PIGNETTI, Valeria, detta Sorella Maria
PIGNETTI, Valeria (in religione Maria di Campello), detta Sorella Maria. – Nacque a Torino il 28 gennaio 1875 da Bartolomeo e Maria Valerio, seguita nel 1878 dal fratello Ugo. Il padre, insegnante e poi direttore delle scuole municipali di Roma, morì nel 1885 quando Valeria aveva dieci anni, ma riuscì a comunicare alla figlia un amore per Dante di cui sempre gli fu grata. Non vocata agli studi – prediligeva la lettura autonoma di Leopardi e Shakespeare rispetto ai testi suggeriti dai programmi scolastici –, amante della musica e della natura, conseguì comunque un diploma di maestra elementare che le permise di lavorare ventenne per aiutare la famiglia in notevoli difficoltà economiche.
Nell’ottobre del 1900 maturò la scelta della vita religiosa, che si realizzò il 17 novembre 1901 con l’entrata nelle Francescane missionarie di Maria, congregazione francese fondata nel 1877 da Marie de la Passion – al secolo Hélène de Chappotin de Neuville – sull’onda della vasta proliferazione di famiglie religiose nella seconda metà dell’Ottocento. Attratta dalla possibilità di una missione in terra straniera che quella comunità offriva (M. Launay, Hélène de Chappotin e le francescane missionarie di Maria, Bologna 2003), la novizia ne condivise il duro regime di vita, ma fu costretta, a causa della salute cagionevole, a rinviare i voti definitivi fino al 1908 e poi a rinunciare alla missione fuori dall’Italia. Stimata per la dedizione e l’accortezza dimostrate, la giovane – che entrando nella nuova famiglia aveva assunto il nome di Maria Pastorella – ricevette nel tempo incarichi di crescente responsabilità in attività promosse dall’istituto in varie località italiane. Economa locale e insegnante di francese nei primi anni, fu successivamente coordinatrice di un’opera di Protezione della giovane, responsabile di un laboratorio di cucito e ricamo per ragazze, direttrice dell’assistenza agli orfani del terremoto di Messina. Furono anni di approfondimento del senso della propria vocazione e di meditazione della Bibbia e delle fonti francescane, tra le poche letture permesse in una vita intensamente impegnata in servizi e preghiera comune e personale.
A Roma, durante la prima guerra mondiale, divenne superiora delle suore infermiere e responsabile dell’assistenza spirituale dei militari in cura all’ospedale militare angloamericano situato in via Nomentana, dove si distinse per la particolare sensibilità dimostrata nei confronti di alcuni ufficiali serbi, per la cui cura spirituale invitò un prete ortodosso: attenzione che preannunciava la capacità, che l’avrebbe poi contraddistinta, di apprezzare il valore religioso di un cristianesimo diverso da quello romano. Fu in questi anni che maturò una nuova chiamata alla vita contemplativa e all’accoglienza spirituale di cui fece partecipe Ernesto Buonaiuti – già sotto la mira del S. Uffizio per le sue simpatie moderniste –, conosciuto durante le sue frequenti visite al prediletto allievo Agostino Biamonti in cura nella clinica. Lo studioso romano accolse l’intuizione di Maria Pastorella con un’intima condivisione che si convertì in un’amicizia per la vita, riconoscendo in lei la propria stessa aspirazione a riprodurre il cristianesimo apostolico e profetico delle origini: «Quel giorno in cui attraverso lo scambio di poche parole ci sentimmo associati in un ideale e in una speranza, fu stretto un patto di fraternità che avrebbe avuto per me nelle ore tragiche che si avvicinavano una virtù sconfinata di corroboramento e di conforto» (Buonaiuti, 1964, pp. 165-166).
Ricevuto da papa Benedetto XV il consenso a intraprendere la nuova strada, la religiosa, da allora più semplicemente Sorella Maria, ottenne il decreto di dispensa dai voti in data 11 aprile 1919 e iniziò con una compagna, a cui se ne aggiunsero nel tempo poche altre, un lungo peregrinare per l’Italia, ospite di diversi amici, alla ricerca dell’ambiente adeguato per la realizzazione del suo progetto. Dopo aver rifiutato diverse proposte di figure stimate – tra gli altri Giovanni Semeria, Brizio Casciola, lo stesso Buonaiuti – che le offrivano incarichi di vita attiva o comunque da lei giudicati non consoni alla sua vocazione eremitica, si stabilì il 21 novembre 1922 a Poreta, paese vicino a Spoleto, in una villa di campagna che fu chiamata Rifugio San Francesco. L’appellativo attribuito alla sede della nuova comunità, l’appartenenza delle prime compagne al terz’ordine francescano e la scelta di firmarsi «la Minore» rivelavano un aspetto capitale della spiritualità di Maria, il francescanesimo, da lei assunto con particolare adesione all’interpretazione evangelica e antidogmatica del santo di Assisi, offerta dalla fortunata Vie de Saint François d’Assise (Parigi 1894) dello storico protestante Paul Sabatier, con cui intrattenne un affettuoso rapporto epistolare.
Pochi mesi dopo l’arrivo in Umbria, la vista di un antico convento francescano abbandonato, situato su una collina prospiciente le fonti del Clitunno, fece sorgere in Maria la certezza di aver individuato il luogo ideale per l’insediamento della realtà spirituale a cui si sentiva vocata. L’acquisto e la necessaria ristrutturazione furono possibili grazie all’aiuto economico di alcuni amici, per prima Amy Turton, un’infermiera anglicana che, conosciuta a Firenze nel 1921, sarebbe entrata a fare parte nel 1933 della piccola comunità. Tuttavia la Minore, intendendo conformarsi a una totale povertà, da lei riconosciuta elemento peculiare della tradizione evangelica e francescana, riteneva che le sorelle dovessero rinunciare alla proprietà dell’eremo, che venne pertanto suddivisa fra diversi intestatari susseguitisi nel tempo: tra i primi la stessa Turton ed Ernesto Buonaiuti.
Il 22 luglio 1926 Maria si stabilì nell’eremo di Campello con cinque compagne, tra le quali sorella Jacopa, al secolo Clelia Allegri, cieca dalla nascita, soprannominata l’Unanime per l’intimità spirituale stabilita con la Minore.
A queste prime abitatrici si unirono negli anni successivi altre sorelle, che non superarono mai il numero di quindici, e un gruppo più vasto di «fratelli e sorelle non conviventi» a cui Maria attribuiva nomi di tradizione francescana o desunti da figure del primo cristianesimo: don Primo Mazzolari divenne Ignazio, in ricordo del vescovo Ignazio di Antiochia; Ernesto Buonaiuti mantenne il suo nome di terziario francescano, Ginepro, memoria del candido compagno di Francesco d’Assisi; le sorelle si chiamavano Agnese, Amata, Daniella, Angeluccia, Massariola, nomi per lo più mutuati dall’elenco delle prime compagne di Chiara d’Assisi. All’eremo si realizzò quella vita comunitaria a cui Maria da lungo tempo aspirava, una piccola koinonìa – come amava definirla con lessico neotestamentario – esemplata sui tratti della comunità cristiana degli Atti degli apostoli e della Regola non bollata di Francesco d’Assisi; non configurata sul modello monastico tradizionale ma – lo avrebbe scritto nel 1942 in una lettera a Pio XII – come «una vita fraterna, regolata e custodita dalla disciplina religiosa che serve alla formazione del carattere, al risparmio del tempo, all’armonia interiore ed esteriore» (L’ineffabile fraternità, 2007, p. 147).
Sia pure al di fuori di una specifica struttura istituzionale, la «famiglia cristiana» dell’eremo si caratterizzò per l’ispirazione francescana e lo stile monastico, impresso da «consuetudini disciplinate» che avevano i loro cardini nella preghiera, nel lavoro, nell’ospitalità. A questi si aggiungevano il silenzio, l’ordine, il servizio ai poveri, e più specifiche pratiche, come il ripetere a memoria salmi e tratti delle Scritture, il canto, l’intrattenere corrispondenza, il camminare all’aperto con attenzione a ogni creatura, il saper riposare. Atteggiamenti più volte riformulati nel corso degli anni, ma costantemente finalizzati al costume contemplativo e accogliente a cui Maria intendeva modellare la vita propria e delle sorelle. «Sacrum facere» era l’espressione da lei utilizzata in questi appunti programmatici e nelle numerose lettere inviate ai non pochi corrispondenti, ovvero aspirazione a «trasformare la realtà di tutti i giorni in realtà sacra, ordinata, armoniosa, liberata da ogni sorta di non equilibrio, ricollegata alle sue profonde radici divine» (Sorella Maria, 1971, p. 28). Al raggiungimento di tale religiosa armonia miravano pure riti e preghiere raccolti dalla Minore in un Vademecum predisposto a uso delle sorelle, rituali talvolta creati da lei, oppure riadattati da antiche liturgie, sovente attinti da tradizioni non cattoliche e non cristiane – ortodosse, ebraiche, egiziane, indiane, giapponesi –, purché ritenuti idonei a coinvolgere i presenti in una partecipazione attiva.
La capacità di raccogliere da consuetudini difformi dalla cattolica era una delle caratteristiche più singolari della spiritualità di sorella Maria che, a differenza delle attitudini controversistiche dominanti nella pastorale cattolica del tempo, testimoniava apertura e fraternità senza preclusioni nei confronti di qualsiasi realtà autenticamente religiosa e umana. Alcune sue espressioni, scritte in decenni diversi, ne attestano l’ispirazione: «Ogni credente sincero fa parte dell’anima della Chiesa; è il concetto cattolico per eccellenza. Dunque non solo con un fratello cristiano, ma con un fratello israelita o pagano, io mi sento in comunione spirituale, se egli crede e spera e ama», scriveva in una lettera del 1924 (Cronaca degli inizi, 20022, p. 80). «Io sono riconoscente e in venerazione per la chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle, che non è divisa da diversità di razze o di culti, ma è formata da tutti i cercatori sinceri della verità», comunicava nel 1932 (Frammenti di un’amicizia senza confini, 1991, p. 22).
Non era in questione la propria appartenenza alla «Chiesa romana che presiede all’agape», come ripeteva ad amici e corrispondenti con espressione mutuata da Ignazio di Antiochia, ma di fedeltà a un personale stile cristiano che – confessato con efficace locuzione nella già citata lettera a Pio XII: «bisogno di più largo respiro» – suggeriva simpatie «senza confini», dettava un lessico talvolta audace, foriero di non poche incomprensioni: come il sentirsi «pancristiana», attinto con ogni probabilità dagli scritti del pastore valdese di aspirazioni ecumeniche Ugo Janni; o l’essere «panica», vocabolo implicante una comunione universale dalle riconoscibili radici mistiche. Il significato da Maria attribuito a tale aggettivo – il saper «apprendere da tutto e da tutti» – risulta particolarmente illuminante dello spirito che l’animava e del suo desiderio di tracciare attraverso l’ascolto di molte voci una via propria, che oltrepassasse i limiti angusti di una religione intesa a tutto definire e arginare in chiave difensiva e antimoderna. Una via propria che non si tradusse in elaborazioni speculative o contributi teologici, per i quali dichiarò sempre di non avere attitudine, ma nel quotidiano realizzarsi di una vita e una comunità in cui, realtà unica nell’Italia del primo Novecento, furono accolte come sorelle la già menzionata anglicana Amy Turton e l’episcopaliana americana Miriam Shaw.
Per la sua singolare apertura l’eremo, pur luogo impervio e difficile da raggiungere attraverso il sistema viario del tempo, divenne ben presto meta di numerosi non cattolici – anglicani, valdesi, calvinisti, zwingliani – provenienti da vari Paesi europei, dagli Stati Uniti, dall’India. Ancora più ampia dei frequentatori della comunità fu la rete di amicizie intessuta da Maria, alcune delle quali rese note dalla pubblicazione degli scambi epistolari che le nutrivano. Amicizie e contatti la misero in relazione con alcuni promotori del dialogo ecumenico avviatosi nella prima metà del Novecento, come lo storico e filosofo delle religioni Friedrich Heiler, la scrittrice anglicana Evelyn Underhill, il pastore valdese Giovanni Luzzi, il fondatore di comunità gandhiane in Occidente Lanza del Vasto. Consideravano Maria loro riferimento privilegiato non poche donne in cerca di una spiritualità più aperta rispetto agli schemi allora consueti del devozionismo femminile, come l’italiana Adelaide Coari, voce importante del femminismo cristiano; intrattenevano con l’eremita di Campello corposi carteggi preti e figure religiose impegnati, sia pur con sensibilità diverse, nella riforma della Chiesa, come don Primo Mazzolari e padre Giovanni Vannucci. Maria non rinunciò mai all’amicizia con Buonaiuti, che perdurò con immutata intensità anche dopo la scomunica maggiore subita dal prete romano nel 1926, e con don Brizio Casciola, a sua volta imputato di modernismo e spesso ospite all’eremo. Particolarmente significativi per il rilievo dei corrispondenti sono l’amicizia epistolare intrattenuta dal 1928 con il Mahatma Gandhi e con figure del suo entourage negli anni della lotta per l’indipendenza dell’India, e dal 1950 con Albert Schweitzer, il teologo, musicista, medico e missionario luterano insignito nel 1952 del premio Nobel per la pace.
Il rifiuto di una configurazione istituzionale e ancor più le amicizie moderniste e le frequentazioni protestanti costarono decenni di ostilità da parte delle gerarchie ecclesiastiche locali, in primo luogo nella persona di Pietro Pacifici, arcivescovo di Spoleto dal 1912 al 1934.
Interprete zelante e inflessibile della lotta ingaggiata in ambito cattolico contro il modernismo dagli inizi del Novecento; confermato dalle istanze antiprotestanti della enciclica Mortalium animos, che nel 1928 riaffermava la dimensione «unionista» del ritorno alla chiesa di Roma proibendo la partecipazione dei cattolici agli incontri ecumenici, Pacifici esercitò un occhiuto controllo sulla vita della piccola comunità, che ne determinò per un trentennio il sospetto e l’emarginazione. Sotto il suo governo e quello del suo successore Pietro Tagliapietra fu vietato l’accesso all’eremo a preti e laici della diocesi e fu proibita la celebrazione della Messa, da Maria ripetutamente richiesta insieme alla conservazione dell’eucarestia. I sospetti si sarebbero attenuati a partire dal 1950, ma sarebbero trascorsi ancora lunghi anni prima che – in seguito alla visita dell’allora arcivescovo di Spoleto, Ugo Poletti nel 1969 – venisse consentita la custodia dell’eucarestia e riconosciuto il valore spirituale ed ecclesiale dell’esperienza.
Sorella Maria morì il 5 settembre 1961.
Figura capace di suscitare suggestioni profonde, ma rimasta a lungo appannaggio di cerchie ridottissime, la pubblicazione di carteggi e studi, soprattutto a partire dal primo decennio degli anni 2000, ha permesso di apprezzarne l’indubbio rilievo spirituale e l’originalità della sua avventura ecumenica nella storia del cristianesimo italiano del Novecento.
Fonti e Bibl.: Fonti essenziali sono raccolte a Roma, Archivio della Casa generalizia delle francescane missionarie di Maria, Maria Pastorella, e nell’Archivio dell’eremo di Campello, quest’ultimo tuttora (giugno 2015) non liberamente fruibile dagli studiosi. Alcuni cenni gli dedica Roberto Morozzo della Rocca nel profilo biografico Maria dell’eremo di Campello. Un’avventura spirituale nell’Italia del Novecento, Milano 1998, pp. 163-165, che offre inoltre riferimenti alla scarna letteratura, per lo più occasionale e devozionale, dedicata fino a quel momento alla Minore. Lettere di Maria sono conservate negli archivi che hanno in custodia documenti dei riceventi: così l’epistolario con Giovanni Vannucci nell’Archivio dell’eremo di S. Pietro alle Stinche (Firenze); quello con Primo Mazzolari nell’Archivio della Fondazione Primo Mazzolari di Bozzolo (Mantova); quello con Adelaide Coari nel fondo omonimo depositato presso la Fondazione per le scienze religiose di Bologna. Tra le fonti a stampa si segnalano alcuni testi non in commercio, ma reperibili all’eremo: Sorella Maria, Raccolta di pensieri a cura di G. Vannucci, Roma 1971, 20032; Sorella Maria parla, s.l. e s.d. (schede di pensieri e frammenti raccolte in fascicoli tematici); Cronaca degli inizi dell’Eremo 1921-1928. Appunti, lettere e memorie di nonn’Amata. Tradotti dall’inglese, Campello sul Clitunno 20022; E. Chirilli, Contributo alla storia dell’Eremo francescano di Campello sul Clitunno. Sorella Jacopa, Galatina 1973. Tra gli amici che hanno scritto di Maria, va evidenziata per il rilievo dell’interlocutore la testimonianza di E. Buoniauti, in Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli, Bari 1964, nuova edizione Roma 2008, ad indicem. Sul rapporto con l’episcopato spoletino, cfr. F. Aronica, Sorella Maria e il suo Eremo tra opposizione e ostilità. Storia del rapporto tra l’Eremo e l’autorità ecclesiastica dagli anni ’20 agli anni ’50, Messina 1993. Tra i non pochi testi usciti nel primo decennio degli anni 2000, appaiono di particolare utilità documentaria e critica Sorella Maria, G.M. Vannucci, Il canto dell’allodola. Lettere scelte (1947-1961), a cura di P. Marangon, Magnano 2006; Sorella Maria di Campello, P. Mazzolari, L’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959), a cura di M. Maraviglia, Magnano 2007; M. Borgognoni, Sorella Maria. Selvatica e libera in Cristo, Assisi 2007; Sorella Maria, A. Schweitzer, Senza varcare la soglia, Pratovecchio 2007. In occasione dei cinquant’anni dalla morte, nel 2011, è stato organizzato un convegno a Trevi (Perugia), di cui sono stati pubblicati gli atti: Maria di Campello. Un’amicizia francescana, a cura di R. Morozzo della Rocca, Brescia 2013.