DE MARRA, Placido
Nacque a Napoli intorno alla metà del sec. XVI da Giovanni Donato e Ippolita Carbone. Inesistenti sono le informazioni di rilievo sull'andamento della sua formazione giovanile come rampollo dei duchi di Guardia e sulla natura dei suoi studi: come si può desumere dal conseguimento del titolo di referendario delle due Segnature e dal carattere della sua corrispondenza con la segreteria di Stato furono probabilmente di carattere giuridico.
Il 6 marzo 1595 venne nominato vescovo di Melfi e Rapolla dove celebrò un sinodo per la riorganizzazione devozionale e disciplinare di una diocesi particolarmente depressa economicamente e socialmente.
La sua prima apparizione nel mondo diplomatico romano avvenne al seguito del cardinale Gian Garzia Millini inviato nel 1608 da Paolo V presso l'imperatore, di cui guadagnò la stima e la protezione: infatti fu proprio il Millini a caldeggiare allora la sua nomina a nunzio presso l'arciduca Mattia, fratello di Rodolfo II, nell'ambito della strategia pontificia di controllo e osservazione dell'inquietante e fluida situazione ai vertici politici e familiari dell'Impero.
Grande preoccupazione si nutriva a Roma per l'evolversi di un quadro confuso caratterizzato dall'inettitudine e dal decadimento irreversibile dell'imperatore Rodolfo II e dalle crescenti insofferenze e ambizioni di Mattia, il quale andava organizzando un patto segreto con gli arciduchi Ferdinando, Alberto e Massimiliano per farsi riconoscere capo della famiglia e sostituire il fratello nella carica imperiale. Il D. si conformò immediatamente alle intenzioni pontificie nell'offerta di una mediazione politica a quello che sembrava inevitabilmente diventare uno scontro militare, allo scopo di restituire pacificamente un'autorità dignitosa all'istituzione imperiale incrinata da una serie di forze centrifughe, soprattutto riformate, che avevano conosciuto un importante momento di aggregazione nel maggio 1608 con la costituzione dell'Unione evangelica.
Nelle sue funzioni diplomatiche, iniziatesi ufficialmente il 23 ag. 1608, il D. esordì congratulandosi con Mattia per la sua elezione a re d'Ungheria, che aveva i connotati di una pesante sconfitta dell'imperatore costretto, oltre all'assegnazione dei titolo, alla cessione dei territori austriaci, moravi e ungheresi al fratello. Nella sua residenza viennese in questo periodo l'attività del D. fu incentrata nella puntuale informazione sulle intenzioni politiche, peraltro ancora informi, di Mattia, severamente giudicato "miserabile", "privo di arbitrare", in completa balia dei suoi consiglieri e soprattutto dall'astro nascente Melchior Klesl, vescovo di Vienna e tenace sostenitore di una politica duttile nei confronti dei principi, degli elettori e delle città protestanti. Sebbene spesso adulato dal Klesl, il D. cercò coerentemente di proporre gli orientamenti romani di rifiuto pregiudiziale di qualunque dialogo con le forze riformate, ponendo l'accento sulla necessità di un atteggiamento repressivo e punitivo dei ribelli eretici e di strenua difesa dei diritti ecclesiastici.
Pertanto fu difficile per il D. muoversi in una vera e propria "Babilonia" ove spesso era pressoché impossibile individuare un referente politico stabile e affidabile su cui imbastire un'iniziativa diplomatica efficace. Nel febbraio 1609 presentò inutilmente a Mattia la proposta, "in se stessa prudentissima et honesta" (Arch. segr. Vaticano, Fondo Borghese II, 166, f. 71v), di Paolo V di concedere aiuti per la difesa e la restaurazione del cattolicesimo particolarmente minacciato in Moravia, Stiria, Ungheria e Boemia, perennemente in fermento, a condizione che vi fosse un tangibile avvicinamento con Rodolfo II. Il D., nonostante il suo temperamento intransigente, espresse poi dubbi sulla tempestività della formazione di una lega cattolica - che si costituì effettivamente, com'è noto, nel giugno 1609 - laquale avrebbe vieppiù esasperato la rafficalizzazione di un contesto politico e confessionale contrassegnato da gravi incertezze e debolezze "onde ne nascerebbe certo esternúnio della Religione avanzando di sì gran lunga, in tutta la Germania, il numero de gl'heretici ai cattolici" (ibid., ff. 71v-72).
Il D. seguì regolarmente l'attività delle Diete imperiali segnalando a Roma l'aggressività protestante, favorita tra l'altro da un crescente malcontento cattolico, nel progressivo svuotamento dell'autorità imperiale e nel conseguimento metodico e inarrestabile dei successi riformati nell'ambito della libertà di culto. Poco ascoltato, abbastanza isolato se non osteggiato negli ambienti viennesi, si occupò della ùisciplina del clero, del controllo e della circolazione dei libri eretici provenienti da Francoforte e favorì un timido allargamento della sfera d'influenza dei gesuiti a corte.
In sostanza, il D. si trovò condannato all'impotenza e a mansioni marginali sino a quando agli inizi del 1611 prese corpo l'iniziativa di Mattia di una spedizione militare contro Praga per rimuovere dal trono l'imperatore, ormai tetramente vaneggiante. Il D. si fece interprete delle apprensioni pontificie circa i rischi insiti nell'impresa, soprattutto per la presenza di comandanti protestanti nell'esercito e per l'imprevedibilità dei suoi esiti futuri sulla solidità dell'Impero. Si adoperò invano per un estremo tentativo di mediazione tra i due fratelli, contattando e cercando di guadagnare all'opera di pacificazione principalmente l'arciduca Ferdinando e proponendo sino all'ultimo una tregua d'armi in grado di consentire le condizioni preliminari per una trattativa politica. Consigliato dal cardinal nipote, soddisfatto dell'abilità del D. di "saper investigare et descrivere coteste occorrenze" (Arch. segr. Vaticano, Nunziatura Germania 26, f. 176), di "dare tempo al tempo" attendendo il corso degli eventi, alla fine seguì Mattia nella spedizione ed entrò a Praga poco prima dell'esercito occupante nel marzo 1611 sforzandosi di mantenere almeno una deferenza formale nei confronti di Rodolfo II.
Nei mesi successivi fu impegnato ad accelerare la questione impellente della successione imperiale: in collaborazione stretta con il nunzio a Colonia Antonio Albergati, si adoperò per sondare prudentemente il gradimento della candidatura dell'arciduca Alberto e, una volta abbandonata tale ipotesi dal papa, per sostenere quella di Mattia che s'imponeva, nonostante la scarsa simpatia che godeva presso la S. Sede e presso il D., come soluzione obbligata per il temporaneo mantenimento della pace religiosa. Egli partecipò personalmente coll'Albergati alla Dieta di Francoforte, che si concluse con l'elezione di Mattia e immediatamente dopo, con un breve del 23 giugno 1612, per l'esperienza acquisita e la pluriennale frequentazione della corte venne nominato nunzio presso l'imperatore neoeletto.
Come prima incombenza, in un'istruzione dove si raccomandava di promuovere la restaurazione cattolica nei territori imperiali e di contrastare con ogni risorsa disponibile le spinte riformate e di sovrintendere l'andamento della lotta antiottomana, il D. ebbe il compito di far accettare a Mattia la conferma papale e il giuramento di obbedienza al pontefice: una richiesta senza precedenti, mirante a riaffermare il naturale e storico legame tra la Chiesa romana e l'Impero in un momento particolarmente delicato per entrambe le istituzioni, che risultò sottilmente irritante per l'imperatore impegnato a definirsi un ruolo e un'immagine di mediatore tra i suoi sudditi cattolici e riformati.
In realtà, durante tutta la sua nunziatura divisa tra Praga e Vienna seguendo gli spostamenti della corte imperiale, il D. si confrontò principalmente còn il Klesl, ormai vero e incontrastato ispiratore della politica del deludente e fragile Mattia. Egli fu portavoce ed esecutore delle indicazioni romane che privilegiavano la valorizzazione di una forma centralizzata di governo in grado di rafforzare gradatamente l'autorità imperiale, sulla cui urgenza del resto anche il Klesl era d'accordo per una rivitalizzazione della presenza cattolica: la natura dei suoi dissidi e incomprensioni con il vescovo di Vienna, presidente del Consiglio dell'imperatore, riguardarono piuttosto l'atteggiamento politico da tenere nei confronti dei riformati.
Nonostante relazioni personali formalmente corrette, il D. osteggiò tenacemente qualunque apertura in questa direzione: ad esempio, di fronte all'ipotesi imperiale di dimostrarsi concilianti riguardo ai vescovati occupati dai protestanti con la concessione temporanea dell'investitura o dell'indulto e nel caso di Magdeburgo, addirittura con l'assegnazione del seggio elettorale, il nunzio contribuì con informazioni e consigli al legato Carlo Madruzzo, inviato nell'estate del 1613 alla Dieta di Ratisbona dove ci si occupava appunto di tali questioni, a far naufragare, con il fallimento totale di questa eventualità permissiva, l'immagine di un arbitrato imperiale che il Klesl andava faticosamente costruendo. A quest'ultimo da Roma, col tramite del D. e con il palese intento di conquistarlo alle posizioni oltranziste di Paolo V, si assegnò il possesso dei benefici dei vescovati di cuì era titolare (Vienna e, Wiener Neustadt) e più tardi, nell'aprile 1616, vincendo le bizzarre resistenze di Mattia, venne concessa la porpora cardinalizia.
I rapporti tra il Klesl e il D. furono dunque sempre caratterizzati dal reciproco sospetto e dalla reciproca disistima: giudicato dal nunzio uomo dai fini spesso "imperscrutabili" e "fastidiosissimo" nel trattare, il Klesl veniva considerato troppo preoccupato e avvolto da alchimie politiche al fondo delle quali emergeva prioritariamente l'interesse personale di finanziatore occulto dell'imperatore e di politico pragmatico impegnato nelle Diete più a definire la suddivisione delle contribuzioni fiscali che a difendere i principi confessionali e le prerogative ecclesiastiche usurpate. In questa vicenda difficile, l'unico momento di accordo fu in occasione del ridimensionamento della leadership di Massimiliano di Baviera nella Lega cattolica che si cercò di porre direttamente sotto Pegida imperiale.
Inoltre, nell'ambito della sua attività diplomatica, il D. mantenne rapporti preferenziali con la diplomazia spagnola e sorvegliò da vicino le iniziative, peraltro incolori, della diplomazia francese. Fu fermo nell'ostacolare i tentativi di approccio tra l'Impero e gli Olandesi, i quali si sforzavano di costruire con qualche successo una rete di alleanze con alcune città e principi tedeschi; riuscì a far allontanare un inviato inglese alla corte di Mattia, convincendo l'imperatore a respingere la proposta di stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con l'Inghilterra. Infine si interpose per tutta la durata della sua permanenza e in modo non sempre significativo e continuo come mediatore tra la Repubblica di S. Marco e l'imperatore per ricucire con una soluzione politica gli attriti determinati dalle scorrerie degli Uscocchi, che a Venezia si ritenevano protetti se non istigati dall'arciduca Ferdinando; pur non nutrendo molta simpatia per i Veneziani, difese il neutralismo pontificio anche quando venne sottoposto a pressanti e imbarazzanti richieste per sollecitare una partecipazione militare del papa al progetto spagnolo di invasione dal Milanese dei territori della Serenissima. Si occupò inoltre d'informare la S. Sede sui movimenti dei Turchi, sostenendo le ragioni del rifiuto di aiuti immediati del pontefice nella lotta antiottomana motivandolo con la profonda disunione dell'Impero e la scarsa affidabilità di una efficace direzione di eventuali campagne militari da parte dell'imperatore.
In una situazione dunque confusa e incerta, foriera di non troppo lontani sconvolgimenti, il D. portò avanti diligentemente la propria carica senza mai imporsi per personalità brillante o spirito di iniziativa: fu soltanto un attento osservatore e un puntuale informatore che non riuscì però mai a diventare un interlocutore di rilievo della corte imperiale. Difese non sempre con la dovuta energia le posizioni romane, segnalò allarmato le insofferenze delle aristocrazie boema, ungherese e tedesca, dipingendo talvolta un quadro sufficientemente lucido della realtà critica dell'Impero finché, malato sin dall'inizio del 1615, ottenne prima di aver un sostituto corrispondente a Praga nell'auditore Alessandro Vasoli e quindi di essere richiamato nell'agosto del 1616.
Tornato in patria, non risulta che la sua carriera diplomatica abbia avuto seguito. Morì a Melfi il 2dicembre e nella cattedrale della sua diocesi venne sepolto.
Fonti e Bibl.: Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Nunz. Germania 26; 27, ff. 10-194; 114, ff. 8v, 10v, 17v, 21-24; 114A; 114D; 114F; 114 G; 114 K; 114I; 443, ff. 126-345; Ibid., Fondo Borghese II, 159, ff. 1-192; 165, ff. 205-268; 166; Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat. 6916, 6921 (non tutti i codici sono in buono stato di conservazione); a cura di W. Reinhard, Nuntiaturberichte aus Deutschland. Kölner Nuntiatur, V, 1. München-Paderborn-Wien 1972, ad Indicem;F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra..., I, Venetiis 1717, col. 940; L. von Pastor, Storia dei papi, XII, Roma 1962, pp. 534, 543 s., 546 s., 553, 556, 559; B. Katterbach, Referendarii utriusque Signaturae a Martino V ad Clementem IX, Città del Vaticano 1931, p. 221; P. Gauchat, Hierarchia catholica, IV, Monasterii 1935, p. 238; G. Moroni, Dizionario di erud. stor.-ecclesiastica, XLIV, p. 167.