POLIGNOTO (Πολύγνωτος, Polygnotus)
Da Taso, pittore, figlio d'Aglaofonte il Vecchio: insieme col fratello Aristofonte imparò dal padre l'arte, che sembra fosse ereditaria nella famiglia, perché il secondo Aglaofonte fu abiatico del primo. La formazione artistica di P. è dunque da riferirsi a una scuola locale, che dovette fiorire nell'isola per la prosperità raggiunta già nelle generazioni precedenti. Ignoriamo quando P. sia nato, ma possiamo all'incirca ritenerlo coetaneo di Cimone, che nacque verso il 510 a. C., perché sarebbe stato l'amante d'una sorella di questo, Elpinice, secondo una diceria tramandata da Plutarco. Era ancora vivo verso il 444 e il suo nome si legge tra quelli dei ϑεωροί (inviati delle città) in un'epigrafe di quel tempo a Taso. Conosciamo le opere soltanto dalle notizie trasmesse dagli scrittori antichi.
Dimorò in Atene quando Cimone vi primeggiava, lavorando alle grandi pitture, che decoravano taluni edifizî costruiti in quel periodo. Nel tempio dei Dioscuri dipinse i due gemelli divini che turbavano le nozze delle figlie di Leucippo, e le rapivano; in quello di Teseo, poco posteriore al 469, eseguì pure un lavoro, secondo Arpocrazione, che cita autori più antichi (Artemone e il re Giuba di Mauretania): forse era la pugna degli Ateniesi con le Amazzoni. La "lepre di P.", esistente nel primo dei templi ricordati, passata in proverbio come "cosa perfetta", era forse un accessorio, introdotto come un elemento paesistico della grande composizione. Sopra una parete del Pecile (v.) era la scena di Ilio espugnata: Pausania (I, 15, 1), in un breve accenno descrittivo, ricorda soltanto l'assemblea dei principi achei, che deliberavano per placare la divinità dopo la sacrilega violenza compiuta da Aiace d'Oileo contro Cassandra, il gruppo dei Greci vincitori e le donne prigioniere: la figura di Laodice, figlia di Priamo, aveva le sembianze di quella di Milziade, a detta di Plutarco. Sinesio di Cirene (Epistola CXXXV), verso il 402 d. C., parla d'un proconsole d'Acaia che aveva spogliato il portico delle "tavole" dipinte, portate certamente a Costantinopoli: sembra che queste fossero fissate al muro. Plinio (Nat. Hist., XXXV, 58) ci attesta che il maestro rifiutò d'essere compensato per il lavoro del Pecile; Arpocrazione dice che egli ebbe in premio la cittadinanza ateniese: un distico di Melanzio, poeta tragico vissuto verso il 430 a. C., afferma che P. dipinse gratuitamente anche nei templi. A Platea, nel santuario d'Atena Areia, costruito con la parte del bottino che la città aveva conquistato nella battaglia del 479 (Pausania, IX, 4, 1, parla erroneamente di Maratona), era di P. Ulisse sterminatore dei Proci, sopra un muro del pronao; a Tespie v'erano pitture parietali, delle quali s'ignora il soggetto, che furono più tardi restaurate o rifatte da Pausia (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 123).
L'opera di maggior mole che si ricordi è la decorazione della Lesche donata dalla città di Cnido al recinto sacro di Delfi. L'edificio serviva da luogo di convegno, e gli affreschi, alti forse cinque o sei metri, pare che coprissero i quattro muri, interrotti solamente dall'ingresso. Erano due composizioni, che non sappiamo se avessero eguale lunghezza: la Presa di Ilio a destra, e l'Averno a sinistra. Pausania (X, 25-31) ci ha lasciato di esse descrizioni abbastanza minute, ma da queste, non essendo egli critico d'arte, risultano piò che altro elenchi topografici delle figure, di cui talvolta sono indicati l'atteggiamento e qualche singolarità di tinta o di costume, con dilucidazioni mitologiche o letterarie. Quasi tutti i personaggi erano identificabili per il nome ch'era scritto accanto.
Abbondavano motivi di figure isolate in riposo, concepite come schemi statuarî, in modo che le due scene non dovevano presentare contrasti troppo vivi, come insieme decorativo. La necessità di sviluppare il soggetto in altezza, invece di far riempire il fondo con "fregi" sovrapposti, come avevano fatto i maestri del sec. VI, suggerì l'artifizio di tracciare linee salienti che indicassero dislivelli del terreno: su queste venivano a disporsi le figure, senza riduzione prospettica: quelle del piano inferiore giungevano circa a metà di quelle sovrastanti. Nella Lesche i piani erano, di solito, tre. Gli sfondi erano senza disegno, come nei rilievi contemporanei: gli elementi della composizione venivano perciò ad essere astratti nello spazio. Per la scena iliaca, P. aveva tratto ispirazione anche dai poeti, con un certo eclettismo, adattando la materia secondo l'indole sua, che poco amava le azioni violente, quali si vedono invece sui vasi nelle pitture analoghe, che devono derivare da opere d'artisti alquanto più antichi. Verso il mezzo, con l'insidia del cavallo di legno che sporgeva di sopra, appariva il muro della città, e Posidone lo scalzava col tridente. A sinistra gli ultimi guizzi della disperata battaglia notturna: Neottolemo colpiva un nemico, una donna correva verso un'ara, Cassandra, in mezzo a capi achei, stringeva il simulacro di Atena divelto dalla base. E tutt'intorno salme di caduti, Priamo tra questi. Dall'altro lato le donne conquistate, e qualche Frigio ferito: Elena, assistita da due ancelle, ascoltava l'araldo di Agamennone, mandato a chiederle Etra, la madre di Teseo. Nestore, col pileo in testa, come pronto a navigare, sembrava guardare la città espugnata, e dinnanzi a lui un cavallo in atto d'avvoltolarsi nella polvere, certamente notevole come disegno di movimento e di prospettiva. Lì cominciava la spiaggia: a destra la nave di Menelao all'approdo, con l'equipaggio che s'apprestava a salpare, mentre di sopra il quadro terminava con l'accampamento, espresso da due tende che già si stavano sgombrando. All'estremità opposta era la casa di Antenore, rispettata dai nemici: davanti ad essa alcuni Troiani in atto mesto, e servi che caricavano oggetti sopra un giumento. La firma era lì, in basso, in un distico, attribuito a Simonide e trascritto anche da Pausania.
Nel rappresentare la dimora dei morti, P. aveva preso lo spunto dall'Odissea per l'episodio della necromanzia e per parecchie ombre di eroi, ma s'era valso pure di altre fonti (Pausania ricorda "i ritorni", Nostoi, e la Miniade), aggiungendo di sua iniziativa, per ragioni speciali, talune figure, sì che il descrittore, in qualche caso, dice di non sapere qual tradizione rappresentassero.
A sinistra, tra canneti e pesci che parevano spettri, appariva il navicello di Caronte che traghettava, con altri, Cleobea, sacerdotessa che aveva recato a Taso i misteri di Demetra. Sulla riva dell'Ade il demone Eurinomo. di colore bluastro, divoratore delle carni, seduto sulla spoglia d'un avoltoio, simboleggiava la putrefazione. I compagni d'Ulisse portavano gli arieti neri, Ocno era intento al suo travaglio eterno. Seguiva il gruppo principale delle eroine, accostate secondo le loro leggende, poi l'episodio di Ulisse e Tiresia. A destra, gli eroi, separati i Frigi dagli Achei: Foco e Schedio erano stati introdotti per compiacere gli abitanti della Focide. In luogo perspicuo, tra gli uomini, Orfeo citaredo, seduto sotto un salice; poco discosto Marsia, che insegnava a Olimpo l'arte del flauto.
Nella vasta adunanza, di più che settanta figure, dominava una maestosa tranquillità, con qualche accenno di mestizia, come Ettore pensoso o Tamiri afflitto, ma pure con parecchi motivi graziosi e persino lieti: Fedra sull'altalena, le figlie di Pandareo che giocavano agli astragali, Paride danzante volto a Pentesilea. Le pene dei malvagi erano ridotte a pochi episodî, posti alle estremità: a sinistra un figlio indegno strozzato dal padre, un sacrilego tormentato da una furia e Titio disfatto dalla diuturna tortura, a destra Sisifo in alto, e Tantalo in basso. Nell'intervallo tra questi due, coloro che non avevano partecipato ai misteri di Eleusi, rappresentati in alcune persone, varie di età e di sesso, che recavano acqua entro vasi spezzati per riempire un grande dolio forato.
Di P. si ricordano anche opere minori, su tavola: due esistevano nella pinacoteca, ai propilei d'Atene, e Pausania (I, 22, 6) ne indica i soggetti: Achille a Sciro, Ulisse e Nausicaa. Di un altro quadro della stessa raccolta, con il sacrificio di Polissena, il periegeta non menziona l'autore: forse era lo stesso dipinto che un epigramma greco d'età romana, d'un certo Polliano (Anth. Palat., XVI, 150), esalta per il pathos intensamente tragico della figura principale, attribuendolo a Policleto: qualche dotto ha pensato che tale nome abbia erroneamente sostituito quello di P. A Roma, nel portico di Pompeo, esisteva ai tempi di Plinio (Nat. Hist., XXXV, 54) una tavola con un guerriero armato di scudo, che, a quel che si può intendere, tentava di scalare le mura d'una città assediata: forse Capaneo all'assalto di Tebe.
Assai malcerta è la cronologia delle opere: se fosse possibile determinarla, potremmo intravedere anche le fasi dello stile, non trascurabili in un artista che lavorò almeno trent'anni, e dovette contribuire non poco all'evoluzione dei tipi, tra l'ultimo arcaismo e la perfezione del periodo classico. La pittura di Platea può essere anteriore al 470, quelle del Theseion poco posteriori al 469, e se il distico di Delfi è veramente di Simonide, fu composto prima del 467, anno in cui morì quel poeta. La tecnica dei colori è già stata dichiarata in altri articoli (v. micone; grecia: Arte, XVII, p. 876): che P. ignorasse del tutto il chiaroscuro per dare rilievo alle forme, non è credibile, perché su qualche vaso attico a figure rosse, già verso il 480, è usato il tratteggio per mostrare la convessità degli scudi. Oltre che a fresco e a tempera, il maestro avrebbe dipinto anche ad encausto (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 122), ed avrebbe modellato delle statue (ibid.).
Il giudizio degli antichi è concorde quanto all'eccellenza dell'arte di P., tanto che lo si considera come uno dei maggiori e, in un certo senso, il più grande pittore della civiltà greca: Teofrasto (citato da Plinio, VII, 205) segnava col suo nome l'inizio della pittura. Aristotele (Poetica, 2) dice che le sue figure superavano il vero come forme ideali di bellezza, ossia raggiungevano il sublime. L'ethos compostezza armoniosa e solenne, è la qualità sulla quale il filosofo insiste (Poetica, 6), notando che, ad esempio, non la possedeva un artista come Zeusi, e ritiene che le opere di P. abbiano un valore educativo, perché influiscono sull'animo dei giovani per formarne il carattere (Politica, VIII, 5, 7). Che il pathos non mancasse, si può indurlo da un passo di Eliano (Varia Hist., IV, 3), il quale attribuisce pure al maestro grandiosità e finitezza. Luciano (Imagines, 7), sottile conoscitore e critico felice, rileva pregi singolarissimi nella Cassandra della Lesche, per profondità d'espressione e maestria del disegno. Plinio (Nat. Hist., XXXV, 58), sulla scorta di qualche autore greco, affierma che P. sarebbe stato il primo a fare trasparire dalle vesti il corpo muliebre, ornandone il capo di fasce variopinte, e che avrebbe addolcita la rigidezza arcaica dei visi, schiudendone un poco le labbra.
I dotti moderni hanno tentato più volte di ricostruire graficamente le composizioni delfiche, valendosi del testo di Pausania: tale impresa allettò persino il Goethe. Carl Robert, verso la fine del sec. XIX, diede per modelli di stile al disegnatore le pitture vascolari attiche della metà del sec. V: il risultato è meno anacronistico di quelli prima ottenuti, e può essere d'una certa utilità come illustrazione sinottica delle descrizioni, mentre non serve a darci un'idea degli originali perduti.
Riflessi diretti in monumenti dell'epoca, bastevoli per farci vedere l'arte personale del maestro, sono assai malagevoli da determinare: nelle pitture vascolari mancano appunto i temi trattati da lui, secondo le notizie che abbiamo. Perciò la nostra conoscenza rimane assai generica: polignotei siamo soliti chiamare i disegni più belli dei vasi attici dal 460 al 440 circa, ma non c'è un criterio per distinguere in essi la maniera d'uno qualsiasi tra i pittori famosi d'allora: taluni soggetti si potrebbero riferire con probabilità all'ateniese Micone, che lavorò insieme con P. Il cratere d'Orvieto, ora al Louvre, è uno dei documenti più preziosi per intendere la "prospettiva" polignotea, benché neppure questa si possa dimostrare che sia stata un'invenzione personale. E il giovane seduto che cinge un ginocchio con le mani, salvo che là era in giuoco l'altra gamba, corrisponde al motivo di Ettore nella pittura dell'Ade. Alla maturità del maestro, per l'ethos che spira dalla figura e la bellezza dei lineamenti, potrebbe convenire l'Achille di un'anfora del Vaticano, il quale ha le labbra lievemente aperte, come si dice che P. appunto le disegnasse.
Bibl.: Per i passi d'autori antichi, con traduzione e commento, A. Reinach, Textes grecs et latins relatifs à l'histoire de la peinture ancienne, I, Parigi 1921, pp. 86-154. Per le descrizioni di Pausania, i commenti di H. Hitzig e H. Blümner, Paus. Beschreibung von Griechenland, III, Lipsia 1907, p. 754 segg. e di J. G. Frazer, Paus. description of Greece, V, Londra 1913. Per gli studî dei moderni, E. Loewy, Polygnot, Vienna 1929; F. Fornari, in Ausonia, IX, 1919, p. 93 segg., e in generale F. v. Lorentz, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXVII, Lipsia 1933, p. 223 segg.