – e la volontà degli intellettuali di avere un ruolo nuovo. Per fare un esempio, non è un caso che a Napoli uno dei protagonisti dell’ascesa del ceto civile, Francesco D’Andrea,16 maestro della generazione di Vico, ma soprattutto di Giannone e Grimaldi, sia stato uno dei primi funzionari ad orientare le proprie scelte politiche in senso «antifeudale». Contemporaneamente si mosse da protagonista nella vita intellettuale napoletana come membro dell’Accademia degli Investiganti, punto di riferimento dei «moderni» contro gli «antiqui», al centro di quell’operazione culturale che tentava di rinnovare la tradizione naturalistica meridionale alla luce del cartesianesimo, dell’atomismo, dello sperimentalismo.17 Grazie al lavoro di Nicola Badaloni18 è ormai storicamente acquisito che Napoli ebbe un originale approccio con la cultura europea. Non si trattò semplicemente di un aggiornamento provocato da uomini come Tommaso Cornelio, Leonardo Di Capua, Francesco D’Andrea, i quali, secondo una tradizione fissata esemplarmente da Benedetto Croce, avrebbero portato a Napoli i risultati della cultura europea e in particolare il cartesianesimo. Si trattò piuttosto di un’operazione creativa – di cui oggi si vanno riscoprendo meglio i tratti attraverso lo studio di tutte le principali figure, delle loro opere e dei carteggi – in cui l’epistemologia cartesiana venne rivissuta alla luce della grande tradizione naturalistica meridionale, che aveva mantenuto una sua continuità, da Telesio, a Bruno, a Campanella, a Della Porta. Così il pensiero di Cartesio e Gassendi e perfino quello – destinato a diffondersi meno apertamente – di Spinoza, non davano luogo a banali epitomi, ad aggiornamenti, ma a qualcosa di nuovo e complessivo, come fu appunto l’Accademia degli Investiganti. E del resto qualcosa di analogo avvenne anche a Firenze, dove la ripresa del dialogo con l’Europa fu vissuta utilizzando l’altro punto di riferimento essenziale della cultura italiana: la lezione galileiana, se pure con una prudente accentuazione dello sperimentalismo e delle osservazioni naturali, rispetto al discorso dell’anticipazione matematica, che era indubbiamente la parte più feconda del metodo scientifico di Galileo che aveva consentito la rifondazione della fisica moderna. Accademia del Cimento: un decennio di lavoro all’ombra dei Medici, un gruppo che si sciolse appena non ebbe più l’appoggio di un potere distratto da altri interessi, che accettò di lavorare umilmente all’interno di un’epistemologia galileiana impoverita della parte più inquietante. Eppure, che lezione per l’Europa! La Royal Society e l’Académie des Sciences, che dovevano nascere poco prima della sua chiusura, non potevano non farvi riferimento – dopo i Lincei – come al precedente più illustre. Per qualche decennio la cultura italiana fu tuttavia in qualche modo dominata dalla diaspora dei membri del Cimento, o meglio dal dialogo fra ex Investiganti ed ex membri del Cimento. Sono tutte componenti che si ritrovano negli ultimi decenni del Seicento a Roma nell’ambiente che in qualche modo rappresenta la crisi della cultura controriformistica come modello autonomo, autosufficiente e separato: l’ambiente scientifico del Collegio Romano, impiegato a catturare – ad maiorem Dei gloriam – tutte le innovazioni compreso l’atomismo, nonché le accademie di monsignor Ciampini, dai Fisiocritici a quella sui Concili, agli inizi dell’Arcadia.19
Tra gli elementi di questa fase della cultura italiana, oltre a questa organizzazione accademica (Cimento e Investiganti) con tutte le sue componenti essenziali, tra cui l’eredità galileiana, si sviluppa il discorso – complesso e ambiguo – dell’identificazione di una res publica europea delle lettere di cui l’Italia è ormai a buon diritto parte integrante. Dietro quest’ideologia universalistica un po’ fittizia in realtà giocano processi molto importanti e contraddittori, comunque carichi di futuro. Per esempio, il fatto che non debbano più esistere barriere di religione, che le culture differenti abbiano tuttavia un fondo comune, così come gli intellettuali un diritto comune e universale di comunicare. Ma questo discorso era inscindibile dall’assunzione di una certa libertas philosophandi che poneva gli intellettuali italiani in attesa di messaggi come quello di Leibniz e di Locke (un cristianesimo come religione tollerante, ragionevole e universalistica). Basta prendere i diari di viaggio di protestanti famosi che percorsero l’Italia in quegli anni, per cogliere appieno il senso d’intimità e di profondità che ebbe il loro colloquio a Firenze, a Napoli, talvolta nella stessa Roma.20 Non a caso si definisce in questi decenni – tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento – un nuovo tipo di intellettuale, esemplare non per quello che scrisse, ma perché seppe costruire mediante questo dialogo con l’Europa almeno due istituzioni: la biblioteca e l’epistolario scientifico informativo. È il caso di Antonio Magliabechi,21 la cui creatività è tutta trasferita nelle relazioni, nella sua funzione di mediatore, in questo suo essere inquietante crocevia dei primi passi di quasi tutte le grandi opere europee del tempo. Come hanno notato gli storici che da qualche tempo stanno occupandosi di Magliabechi e ultimamente Alphonse Dupront,22 il suo epistolario è il più proteso verso l’Europa, certamente di più che non lo stesso gigantesco sforzo di relazioni epistolari di Lodovico Antonio Muratori. La ragione sta certamente nel fatto che tutta la creatività del bibliotecario fiorentino si concentrò nel riportare l’Europa in Italia, mentre per esempio l’abate modenese fu più interessato a organizzare la cultura italiana.
Più direttamente creativo del Magliabechi, ma con una funzione in qualche modo simile, fu l’avvocato ed ex mercante Giuseppe Valletta,23 la cui biblioteca privata, ammirata da Gilbert Burnet e Jean Mabillon, fu lo strumento grazie al quale si formarono uomini come Giambattista Vico e Pietro Giannone. E gli epistolari non rimasero soli a testimoniare questa ormai complessa organizzazione della cultura. Accanto ad essi – e capaci di trasformare una comunicazione privata in pubblica – cominciarono ad emergere i giornali eruditi.24 Fin dalla prima esperienza italiana, quella di monsignor Ciampini e di Francesco Nazari, appare evidente il ruolo della comunicazione di esperienze accanto a quello della segnalazione di libri. I modelli erano le «Philosophical Transactions» e il «Journal des sçavants», talvolta riprodotti meccanicamente, ma con l’ambizione complessiva di esserne il corrispettivo italiano. A ben leggere il periodico di Benedetto Bacchini,25 che riprendeva l’eredità di quelli romani, si vede come esso fosse tutto costruito – per quanto riguarda le informazioni sull’Europa – sul materiale fornito da bibliotecari dialoganti con gli eruditi europei, da Gaudenzio Roberti, responsabile della Palatina di Parma e in realtà rivelatosi inferiore alle sue promesse, ad Antonio Magliabechi che forniva al Bacchini copie della sua corrispondenza perché alcuni lavori in progetto a Parigi, a Londra o ad Amsterdam fossero conosciuti anche in Italia.
Se l’obiettivo era quello di dar vita a una repubblica dei letterati italiani, a fine secolo la geografia della cultura aveva ormai confini abbastanza definiti. Roma era in qualche modo l’unica città internazionale della società italiana, anche sul piano culturale, tanto che i fermenti di rinnovamento destinati a mettere in crisi la cultura separata della Controriforma erano partiti dall’ambiente curiale romano. All’opposto – laica e patrizia – c’era Venezia, che difendeva da oltre un secolo la sua precoce rottura con la Controriforma. Era un mercato di libri europeo, favorito da una censura di stato particolarmente tollerante (con quel particolare tipo di merce che era il libro). Venezia era inoltre una grande produttrice di libri, pur se, almeno fino alla seconda metà del Settecento, gran parte della produzione libraria locale era destinata al circuito devozionale. I tentativi seicenteschi – spesso abbastanza maldestri – di trasferire a Venezia un periodico per letterati, nascevano in fondo dalla consapevolezza che la città della laguna fosse l’unica antagonista possibile di Roma. Né bisogna dimenticare quale grande ruolo culturale aveva avuto Padova nei secoli precedenti come città universitaria, né in quale misura, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, fosse sentita l’esigenza di reagire alla decadenza di quella prestigiosa istituzione. Altro polo della cultura italiana in questo suo faticoso rinnovamento erano Firenze e Pisa con la loro tradizione galileiana, l’erudizione, l’antiquaria, l’editoria, le accademie, l’università. Nella repubblica delle lettere entrava poi Napoli, da quando c’erano stati gli Investiganti, e anche le città dell’Italia centrale legate a piccole corti, come Modena e Parma (i luoghi dove operava il Bacchini) e Bologna, dove agivano la tradizione dell’università e la diocesi, spesso collegate in un’unica volontà di rinnovamento della cultura e della vita religiosa. Un’Italia prevalentemente centrale, se si escludono Napoli e Venezia, che taglia fuori il Piemonte e perfino la Lombardia; dunque una fragile cultura di città e di corti tradizionalmente separate dai loro entroterra. Non è un caso che tutti gli intellettuali meridionali siano per esempio detti napoletani anche se la loro nascita era avvenuta in provincia. Si sottolineava così il fatto che effettivamente la loro scelta di intellettuali si compiva quasi esclusivamente nella capitale. La presenza della Chiesa e delle corti o delle loro istituzioni, scuole, università, accademie, aveva un peso determinante, con la sola eccezione di Venezia e Padova.
Ancora a questo mondo il giovane allievo di Benedetto Bacchini guardava da Modena, quando nel 1703 scrisse i Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia sotto lo pseudonimo di Lamindo Pritanio.26 Si tratta di un’opera importante, ma ambigua, che non a caso nasceva sotto un segno ideologico incerto e in qualche modo adattabile a diverse soluzioni. Muratori riprendeva i temi del De graecae linguae usu et praestantia ma dilatandoli notevolmente e sviluppando quanto era solo implicito nell’epistola rivolta dieci anni prima a Gilberto Borromeo. Nel 1693 il giovanissimo Muratori aveva còlto soprattutto le carenze dell’erudizione italiana, collegandole alla divisione territoriale e alla mancanza di una politica culturale simile a quella di Luigi XIV. Egli aveva sottolineato così l’inferiorità italiana, collocandola ancora in un contesto che è tipico della cultura controriformistica. Solo la Francia gli era apparsa in grado di difendere la religione cattolica contro l’offensiva protestante, armata com’era di ottimi strumenti eruditi. Ben più complesso suonava il discorso del 1703. Prima di tutto il terreno si allargava dall’erudizione e dalla filologia classica al concetto settecentesco di letteratura come cultura (erudizione, ma anche arti e scienze). Inoltre egli faceva riferimento a un trentennio di ripresa, dopo la lunga crisi che era seguita al fulgore rinascimentale: «Dobbiamo nulla di meno rallegrarci con esso noi, che da xxx anni in qua una sì perniziosa influenza sia in parte cessata, essendosi riscossi dal sonno primiero non pochi ingegni d’Italia e crescendo di giorno in giorno l’ottimo gusto e l’amor della fatica in essi. Ma questo vie più crescerà, ove s’impadronisca del nostro cuore un virtuoso disio di gloria; ove ci stia davanti agli occhi il profitto o della chiesa, o proprio, o de’ posteri, la riputazion dell’Italia, la beatitudine di chi si consacra allo studio […]».27 Ciò che è da notare in questo passo è che il Muratori non solo non offriva più una giustificazione di tipo controversistico, ma allineava più volte sullo stesso piano diverse motivazioni dell’impegno culturale: dal servizio alla Chiesa, alla reputazione della patria, all’affermazione individuale. Non è il caso di seguire minutamente il Muratori in questo primo e importante tentativo di dar vita a un’organizzazione unitaria degli intellettuali italiani. Occorre invece notare che esso corrisponde a quella geografia della cultura precedentemente delineata e che, quindi, taglia ancora fuori il barbaro e militaresco Piemonte. Non solo: in questa fase di prima ricognizione della cultura italiana e delle sue possibilità di rinnovamento, il Muratori era consapevole che l’unico centro capace di egemonia non poteva non essere la Roma di Clemente XI. Segno ideologico per lo meno incerto, per non dire ambiguo, soprattutto se si pensa che l’uomo che scriveva questa proposta era destinato a diventare pochi anni dopo il campione del neo-ghibellinismo. In realtà non a caso il Muratori giocò questa carta con un complesso pseudonimo: Lamindo Pritanio, a sua volta anagramma di Antonio Lampridi, falso nome con cui aveva carteggiato con Bernardo Trevisan, l’intellettuale veneziano che si incaricherà dell’edizione dell’opera. Del resto, anche il ruolo di quest’ultimo fin dall’inizio fu complesso, dal momento che la sua intenzione era quella di spostare su Venezia l’asse della nuova repubblica letteraria. Il gioco continuò – coperto e pieno di reciproche ambiguità – fino alla fondazione del «Giornale de’ letterati d’Italia».28 Questo periodico non a caso si rifaceva alla lezione del Muratori, dai Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia alle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (l’opera pubblicata a Venezia fra il 1708 e il 1715), tracciando la prima ampia storia del dibattito seguito alla proposta muratoriana e del conseguente tentativo di organizzazione della cultura italiana, del quale si riconosceva figlio. Di esso, fra l’altro, ripropone gli stessi limiti, come può risultare dal fatto che il Muratori presente nel giornale sarà solo quello che si è già detto (cioè l’erudito e l’organizzatore) e non il campione dei diritti dello stato. Il giornale di Apostolo Zeno, di Scipione Maffei e di Antonio Vallisnieri nasceva quindi sotto il segno di una non piccola contraddizione: pensando di non poter fare a meno di Roma per mantenere l’unità dei letterati italiani, era costretto a censurare la cultura giurisdizionalistica e «civile», che era pur una delle esperienze più feconde e rinnovatrici della società italiana.
Ma sarà necessario, per approfondire meglio tutte le articolazioni di questo complesso momento culturale, rifarsi alla realtà politica onde cogliere nelle sue valenze analitiche e dialettiche il significato di un cambiamento che finiva per coincidere con la svolta del secolo. Il fatto nuovo è rappresentato dalle vicende internazionali nelle quali anche l’Italia fu coinvolta attraverso un radicale mutamento dei suoi equilibri politici e della sua funzione nel contesto europeo.29 Per duecento anni, infatti, lo spazio italiano era stato affidato alla Spagna e nessuna potenza aveva mai dubitato del suo diritto dinastico a governare gran parte del paese. La lenta agonia di Carlo II senza eredi aveva messo in moto una serie di complesse ambizioni. In questa sede non è tanto la ragion diplomatica, con le sue tortuose evoluzioni, a interessarci, quanto le conseguenze che le vicende della grande politica internazionale ebbero sulla società italiana. Prima di tutto il nuovo assetto internazionale significò un nuovo ruolo per il Piemonte sabaudo. Non a caso – mentre Muratori ignora ancora, nel 1703, lo stato piemontese – le riforme avvenute in Piemonte occuperanno diverse pagine delle sue opere successive, fino al Della pubblica felicità. Il Piemonte era destinato per un cinquantennio ad essere il più dinamico stato italiano, sia in politica estera che in politica interna. In secondo luogo si affacciavano sul territorio italiano nuove strategie politiche, da quella dei Borbone di Spagna e Francia a quella asburgica. Cominciava a crescere e ad acquistare rilievo l’interesse per la penisola italiana da parte dell’Inghilterra, che si esprimeva non soltanto nel costante appoggio al Piemonte, ma anche nella vivace presenza commerciale a Livorno e in tutti i porti italiani del Tirreno e dello stesso Adriatico. Cosa significava tutto questo per gli intellettuali italiani che per un momento si erano identificati nel programma di unione muratoriano? Per prima cosa occorreva prendere atto e cercare di inserirsi nei mutamenti istituzionali che avrebbero agito a livelli più profondi. Milano e Napoli, diventate austriache, si dovevano ora confrontare con strategie politiche più complesse e attive rispetto a quelle cui la Spagna aveva dato vita in passato nei propri domìni. Immediatamente tutti i gruppi sociali si trovavano di fronte alla necessità di fare delle scelte. Per esempio, a Napoli gli aristocratici si mossero a favore degli Asburgo fin dal 1701, con la congiura di Macchia, tentando di coinvolgere la plebe in questo tentativo di rivolta che avrebbe dovuto favorire il passaggio del Mezzogiorno all’Austria. Il ceto civile e i suoi esponenti politici, i togati, si erano stretti, in funzione antinobiliare, al nuovo governo borbonico. Com’è noto, da questo episodio nacquero diverse riflessioni, fra cui la Principum neapolitanorum coniuratio di Giambattista Vico,30 che doveva essere il racconto «ufficiale» della vicenda e che rappresentava così bene – com’è stato più volte notato – il punto di vista di un «blocco» storico che andava dal ceto civile alla nobiltà fuori seggio o mezzana, collegato al governo, contro le sopraffazioni della feudalità provinciale e le cieche violenze della plebe. Come risposta, uno dei capi aristocratici della congiura, Tiberio Carafa, delineò pochi anni dopo un vero e proprio programma nobiliare, offerto a Carlo d’Asburgo, dove fra l’altro emergeva l’idea di uno stato «nazionale», contrapposto cioè al viceregno degli Spagnoli e dei Borbone. Il testo di Alessandro Riccardi era a sua volta il tentativo del ceto civile – a conquista austriaca avvenuta – di delineare un programma flessibile e aperto per la collaborazione con i nuovi sovrani. Le riforme erano inserite in un contesto che cercava di assorbire tutte le richieste, comprese quelle più ragionevoli dell’aristocrazia, fra cui l’idea dello stato nazionale. Il terreno d’incontro proposto era quello del rinnovamento economico dello stato; i mezzi suggeriti erano mercantilismo e giurisdizionalismo. Per quanto riguarda il primo termine non c’erano grandi novità teoriche e Riccardi semplicemente rifletteva sulle esperienze europee e cercava di riproporle anche per il Meridione. I riferimenti erano naturalmente la Francia di Colbert e l’Olanda dei mercanti. Più complesso era certamente il terreno giurisdizionalistico, che veniva collegato in questo tipo di scritture, destinate a farsi ben presto fittissime, al rilancio economico del paese quale obiettivo da perseguire con indubbio vantaggio per lo stato e per tutti i ceti.
Occorre subito dire che non si può ridurre tale discorso giurisdizionalistico a mera tecnica operativa o mera prassi politica. O meglio, accanto a molti esempi di scritture di routine, spesso composte da uomini di grande levatura intellettuale, come per esempio Serafino Biscardi o lo stesso Gaetano Argento, le pagine del Riccardi rivelavano un’insolita passione religiosa e politica.31 Indicavano una strada che qualche decennio più tardi sarà percorsa dal Giannone. Erano il segno – fra l’altro – di una nuova fortuna di Machiavelli. L’ormai esplicito riferimento allo scrittore fiorentino da parte di questa generazione di intellettuali era il segno che in una società come quella italiana, dove per qualche anno si erano aperte possibilità di cambiamento non solo di dinastie, ma anche di istituzioni e di meccanismi politici, molti ricominciavano a leggere Machiavelli liberandosi dagli schemi controriformistici. Fra gli altri, schermendosene e citandolo poco, lo lesse con particolare attenzione il Muratori, che si stava preparando a diventare il campione di un giurisdizionalismo fermo e moderato, oltre che uno dei maggiori rappresentanti della storiografia «civile» del Settecento. Lo leggerà intensamente anche il Giannone, prendendolo a modello anche stilistico nella composizione dell’Istoria civile.32
Perché questa svolta giurisdizionalistica, e quale peso ebbe effettivamente sulla cultura italiana del primo Settecento? Il discorso non si esaurisce in rapporto ad alcuni grandi personaggi che si sono già nominati, come Muratori e Giannone. Bisogna far riferimento ai principali conflitti che esplosero in Italia fra la Chiesa e gli stati a cominciare dalla guerra di successione spagnola. Alessandro Riccardi non si rivolgeva a caso in termini così appassionati e incisivi agli Asburgo. Il contrasto fra gli Austriaci e il papato aveva avuto come precedenti l’occupazione di Comacchio, l’attraversamento del territorio pontificio, la conquista armata del Mezzogiorno, che la Chiesa si ostinava a considerare suo feudo. Questo momento di tensione aveva coinvolto giurisdizionalisti imperiali e teorici italiani. Muratori, per esempio, era stato incaricato dal proprio sovrano, alleato con gli Austriaci, di confutare le ragioni pontificie. Da questo complesso incontro di motivazioni immediate e ragioni più profonde nacque quell’esperienza che può essere definita neoghibellinismo e che naturalmente accomuna ipotesi e strategie diverse, e tuttavia in qualche modo amalgamate, in questi anni, dal fatto di ricollegarsi tutte alla nuova presenza imperiale in Italia.33 In questo contesto, in cui le esigenze meridionali si collocavano sull’onda di un clima internazionale nel cui àmbito qualcuno cominciava a mettere in discussione la stessa ragione di uno stato temporale, si inseriva l’offensiva napoletana, della quale quest’antologia offre pagine molto famose, documentando la posizione di almeno due protagonisti, il Riccardi e il Grimaldi. Poco dopo, mentre stava chiudendosi la guerra di successione spagnola, lo scontro si rinnovava in Sicilia, nei pochi anni della dominazione piemontese.34 A provocarlo, esasperando un episodio insignificante quanto il pugno di lupini che ne fu la causa, fu l’intransigenza della Chiesa di Clemente XI, alla ricerca di una rivincita contro un sovrano il cui stato non appariva ancora consolidato, appena emerso al prestigio del titolo reale e che sembrava incapace di essere veramente minaccioso. Ma il Piemonte di Vittorio Amedeo II, se non era attrezzato teoricamente come Napoli per un conflitto del genere, poteva contare sulla energia assolutistica e demiurgica del suo sovrano e sulla concorde volontà della classe dirigente, in particolare gli avvocati-burocrati di cui Guido Quazza35 ha delineato efficaci profili. Quanto agli intellettuali necessari per tale battaglia, Vittorio Amedeo II seppe trovarli nel clero e tra quei siciliani che si erano stretti intorno a questo nuovo sovrano che sembrava dare qualche speranza di rinnovamento. Al conflitto di Lipari e per la Legazia di Sicilia partecipò tutta l’Europa degli stati, appoggiando le energiche misure del sovrano piemontese. Un celebre «gallicano», Louis Ellies Du Pin, della Sorbona, fu sollecitato a scrivere in difesa dei diritti della monarchia di Sicilia. E se pur destinato a perdere l’isola, Vittorio Amedeo II finì col diventare un esempio di traduzione politica coerente delle teorie giurisdizionalistiche. Aveva espulso preti, vescovi e frati disubbidienti, rinnovando quasi radicalmente il volto della chiesa siciliana e affidando le responsabilità civili e giudiziarie a uomini che non avevano temuto le sanzioni ecclesiastiche. Ma, e ciò ebbe di fatto il maggior peso, Vittorio Amedeo II aveva preso spunto da tale iniziativa per rinnovare l’asfittica cultura dell’università piemontese proprio alla luce delle tradizioni giurisdizionalistiche e gallicane. Si era affidato per tale operazione non tanto ai suoi bravi epperò pragmatici avvocati-burocrati, ma ad alcuni intellettuali siciliani che avevano seguito con passione il conflitto della monarchia di Sicilia. Fra questi Francesco d’Aguirre fu certamente la personalità più interessante. Nel 171736 presentò al sovrano un progetto di rinnovamento dell’università di Torino, che diventò la base della successiva legislazione sull’ateneo piemontese. Si tratta di un testo che, nonostante tutti i limiti che si possono rilevare, regge bene il confronto con un altro progetto chiesto dal sovrano piemontese al marchese Scipione Maffei. In realtà questi aveva inviato a Torino un testo preparato qualche anno prima per la riforma dell’università di Padova e destinato a rimanere sulla carta.37 La differenza era profonda: Maffei lo aveva elaborato in piena libertà e senza i condizionamenti di alcuna realtà. Aveva potuto pensare meno vincolatamente all’insegnamento della storia della lingua italiana e di molte discipline sperimentali nel campo medico e delle arti. Il d’Aguirre, invece, si era mosso per fornire un modello culturale da lui medesimo eventualmente realizzabile in un preciso contesto storico. Si trattava di creare un’università efficiente sul piano della formazione professionale e «giurisdizionalista», sia pure con tutte le cautele tipiche del mondo piemontese. Figlio di un professore universitario, Diego, che aveva insegnato a Roma accanto al Gravina e che aveva partecipato alle riforme di Clemente XI, Francesco d’Aguirre era stato a sua volta allievo del Gravina, un frutto di quella Roma dove la cattedra del Calabrese era stata un punto di riferimento culturale nel senso più lato, come lezione non solo di diritto, ma anche di storia, di letteratura, di morale.388 Era la città dove Celestino Galiani39 – un personaggio che i lettori di quest’antologia incontreranno più volte per il ruolo che ebbe di responsabile della cultura in qualità di Cappellano Maggiore sotto gli ultimi Austriaci, ma soprattutto con Carlo III di Borbone – aveva trasformato il suo convento in un cenacolo di intellettuali che leggevano Locke e studiavano Newton. Ad essi si rivolse il d’Aguirre cercando di averli a Torino: inutilmente, dal momento che il Gravina morì e il Galiani non ottenne il permesso. Il d’Aguirre allora – che fra gli altri aveva consultato significativamente Costantino Grimaldi chiedendogli suggerimenti – 40 fece appello agli allievi di entrambi e riuscì così a raccogliere a Torino uomini come Domenico Bencini, Bernardo Lama, padre Giuseppe Roma e Agostino Campiani.41
Francesco d’Aguirre – come del resto lo stesso Celestino Galiani – è una delle assenze di maggior rilievo in questa antologia. È stato sacrificato perché in realtà la sua importanza di intellettuale e organizzatore della cultura è molto difficile da far emergere attraverso i non molti e occasionali scritti. Certo il suo profilo di intellettuale si raccoglie in un disegno molto coerente. E basti por mente come in lui trovassero equilibrata corrispondenza l’allievo del Gravina, il giurisdizionalista che scrisse contro l’interdetto in Sicilia (e poi una vera e propria storia della vicenda, rimasta manoscritta),42 e l’organizzatore dell’università di Vittorio Amedeo II, non solo capace di concepire un modello efficiente e realistico, ma di dargli corpo e sangue, facendolo vivere nel giro di pochi anni grazie all’apporto di uomini venuti dalle più diverse regioni dell’Italia e dalla Francia e stretti in quel compito da una volontà comune. L’obiettivo era svecchiare il Piemonte, sottrarlo al monopolio intellettuale dei Gesuiti (che qui non erano affatto all’avanguardia e si contentavano di una cultura di epigrafi, sonetti e recite scolastiche), ammettere nell’università appena aperta modelli di cultura professionale e scientifica moderni. Fu per alcuni anni uno scontro durissimo, che coinvolse quasi tutti i docenti stranieri. In questo scontro il d’Aguirre rappresentò la personalità più politica, quella più energica e di più complesse ambizioni. Difese la propria creazione fino al 1727, allorché in seguito al Concordato fra la Chiesa e il Piemonte, negoziato con spregiudicata abilità dall’Ormea, si convinse che non ci sarebbe stato più spazio per il suo giurisdizionalismo, trasferendo a quel punto i suoi servigi presso Carlo VI d’Austria. Impiegato nel Catasto lombardo,43 fu uno di quei funzionari non locali che si batterono per vincere le resistenze della nobiltà e del clero. Durante la guerra di successione polacca, diventato il custode dell’archivio del Catasto, non solo lo difese dalla dispersione, ma proseguì i lavori quasi da solo, consegnando infine alla Commissione presieduta da Pompeo Neri un materiale preziosissimo e meritandosi per questo il titolo di Conte da parte di Maria Teresa. Ma anche dopo la sua morte il suo messaggio giurisdizionalistico era destinato a sopravvivere. Nel 176344 era infatti apparso uno scritto anonimo sul diritto d’asilo che aveva fatto discutere i periodici italiani, sia per i contenuti sia per quanto riguardava l’attribuzione. Qualcuno pensò ai giurisdizionalisti toscani e in particolare a Pompeo Neri. In realtà – come non mancò di avvertire l’informatissimo Caminer – si trattava di un’opera del d’Aguirre, scritta almeno quarant’anni prima, quando era a servizio di casa Savoia.
Ritornando al Piemonte di Vittorio Amedeo II, c’è da osservare che il giurisdizionalismo cauto e pragmatico di questo stato non mutò profondamente neppure dopo il Concordato: anzi, come lo stesso d’Aguirre benché riluttante dovette riconoscere con il Muratori,45 nel 1729 il giurisdizionalismo di Vittorio Amedeo II fu ancora all’origine di un’altra impresa senza precedenti: la creazione di un sistema scolastico secondario che escludeva i Gesuiti; un esempio che negli anni Cinquanta sarà ripreso in Europa. Ma non era certo solo la scuola il terreno delle riforme di Vittorio Amedeo II,46 ed occorre ricordare tutto lo sforzo per limitare non solo la proprietà ecclesiastica, ma anche gli abusi feudali. Il sovrano piemontese si era mosso fulmineamente, chiedendo alla nobiltà di giustificare i titoli in base ai quali controllava i patrimoni in feudo. Aveva così potuto revocare allo stato centosessantasette feudi, quasi un quarto dell’universo feudale piemontese. Naturalmente non si trattò di una battaglia antifeudale nel senso che la parola assumerà nella seconda metà del Settecento e alle soglie della Rivoluzione, dal momento che il sovrano si affrettò a vendere i feudi così ricuperati. Questi furono acquistati in gran parte dagli avvocati-burocrati che ormai formavano la spina dorsale della classe dirigente. In realtà in questo modo il sovrano non solo affermava la sua autorità sulla vecchia aristocrazia, indebolendola economicamente e umiliandola politicamente, ma – dopo averla subordinata – la rinsanguava con l’immissione di energie e forze nuove. In questo disegno complessivo si inseriva anche tutta la politica per limitare i fìdecommessi, che inaugurava un tipo di intervento dello stato in questo delicato settore e che, ripresa da Muratori nel suo progetto di «pubblica felicità», costituirà un vero e proprio modello in Italia. Occorre ricordare infine la politica dei codici477 grazie alla quale Vittorio Amedeo II riuscì a realizzare con i suoi avvocati-burocrati, modesti ed efficienti, in pochi anni di lavoro, quello che non era riuscito alla grande tradizione giuridica meridionale, né sotto Filippo V, né sotto gli Austriaci (né, più tardi, sotto Carlo di Borbone). Nel 1723 – dopo poco più di un quinquennio di elaborazioni e di emendamenti – fu pubblicata la prima versione della nuova codificazione legislativa. Nel 1729 – nello stesso anno delle Costituzioni universitarie che prima facevano parte della raccolta di leggi generali e che ora venivano separate per la loro mole e specificità – le leggi piemontesi furono raccolte in una compilazione organica, in due volumi in francese e in italiano. Non si trattava di un’elaborazione originale, né di un testo particolarmente aperto sul piano giuridico. Indubbiamente però la tradizione e soprattutto le pratiche giudiziarie vi trovavano consolidazione e funzionalità, ovviando alle remore delle contraddizioni e dei sofismi. Muratori si riferì sempre all’esempio piemontese per quanto riguardava codici e scuola. Ma insistiamo sull’esempio piemontese: il volume si apre con il profilo di un intellettuale del Piemonte, Adalberto Radicati di Passerano, che sembra avere così poco in comune con il suo paese, che si sente estraneo e quasi prigioniero nella Torino di Vittorio Amedeo II, anche se in realtà il Piemonte è indispensabile per capire le scelte di Radicati e il suo riferimento – talvolta non privo di fraintendimenti e di speranze eccessive – alle riforme e al giurisdizionalismo sabaudi. È ciò che emerge dal bellissimo libro dedicatogli da Franco Venturi nel 1954 e che il nuovo profilo – e soprattutto le pagine qui offerte – confermano. Del resto il riferimento al Piemonte e al suo quadro politico e sociale è comune ad altri intellettuali presenti in questa antologia: da Paolo Mattia Doria a Marco Foscarini.
Lodovico Antonio Muratori488 è già emerso come un punto di riferimento essenziale nella cultura italiana. Lo è anche per gli intellettuali presentati in questo volume antologico. Quasi tutti furono corrispondenti del Muratori. Per alcuni, come Costantino Grimaldi e Giovanni Lami, l’incontro intellettuale con il Modenese divenne una componente fondamentale della loro scelta culturale. Naturalmente non si tratta solo del Muratori giurisdizionalista o dell’organizzatore di cultura o del grandissimo erudito, ma anche dell’uomo che volle offrire una sua visione del cristianesimo come «religione ragionevole», del moralista, dello studioso di problemi giuridici e soprattutto del politico. Il fascino complesso della personalità del Muratori sta proprio nella globalità della sua proposta, che investe, con un riformismo quasi sempre arricchito dalla poliedricità dei suoi interessi, i problemi del reale, muovendo da una sorta di razionalismo eclettico elevato a strumento epistemologico fin dalle Riflessioni sopra il buon gusto. L’intervento del Modenese non fu mai radicale, ma quasi sempre ragionevole e umano. Soprattutto offrì una soluzione coerente a una società che aveva ancora profondi legami con la Chiesa e con la religione cattolica. Si trattava di renderla illuminata e di farla cooperare alle riforme. Questo Muratori non si stancò di ripetere per decenni.
Una via diversa aveva indicato un altro uomo che è stato richiamato più volte: Pietro Giannone.49 Dalla Istoria civile al Triregno l’itinerario era stato quello di evitare le soluzioni di compromesso – quelle che erano invece irresistibilmente attraenti per il realistico Muratori – e cercare invece di allargare le ragioni del proprio giurisdizionalismo alla luce di una cultura europea ben più complessa e inquietante, specie di quella deistica, nelle sue sfumature più radicali e materialistiche. In questa scelta il Giannone, nonostante le differenze di ceto, ambiente, esperienze, si affianca al Radicati di Passerano, di cui spesso condivide problemi ed opinioni culturali. Entrambi tentarono di indicare – senza successo immediato – una via all’Illuminismo italiano diversa da quella muratoriana (o del cattolicesimo illuminato), una via di radicalismo religioso che si incontrava con le proposte materialistiche di John Toland e dei freethinkers e che sarebbe riemersa nel cuore dell’Illuminismo francese con Diderot e d’Holbach.
Un po’ meno presente – almeno rispetto al Muratori e forse anche al Giannone – è il riferimento a Giambattista Vico50 da parte degli autori raccolti in questa antologia. Certo è richiamato da scelte culturali che appaiono abbastanza analoghe, come quelle di Paolo Mattia Doria e soprattutto di Carlo Antonio Broggia: per esempio, la collocazione polemica rispetto ai «moderni», il rifiuto della filosofia cartesiana, un certo orgoglioso isolamento rispetto alle mode oltremontane che attraevano i giovani intellettuali, il culto del passato e dell’eredità umanistica e – infine – la polemica contro il nascente Illuminismo. Ma sono elementi esterni, non i «realia» del discorso vichiano, che da soli non bastano a farci parlare di un’influenza di Vico, o meglio di una sua incidenza determinante per quanto riguarda la parte più significativa e duratura del suo messaggio. Anche se l’incontro con Vico ebbe importanza per il Doria, questi, che era della stessa generazione, aveva scritto e pubblicato parte dei suoi lavori prima di qualsiasi contatto col pensiero del grande filosofo napoletano. Basta pensare alla Vita civile, che fin dal titolo richiama calchi umanistici, per capire come in Doria – nonostante le acute osservazioni di teoria politica o sul commercio – finisca col prevalere la difesa del passato, degli «antiqui», la polemica contro la circolazione di nuove idee filosofiche. Dietro il Cartesio che egli rifiutava non c’era soltanto Spinoza, ma anche Locke e Newton, che per esempio Celestino Galiani, destinato a diventare il responsabile della cultura universitaria a Napoli, cercava di far conoscere e studiare. Nel caso del Doria mi pare che si possa parlare piuttosto di analogia di posizioni con Vico, che non di influenza di quest’ultimo.51 Più complesso è invece il caso di Broggia, molto più giovane di entrambi (essendo nato nel 1698), e che effettivamente si sforzò di tradurre nel proprio campo, l’economia, tratti del discorso vichiano sulla storia.
In questo quadro abbastanza complesso, anche se necessariamente sommario, che si è qui cercato di delineare, non manca un evidente riflesso di quella che è stata la crisi economica tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta.52 Di essa ci sono alcuni sintomi riguardanti la libertà e la creatività degli intellettuali, che possono essere còlti, sia pure per riflessi minimi, anche nelle pagine antologizzate. Cominciava ad esaurirsi la stagione neo-ghibellina. I rapporti fra stati e Chiesa, che avevano dato vita a un dibattito così vivo, anche se esasperato, fino alla Istoria civile, erano stati imbrigliati attraverso estenuanti negoziazioni che toglievano slancio agli intellettuali. Muratori, ormai impegnato nella gigantesca impresa dei Rerum italicarum scriptores, faticava a ottenere la collaborazione di uno stato come il Piemonte, nonostante l’amicizia che aveva stretto con il più significativo organizzatore culturale e la stima personale del sovrano, che lo considerava – per le precedenti battaglie giurisdizionalistiche – la «miglior batteria contr’a’ preti». La guerra di successione polacca avrebbe ritardato ulteriormente il suo lavoro, come accennava sconsolatamente nelle sue lettere. Ma accanto a questi sintomi impalpabili e sfumati si manifestano altri segni ben più concreti. Il riformismo asburgico53 stava rivelando la sua impotenza a Napoli, dove i grandi progetti cominciavano ad essere accantonati, per mancanza di fondi, ma soprattutto di effettiva capacità politica. Vale la pena di accennarvi, perché essi ritorneranno, puntuali, nella stagione migliore di Carlo III di Borbone. Si tratta non solo delle proposte giurisdizionalistiche, ma di quelle economiche, dalla creazione di una Giunta di commercio alla ricompera degli arrendamenti, dalla ricostituzione di un patrimonio regio, gravemente compromesso dalle alienazioni precedenti a favore della nobiltà, alla creazione di una banca che potesse in qualche modo finanziare il rilancio economico del Meridione. Non si deve dimenticare che il progetto iniziale del Banco di San Carlo544 collegava in qualche modo tutti questi temi. Come è noto, il risultato fu ben diverso: il progetto subì continue alterazioni e adattamenti tanto da perdere lo slancio politico iniziale e far crescere sempre più nelle forze locali il sospetto che si trattasse di uno dei tanti espedienti economici per rastrellare soldi dalle tasche dei cittadini. L’involuzione non fu soltanto legata al fatto che a gestire questa politica era stato mandato un viceré filo-curiale come Althann, ma anche al fatto che le inevitabili resistenze locali di tipo tradizionale trovarono un terreno fecondo nelle incertezze di Vienna, nella perdita di slancio riformatore da parte degli Asburgo, ormai invischiati nei problemi che avrebbero portato, negli anni successivi, a due difficili guerre. Anche a Milano il progetto del Catasto si stava arenando contro le resistenze – che parevano invincibili – delle forze locali. Nello stesso Piemonte – dove le riforme c’erano state – la vicenda di Vittorio Amedeo II, imprigionato dal figlio e chiuso in fortezza, riportava alla luce i foschi tratti di un potere assoluto tragico e violento, che trovò un giornalista di eccezione, rivolto all’udienza dell’opinione pubblica europea, in Adalberto Radicati di Passerano. Inoltre era cominciato presto il disagio degli intellettuali che avevano condiviso le riforme scolastiche di Vittorio Amedeo II. Il Piemonte degli anni Trenta sembrava essere tornato quel paese «troppo delicato e misterioso», come lo aveva definito il Muratori, e Torino quella città piena di spie, come brutalmente e concisamente qualche anno prima aveva detto Montesquieu.55 L’arresto, la detenzione, l’abiura coatta del Giannone sono episodi fin troppo famosi ed emblematici per insistervi a lungo. Così la vicenda di Radicati. Ma il disagio degli intellettuali non era esclusivamente piemontese. Forse la stessa nevrosi di Alessandro Riccardi, che poco prima di morire si era sentito inutile a Vienna, in qualche modo inviso all’imperatore, soppiantato dal più duttile e «muratoriano» Pio Niccolò Garelli, era già legata a questo clima nuovo e più incerto in cui un teorico radicale del neoghibellinismo faceva fatica a ritrovarsi. Era in fondo lo stesso clima in cui lentamente il Giannone capì che non aveva più alcuna speranza di tornare a Napoli con una carica pubblica che gli permettesse di tradurre in pratica le proprie scelte. Ma certamente era un segno evidente l’involuzione del Collaterale napoletano, che in occasione della morte del Riccardi, uno dei più importanti funzionari imperiali, a causa della sua fama di scarsa ortodossia aveva fatto tante difficoltà per organizzare pubblici e degni funerali e si era piegato solo per l’intervento di Vienna. A questo clima di minore creatività e libertà si potevano dare due risposte alternative, oltre a quella – puramente reazionaria – di aderirvi perfettamente. La prima era ancora una volta quella muratoriana, vòlta a proseguire ostinatamente la via riformista, difendendo gli spazi già raggiunti e utilizzando magari l’erudizione come un rifugio momentaneo per i momenti più difficili, ma preparandosi nel contempo a offrire la propria cordiale e realistica visione del mondo per tempi meno angusti. L’altra era quella del Radicati e del Giannone, che comportava la scelta dell’esilio e il rischio (fattosi realtà per il Napoletano) della prigione, vòlta ad approfondire in orgogliosa solitudine le ragioni del proprio dissenso con la realtà politica e religiosa che si stava vivendo. Ma le persecuzioni colpirono anche uomini come il Grimaldi, che, partito dalle stesse posizioni del Giannone, aveva cercato di definire una propria soluzione in termini non molto dissimili da quelli muratoriani.
Tuttavia la sconfitta della linea rappresentata in questa antologia dal Radicati non sarebbe rimasta senza notevoli conseguenze. L’Illuminismo italiano avrebbe individuato nel suo complesso un linguaggio e una problematica più moderati e in qualche modo più affini alle soluzioni dell’Aufklärung cattolica. Lo stesso ricorrente ritorno di tensioni giurisdizionalistiche e della stessa idea di una riforma religiosa d’Italia nella seconda metà del Settecento56 sarebbe avvenuto ricuperando e unificando tutte le proposte di cattolicesimo illuminato o per lo meno critico nei confronti della Curia romana, evitando quasi sempre il radicalismo di opere come il Triregno giannoniano e i Discours di Radicati. Ma effettualmente qualche cosa di quest’alternativa intellettuale e morale – che è documentata in questa antologia dalle stupende pagine di Radicati sulla morte – era già in procinto di riemergere nel dibattito sulla magia che non a caso domina, come una delle chiavi di apertura dell’Illuminismo, nel gran libro di Venturi sul Settecento riformatore.57 Sul piano filologico ha certamente ragione il Parinetto58 a spostarne gli inizi di almeno un decennio, a cogliere anche in questo dibattito la responsabilità di Muratori. Ma è certo che esso divenne significativo come apertura del discorso illuministico quando intervennero il Tartarotti, il Maffei, il Carli, quando cioè fu chiaro – magari senza che tutti i partecipanti avessero il coraggio di affrontarne le conseguenze – che la negazione della stregoneria per evitare le ormai anacronistiche repressioni da parte della Chiesa era solo un corno del problema. L’altro era l’immagine di un mondo senza magia, cioè – alla lunga – senza religione, miracoli, rapporti fra materia e spirito, tutto risolto nella sua estensione e nel movimento della materia. Si capiscono allora le contraddizioni, gli arretramenti, le posizioni teoricamente incerte come quella del vecchio Grimaldi, dietro cui stava però l’esperienza di Benedetto XIV, l’accordo fondamentale di un uomo come Giovanni Bottari che se ne era fatto editore. In realtà gli anni Quaranta – nonostante l’incubo della guerra di successione austriaca, che nuovamente ebbe come teatro non secondario l’Italia – segnavano alcuni fatti nuovi. Nel Meridione si rafforzava – resistendo anche a un tentativo di ritorno asburgico – il regno «nazionale», la cui proposta nel primo decennio del secolo era stata avanzata da parte di tutti i ceti. Emergeva, sia pure fra mille difficoltà e contrasti, la figura di un grande ministro che si sarebbe incaricato di realizzare almeno in parte alcuni progetti maturati durante il viceregno austriaco: Bernardo Tanucci.59 Con lui e con Carlo III di Borbone riprendevano corpo sia la Giunta di commercio, sia la politica di riacquisto dei beni demaniali alienati, sia la ricompra degli arrendamenti, sia, infine, più difficile da realizzare concretamente, l’ipotesi di un nuovo catasto.60 Accanto al Tanucci – antico professore dell’università di Pisa e giurista convertito alla politica – si collocavano uomini come Celestino Galiani e Nicola Fraggianni che si erano formati nel clima «giannoniano». A sollecitarlo sulla via delle riforme c’erano poi uomini di una generazione successiva e ormai compiutamente illuministi come Antonio Genovesi. Ma non è un caso che in modi diversi il Doria e il Broggia facciano riferimento proprio a questa politica di cui i primi anni del regno di Carlo III di Borbone ponevano le premesse. Così anche in Toscana gli anni Quaranta portavano il confronto con una nuova dinastia e un nuovo modo di far politica. Un solo esempio fra i tanti: la legge sulla censura e sulla stampa del 1743.61 Lo stato cominciava a rifiutare il controllo ecclesiastico sulla cultura e si preparava a sostituirlo con una censura di stato. Ma si potrebbe parlare ancora della legge sui fidecommessi e sulla limitazioni delle manimorte, che apriva – forzando il modello piemontese – un altro terreno di dibattiti e riforme.
Riflettendo su tutte queste esperienze – e su altre ancora –, mentre ormai stava per finire l’incubo della guerra di successione austriaca, il vecchio Muratori ancora una volta era destinato a dominare il campo con due opere molto significative e in qualche modo coerenti: gli Annali d’Italia (1744-1748) e Della pubblica felicità (1749). Gli Annali raccoglievano la sua proposta di storia «civile», ormai così levigata e priva di traccia scopertamente polemica. E pure, per oltre un secolo, a partire dall’abate Cenni, dalle pagine del «Giornale de’ letterati» romano fino alla metà dell’Ottocento, fino alla storiografia neo-guelfa, i polemisti cattolici lo affiancheranno al Giannone come il segno più pericoloso di una ripresa della storiografia di Machiavelli.62 Anzi, qualcuno lo giudicherà anche più pericoloso del Giannone, proprio perché meno acre e quindi più persuasivo. Accanto alla «storia civile», la politica: Della pubblica felicità era un programma che non poneva affatto il problema teorico di come si potesse limitare l’arbitrio del potere assoluto. Offriva piuttosto un esempio concreto del suo uso illuminato. Il quadro delle proposte non superava come teoria economica quella del tardo-mercantilismo. Quanto egli affermava in questa direzione era almeno in parte legato alla lettura di Melon, che gli era stata suggerita dalle lettere inondanti e un po’ maniacali del Broggia all’eterna ricerca di un interlocutore. Ma era soprattutto il frutto dell’analisi della realtà italiana ed europea. L’Austria di Maria Teresa e il papato di Benedetto XIV sembravano avviarsi per questa via. Era quanto pensava – indubbiamente con minore vigore intellettuale e nella saggezza soltanto un po’ delusa dei suoi ultimi anni – il vecchio Costantino Grimaldi. Era quanto animava il più giovane Giovanni Lami, che intorno a muratorismo e cattolicesimo illuminato stava rinnovando negli stessi anni il giornalismo erudito italiano.
Considerando nel loro insieme i profili di questi intellettuali emergono quindi alcuni tratti comuni che sono utili per capire il tempo e la realtà in cui più attivamente operarono, grosso modo fino agli anni Cinquanta del Settecento. Prima di tutto c’è il modo comune di intendere il rapporto fra passato e presente, che non è ancora quello illuministico, ma non è più quello suggerito dall’erudizione seicentesca, barocca e controriformistica. L’erudizione infatti, che è una componente fondamentale e attiva della cultura di questa generazione, non è fine a sé stessa, ma serve alla rifondazione politica, civile e talvolta anche religiosa. È una parte integrante di quella «scienza nuova» che Vico, appartato ma presente, aveva scritto e riscritto fino alle soglie della morte. Muratori era stato l’esempio più significativo di questo equilibrio quasi perfetto fra erudizione e impegno civile. Solo con gli anni Sessanta il segno culturale cambiò profondamente. Non a caso il Lami delle «Novelle letterarie», che pure era stato un protagonista o per lo meno un punto di riferimento essenziale per più di un quindicennio, negli anni Sessanta apparirà un sopravvissuto a confronto con le nuove forme di giornalismo illuministico.63
Un altro elemento di rilievo è il ruolo ancora prevalente della cultura giuridica, cui fa da pendant il tradizionale bagaglio teologico. Anche se questa antologia è dedicata a «economisti», oltre che a politici, della prima metà del Settecento, è facile notare che non è ancora avvenuta in pieno la conversione del «metafisico» a «mercadante», che sarà il segno più significativo degli anni successivi, quelli, per intenderci, della generazione di Antonio Genovesi.64 Non è solo la constatazione che gran parte di questi intellettuali fossero, almeno come formazione, giuristi, quanto piuttosto il fatto che gli interessi economici (quasi sempre più prammatici che teorici) siano stati nel complesso marginali nell’attività intellettuale di tutti. Questo non è vero – oltre che per il Belloni – per il Broggia, ma si tratta di un’eccezione significativa. Broggia non è solo un irregolare quanto a formazione, ma è anche uno degli uomini più vicini anagraficamente alla generazione illuminista. Due poli si individuano con una certa agevolezza al di là dei paradossi e delle creatività individuali. Il primo è il pensiero tardo-mercantilistico cui fanno riferimento – in realtà senza grandi innovazioni – un po’ tutti, e che era del resto abbastanza facile connettere con le prime scelte dell’assolutismo illuminato. La seconda componente – che emerge a tratti e contraddittoriamente in Doria e più chiaramente in Broggia – è il riferimento a quella letteratura – spesso di origine aristocratica – dell’opposizione al mercantilismo di Luigi XIV e al colbertismo, che è stata esplorata nel 1965 da Lionel Rothkrug65 e da lui riportata in maniera originale alle origini dell’Illuminismo francese. Si tratta della rivalutazione della terra, della scoperta della miseria contadina, di quel christian agrarianism che in realtà, svuotato da ogni aspetto religioso, confluirà direttamente nella fisiocrazia. Broggia è comunque il solo – con le sue contraddizioni e i suoi paradossi – a voler ripensare la sua cultura, compreso il rapporto con Vico, riportandola tutta sul terreno economico. Anche se egli ne fece un po’ il cavallo di battaglia di tutte le sue polemiche che naturalmente si sarebbero acuite dopo la folgorante pubblicazione del Della moneta, pure lui, almeno per qualche tratto, come il Galiani e il Genovesi, fu allievo di quella vera e propria scuola di economia che fu il salotto napoletano di Bartolomeo Intieri. Allievo e immediatamente antagonista, sia sul piano economico sia su quello filosofico e morale e, in questo senso, uomo di una generazione diversa da quella degli illuministi. Indubbiamente anche la sua proposta più paradossale e retriva – che cancellava almeno quarant’anni di battaglie giurisdizionaliste –, quella cioè di non porre alcun limite alle manimorte e ai fidecommessi, avrebbe trovato un’eco dura e realistica nelle pagine di Giammaria Ortes.66 In realtà, su un tema come quello della ricompera degli arrendamenti egli aveva cercato – sia pure invano – un rapporto con i politici come Bernardo Tanucci. Solo Radicati – almeno a tratti – sembra rompere decisamente con questo pragmatismo. I suoi Discours e le sue dediche oscillano infatti fra una soluzione monarchica riformatrice e radicalmente anticlericale e l’utopismo repubblicano della democrazia egualitaria.
Più solido in questi anni appare ormai il tessuto connettivo degli intellettuali, rispetto alla fine secolo e alla geografia della cultura da cui siamo partiti. Dietro uomini come Riccardi, Grimaldi, Doria, per esempio, c’era tutta una serie di esperienze di organizzazione accademica diverse sia dalle retoriche accademie letterarie del Seicento, sia dalla stessa Arcadia,67 ormai degradata, dopo l’allontanamento del Gravina, a puro rito sociale. C’era stata piuttosto, oltre l’eredità degli Investiganti, la breve ma eccezionale esperienza dell’Accademia Medinaceli,68 che si era mossa fra storia, erudizione, scienza e politica. Un dato soprattutto è significativo: nel lungo arco di tempo considerato era cresciuto l’interesse per le istituzioni culturali e per le riforme scolastiche. Abbiamo parlato di uomini come Celestino Galiani e Francesco d’Aguirre quali grandi organizzatori culturali. Concrete riforme erano state realizzate in questo settore solo in Piemonte, ma se ne era parlato a lungo a Napoli, a Roma, a Bologna, a Padova, a Pisa. Attraverso Gaspare Cerati699 anche quest’ultima città aveva conosciuto un riformatore che si riferiva al Gravina, al Muratori e al cattolicesimo illuminato. Anche se non era prevalso da nessuna parte un intervento precoce e globale come in Piemonte, era per lo meno maturato un nuovo interesse e una nuova consapevolezza politica del problema. Meditando sul progetto di Celestino Galiani, il Giannone aveva cercato a sua volta di costruire il modello di un’università giurisdizionalista.70 Del resto, accanto a queste istituzioni (scuole e accademie) c’erano ormai i giornali. Fino agli anni Quaranta Venezia aveva dominato agevolmente con i suoi intellettuali, i suoi giornalisti, i suoi librai organizzatori, le puntuali traduzioni, la capacità di intuire che anche quello del giornale era un grosso, potenziale mercato. Gli anni Quaranta – accanto a Venezia – videro emergere Firenze e poco dopo Roma, anche se si tratta di un universo ancora del tutto dominato dal giornalismo erudito.
Per quanto riguarda i centri di riferimento, la repubblica delle lettere alle soglie degli anni Cinquanta aveva ormai raggiunto pienamente i confini geografici del paese. Anche se in quest’antologia mancano intellettuali lombardi di qualche rilievo, non si può dimenticare il fatto che la gigantesca fatica di Muratori, dai Rerum alle Antiquitates, fu resa possibile dalla Società Palatina e che uomini come Orazio Bianchi e lo stesso Francesco d’Aguirre, mentre operavano all’intemo del Catasto, davano anche il loro contributo ai Rerum. Un’ultima osservazione riguarda il carattere socialmente composito di questo gruppo di intellettuali, scelti fra i più significativi della prima metà del Settecento. È naturale una forte prevalenza di uomini di condizione «civile», con cultura professionale (giuristi o medici). Ma non mancano mercanti, come il Belloni o il Broggia, che offrono in termini dignitosamente composti il senso delle loro esperienze e la loro nuova capacità di osservare la realtà economica. È un altro segno che – sia pur lentamente – qualcosa stava cambiando, che la società civile e l’attività intellettuale anche in Italia stavano cessando di coincidere meccanicamente e quasi esclusivamente con la borghesia professionale o con l’otium aristocratico. Ben più complessa e difficile da circoscrivere sociologicamente è la presenza della nobiltà in questa antologia. Marco Foscarini è l’esempio più tipico di quel patriziato veneziano allenato da secoli al potere. La sua intelligenza della realtà – locale e internazionale – è di grandissimo livello. Così anche la sua apertura riformatrice, che però urta con la consapevolezza che il sistema di potere veneziano – per quanto apparentemente anacronistico – è giocato su equilibri delicatissimi che non si possono modificare pena la sua distruzione. Anche Paolo Mattia Doria è figlio del più illustre patriziato genovese trapiantato nell’Italia meridionale. Ma la sua figura è totalmente diversa da quella di Foscarini. Questi si identifica con la storia della propria città e ne è un tipico uomo politico. Il Doria invece – nella sua accorata dissipazione di eterno dilettante – sembra alla ricerca di un’identità, di una patria, di un gruppo sociale cui ancorarsi, che non è né il patriziato genovese, né la nobiltà feudale del Mezzogiorno.71 Più sconcertante e complessa è la figura di Adalberto Radicati di Passerano. Questo figlio dell’aristocrazia feudale piemontese (e pure latore del messaggio più radicale che sia stato diffuso nel primo Settecento) è – ad apertura di antologia – la più originale ed inquietante personalità della raccolta, forse la più carica di futuro. Con le sue scelte pagate di persona, la capacità di rifiutare i propri privilegi di ceto, per il sogno di un’Italia riformata e di una «repubblica» più giusta, per la coerenza con cui seppe sostituire alla morale cattolica (e forse a quella cristiana) un’etica diversa che toglieva senso allo stesso timore della morte, sta ad ammonirci che ogni sociologia della cultura, pur necessaria, è però del tutto insufficiente quando ciò che rimane da misurare è la forza creativa di un uomo.
1 Guido Quazza, La «Decadenza italiana» nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento, Torino, Einaudi, 1971.
2 Alberto Caracciolo, Storia economica, in AA.VV., Storia d’Italia, iii, Dal Primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973, pp. 511-33. Cfr. anche Carlo Maria Cipolla, Il declino economico dell’Italia, in Storia dell’economia italiana, a cura dello stesso, Torino, Einaudi, 1959; Ruggiero Romano, L’Italia nella crisi del secolo XVII, in «Studi storici», a. ix (1968), fasc. 3-4, pp. 723-41, ora in Tra due crisi. L’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1971.
3 G. Quazza, La «Decadenza italiana» nella storia europea ecc., cit., rispettivamente Lo stato cittadino: Venezia, pp. 35-51; Il ritorno alla terra: Milano, pp. 52-62.
4 Pietro Verri, Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano, a cura di C. A. Vianello, Milano, Bocconi, 1939.
5 R. Romano, Tra due crisi. L’Italia del Rinascimento, cit., pp. 186-206.
6 Cfr. Vittor Ivo Comparato, Società e uffici a Napoli (1600-1647), Firenze, Olschki, 1974; Enrico Stumpo, La vendita degli uffici nel Piemonte del Seicento, in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», xxv-xxvi (1973-1974), pp. 175-263; Vittorio Sciuti Russi, Aspetti della venalità degli uffici in Sicilia, in «Rivista storica italiana», lxxxviii (1976), pp. 342-55.
7 Cfr. a questo proposito Giuseppe Ricuperati, L’università di Torino nel Settecento. Ipotesi di ricerca e primi risultati, in «Quaderni storici», xxiii (1973), pp. 576-98. Cfr. ora AA.VV., Ricerche sull’università di Torino, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», a. lxxvi (1978), fasc. 1, pp. 5-278.
8 Cfr. Alberto Asor Rosa, La cultura della Controriforma, Bari, Laterza, 1974.
9 Cfr. Rosario Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari, Laterza, 1967.
10 Cfr. Giuseppe Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Napoli, E.S.I., 1972.
11 Cfr. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze, D’Anna, 1965.
12 Ivi, pp. 24-38 e passim.
13 Cfr. Lino Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari, Laterza, 1950; Agostino Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel regno di Napoli. Problema e bibliografia (1563-1723), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1974.
14 G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, cit., pp. 224-5.
15 G. Quazza, La «Decadenza italiana» nella storia europea ecc., cit., in particolare Assolutismo e società: lo Stato sabaudo, pp. 22-34, dove esamina i lavori di Luigi Bulferetti, i propri e di Stuart J. Woolf.
16 Cfr. Biagio De Giovanni, Filosofia e diritto in Francesco D’Andrea, Milano, Giuffrè, 1958; Salvo Mastellone, Francesco D’Andrea, politico e giurista (1648-1698). L’ascesa del ceto civile, Firenze, Olschki, 1969. Cfr. anche Lino Marini, Il Mezzogiorno d’Italia di fronte a Vienna e a Roma e altri studi di storia meridionale, Bologna, Patron, 1970.
17 Nicola badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Milano, Feltrinelli, 1961.
18 Ivi, pp. 7-164.
19 Cfr. Giuseppe Ricuperati, Giornali e società nell’Italia dell’Ancien Régime (1668-1789), in AA. VV., La stampa italiana dal’500 all’800, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Bari, Laterza, 1976, pp. 78-89 e bibliografia relativa a pp. 354-5.
20 Cfr. Franco Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in AA. VV., Storia d’Italia, iii, cit., pp. 987-1000.
21 Sul Magliabechi cfr. S. Mastellone, Antonio Magliabechi: un libertino fiorentino?, in «Il pensiero politico», a. vii (1975), fasc. 1, pp. 33-53; e Manuela Doni Garfagnini, Antonio Magliabechi fra erudizione e cultura, in «Critica storica», a. xiv (1977), fasc. 3, pp. 371 sgg.
22 A. Dupront, L. A. Muratori et la société européenne des Pré-Lumières, edito da Olschki (Firenze 1976) come iv volume degli Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani. Modena, 1972.
23 Cfr. Vittor Ivo Comparato, Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1970.
24 Cfr. G. Ricuperati, Giornali e società ecc., cit., parte 1, I periodici della «Res publica» delle lettere, pp. 71-187.
25 Ivi, pp. 89-106.
26 Cfr. Lodovico Antonio Muratori, Opere, a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, voll. 2, 1, pp. 177-221.
27 Ivi, 1, p. 181.
28 G. Ricuperati, Giornali e società ecc., cit., pp. 122-56.
29 Guido Quazza, Il problema italiano e l’equilibrio europeo, 1720-1738, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1965; Id., La «Decadenza italiana» nella storia europea ecc., cit.
30 Per un’analisi di quest’opera cfr. S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli ecc., cit., pp. 197-235.
31 Cfr. Giuseppe Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970; Pietro Giannone, Opere, a cura di S. Bertelli e G. Ricuperati, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971.
32 P. Giannone, Vita […] scritta […] da lui medesimo, in Opere, ed. cit., p. 37.
33 Franco Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 17-8, dove però è descritta la crisi di questa esperienza.
34 Cfr. Gaetano Catalano, Le ultime vicende della Legazia Apostolica di Sicilia dalla controversia liparitana alla legge delle guarentigie (1711-1871), Catania, Facoltà giuridica, 1950.
35 G. Quazza, La «Decadenza italiana» nella storia europea ecc., cit., pp. 144-54.
36 F. d’Aguirre, Della fondazione e ristabilimento degli studi generali in Torino. Anno 1715, Palermo, Tip. A. Giannitrapani, 1901.
37 Scipione Maffei, Parere sul migliore ordinamento della R. Università di Torino alla S. M. di Vittorio Amedeo II, a cura di G. B. C. Giuliari, Verona 1871.
38 Amedeo Quondam, Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968.
39 Fausto Nicolini, Un grande educatore italiano,Celestino Galiani, Napoli, Giannini, 1951.
40 Franco Venturi, Alberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, 1954, p. 116
41 Cfr. di Guido Quazza, la voce Bencini Francesco Domenico, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, viii, 1966; Giuseppe Ricuperati, Bernardo Andrea Lama professore e storiografo nel Piemonte di Vittorio Amedeo II, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», lxvi (1968), pp. 11-101; Id., la voce Campiani Mario Agostino, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., xvii, 1974.
42 Cfr. [F. d’Aguirre], Dell’interdetto promulgato dagli ecclesiastici di alcune chiese del Regno, Anversa 1716. Cfr. inoltre Biblioteca Palatina di Parma, mss. 979, 980, 981, Aguirre, Delle controversie agitate fra la corte di Roma e il governo di Sicilia dallʼanno 1711 fin al 1718. Per una prima breve analisi cfr. G. Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di P. Giannone, cit., pp. 305-6.
43 Cfr. Sergio Zaninelli, Il nuovo censo dello Stato di Milano dallʼeditto del 1718 al 1733, Milano, Vita e Pensiero, 1963.
44 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. II. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti. 1758-1774, Torino, Einaudi, 1976, pp. 107-8. Il Discorso sopra l’asilo ecclesiastico era apparso con l’indicazione di Firenze 1763.
45 Cfr. Giuseppe Ricuperati, L. A. Muratori in Piemonte, in AA. VV., La fortuna di L. A. Muratori, vol. iii degli Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani, cit., Firenze, Olschki, 1975.
46 Guido Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena, STEM, 1957, voll. 2.
47 Mario Viora, Le costituzioni piemontesi […] Storia esterna della compilazione,Torino, Bocca, 1928.
48 Il libro complessivo più importante resta Sergio Bertelli, Erudizione e storia in L. A. Muratori, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1960. Oltre alla già citata antologia delle Opere a cura di G. Falco e F. Forti, cfr., in Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani già parzialmente citati, gli interventi di autori vari sui temi trattati: vol. i, L. A. Muratori e la cultura contemporanea, Firenze, Olschki, 1975; vol. ii, L. A. Muratori storiografo, ivi, stesso anno; vol. III, La fortuna di L. A. Muratori, cit.; vol. iv, A. Dupront, L. A. Muratori et la société européenne des Pré-Lumières, cit.
49 Oltre alle opere già citate sta per essere pubblicato il volume di atti del convegno sul Giannone tenutosi a Foggia in occasione del tricentenario della nascita nel 1976, con relazioni, fra gli altri, di Giuseppe Ricuperati, Raffaele Ajello, Romeo De Maio, Giuseppe Galasso.
50 È impossibile offrire una qualsiasi indicazione bibliografica coerente su Vico. Oltre al volume dedicato al Vico in questa stessa collezione, ci si limita a rinviare alla bibliografia vichiana che completa la precedente a cura di F. Nicolini e B. Croce: cfr. Maria Donzelli, Contributo alla bibliografia vichiana (1948-1970), Napoli, Guida, 1973.
51 Cfr. Paola Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli, Morano, 1972.
52 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, cit., pp. 3-58.
53 Antonio Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli (1707-1734), i, Le finanze pubbliche, Napoli, Giannini, 1969, e II, Ideologia e politica di sviluppo, ivi, 1973.
54 Cfr. Antonio Di Vittorio, Il banco di S. Carlo in Napoli e il riformismo asburgico, in «Rassegna economica» (1969). Corregge parzialmente il quadro ottimistico Raffaele Ajello, Il banco di S. Carlo: organi di governo e opinione pubblica nel Regno di Napoli di fronte al problema della ricompra dei diritti fiscali, in «Rivista storica italiana», lxxxi (1969), fasc. 4.
55 Paola Berselli Ambri, L’opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze, Olschki, 1960, p. 4.
56 F. Venturi, Settecento riformatore. II. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, cit., pp. 250-315 e passim.
57
58 Luciano Parinetto, Magia e ragione. Una polemica sulle streghe in Italia intorno al 1750, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
59 Rosa Mincuzzi, Bernardo Tanucci, ministro di Ferdinando di Borbone, Bari, Dedalo, 1967.
60 Cfr. Pasquale Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari, Laterza, 1973.
61 Cfr. Augusta Morelli Timpanaro, Legge sulla stampa e attività editoriale a Firenze nel secondo Settecento, in «Rassegna degli archivi di Stato», XXIX (1969), fasc. 3, pp. 613-700.
62 Cfr. Giorgio Falco, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in «Rivista storica italiana», lxiii (1951), fasc. 3, pp. 265-78.
63 Cfr. Mario Rosa, Riformatori e ribelli nel’700 religioso italiano, Bari, Dedalo, 1969, e ancora G. Ricuperati, Giornali e società ecc., cit., pp. 165-87.
64 Cfr. P. Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, cit., pp.707 sgg.
65 L. Rothkrug, Opposition to Louis XIV. The Political and Social Origins of the French Enlightenment, Princeton, Princeton University Press, 1965.
66 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. II. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, cit., pp. 157-62.
67 Cfr. Amedeo Quondam, Nuovi documenti sulla crisi dell’Arcadia nel 1711, in «Atti e memorie dell’Arcadia», s. iii, vol. vi (1973), fasc. 1, pp. 103-228; Id., L’istituzione Arcadia. Sociologia e ideologia di un’accademia, in «Quaderni storici», xxiii (1973), pp. 389-438; Id., Gioco e società letteraria nell’Arcadia del Crescimbeni: l’ideologia dell’istituzione, in «Atti e memorie dell’Arcadia», s. iii, vol. vi (1975-1976), fasc. 4, pp. 165-95.
68 Silvio Suppa, L’accademia Medinacoeli fra nuova scienza investigante e nuova scienza civile, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1971. Cfr. G. Ricuperati, A proposito dell’accademia Medina Coeli, in «Rivista storica italiana», lxxxiv (1972).
69 Nicola Carranza, Monsignor Gaspare Cerati, provveditore dell’Università di Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa, Pacini, 1974.
70 Cfr.Vincenzo Guadagno, Un illustre avvocato riformatore di università, Napoli, La Fiaccola, 1956.
71 Cfr. ora Vittorio Conti, Paolo Mattia Doria. Dalla repubblica dei togati alla repubblica dei notabili, Firenze, Olschki, 1978.