VIVENZIO, Pietro
(Pietro Carlo Ignazio). – Nacque a Nola il 17 luglio 1754, terzo dei figli maschi di Felice e di Teresa Mauro (o di Mauro) dei baroni di Palma.
Mentre i fratelli Giovanni e Nicola (per entrambi v. le voci in questo Dizionario) studiarono a Napoli e percorsero delle brillanti carriere a corte e nelle istituzioni borboniche, Pietro rimase nella casa paterna a Nola, dove, soprattutto dopo la morte del padre (1795), si occupò dell’amministrazione dei beni di famiglia. Tutti i fratelli condivisero la passione per lo studio e il collezionismo di antichità, che a Nola aveva dei precedenti illustri. Ma se fu Nicola a promuovere e finanziare le raccolte antiquarie, soprattutto Pietro seguì le attività di scavo e si occupò del museo creato nel palazzo di famiglia. Fu questo a farlo conoscere fra eruditi, artisti e storici dell’arte e a conferirgli un posto tra i fondatori dell’archeologia moderna.
Poco o nulla si sa della sua formazione, tranne che per gli studi con lo zio Michele. Nella sua opera Gemme antiche (Roma 1809) dichiarò: «fui educato in una Provincia del Regno di Napoli, ove il mio selvaggio ingegno crescendo senza certa instituzione, trascorse a suo piacimento» (p. 1). Dovette prendere l’abito sacerdotale: come «reverendo» è denominato in una lettera dell’avvocato regio Natale Maria Cimaglia del 9 ottobre 1785, che fa riferimento alle sue attività di scavo e ai «vasi, anelli e monili» raccolti nella sua casa (Napolitano, 2011, pp. XXVI-XXVIII).
Alla metà degli anni Ottanta questa raccolta, forte di più di duecento reperti vascolari antichi, era ben nota a visitatori illustri, come l’erudito massone danese Friedrich Münter, o il pittore tedesco Johann Heinrich Tischbein, definito da Vivenzio «ottimo amico» (Sepolcri nolani, a cura di S. Napolitano, 2011, p. 5). Negli anni seguenti fu meta di numerosi ministri e inviati stranieri. Il 20 giugno 1790, per esempio, come riferì il nobile letterato di origine lombarda Carlo Castone della Torre di Rezzonico, nella casa nolana tra i vari visitatori fu presente, con la consorte, il ministro plenipotenziario inglese a Napoli, il celebre vulcanologo e collezionista William Hamilton (Napolitano, 2011, pp. XXX s.).
Nel 1793 il letterato calabrese Michele Torcia dette come imminente la pubblicazione da parte di «Don Pietro Vivenzio» della «interpretazione [...] del suo incomparabile Museo Nolano», e attribuì ai «filomusi fratelli Vivenzio in Napoli» (cioè Giovanni e Nicola) la storia «di tal Ποιχιλις figulina dagl’inizi al suo fine» (Fogge ed usi peligni delle donne di Scanno, pp. 66, 72). Secondo la testimonianza di Vivenzio stesso, egli completò nel 1798 un’opera sulle plastiche antiche simile a quella realizzata tra il 1806 e il 1809, che però era andata perduta (Sepolcri nolani, cit., p. 6). In quell’occasione fu dato incarico al pittore Costanzo Angelini di raffigurare su tavole i disegni presenti sui vasi.
Dedito principalmente alle attività di scavo nelle necropoli nolane, solo nel 1799 Vivenzio apparve sulla scena politica, a sostegno della dinastia borbonica contro i francesi e i repubblicani. Celebrò la restaurazione monarchica con l’inno Nella solenne festività della Croce nuovamente eretta nella città di Nola e si attivò al punto da preoccupare le stesse autorità regie. Ai primi di dicembre il commissario borbonico Michele de Curtis riferì che Vivenzio aveva mobilitato la popolazione intorno a un obelisco piantato nella piazza maggiore per celebrare la sconfitta dei francesi, provocando disordini e pericolosi assembramenti (Sorrentino, 1999, p. 65). Fu nominato comandante delle milizie provinciali e in tale veste pubblicò nel 1801 nella Stamperia reale un elogio in morte della principessa Maria Clementina: Ne’ funerali della regal principessa delle Sicilie Maria Clementina di Austria fatti celebrare in Nola dal direttore del reggimento della milizia urbana in quella città Pietro Vivenzio. Nel 1802 pubblicò un altro scritto encomiastico per il ritorno a Napoli di Ferdinando IV e del figlio Francesco, A sua altezza reale il principe ereditario per lo suo fausto ritorno. Nel 1803 fu incaricato di riscuotere gli affitti arretrati dei coloni del soppresso monastero dei SS. Severino e Sossio di Napoli (Sorrentino, 1999, p. 80).
Al ritorno dei francesi nel Regno di Napoli, nel 1806, si trasferì a Roma. Qui pubblicò nel 1809 presso Francesco Bourliè due opere: Gemme antiche per la più parte inedite e Lettere sopra i colossi del Quirinale scritte al sig. Pietro Benvenuti pittore d’istorie e direttore dell’Accademia delle belle arti in Firenze. Nella prima, indirizzandosi «a’ giovani studiosi» e «a’ professori delle belle arti» (p. 1), spiegava con ricchezza di riferimenti eruditi il significato delle figure rappresentate in una serie di gemme illustrate in trentadue tavole. Anche le Lettere (che furono recensite sul Giornale enciclopedico di Firenze, II (1810), pp. 108-110) avevano un intento pedagogico: nella prima sottolineava l’utilità dei gessi di celebri opere antiche (come i Dioscuri collocati sul Quirinale), per sottoporli allo studio dei giovani nelle accademie; nella seconda suggeriva una diversa disposizione dei colossi rispetto ai cavalli che li accompagnavano.
A Roma, tra il 1806 e il 1809, completò la sua opera principale, rimasta manoscritta fino a tempi recenti: i Sepolcri nolani o sia Esame delle varie epoche del dipingere i vasi d’argilla presso gli Egizi, gli Etruschi e i Greci, quasi una summa degli insegnamenti della storia settecentesca dell’antico, da Christian Heyne a Johann Winckelmann, a Luigi Lanzi. I vasi estratti dai sepolcri nolani e messi in bella mostra nel museo di famiglia diventarono qui strumenti di indagine storica e archeologica, basata sulla rivendicazione della necessità dell’osservazione diretta dei reperti come unico modo per formare un vero conoscitore delle diverse epoche, dei diversi stili, dei rapporti tra produzione vascolare, usi funebri, indole e «genio» delle diverse «nazioni» (p. 89), in polemica con approcci puramente libreschi: «il consultar molti libri è diverso dal veder molti vasi» (p. 160). Sulla base di questo principio ricostruì la storia di Nola, argomentandone l’innegabile origine greca, attestata dai tipi di sepoltura nelle loro diverse stratificazioni, dai vasi e dalle immagini che vi erano raffigurate, oltre che dalle monete e dalle iscrizioni. Non solo: i reperti gli permisero di svolgere un’indagine di più ampio respiro sui riti funebri e festivi e più generalmente sulla vita sociale nel Nolano antico, tra Greci, Etruschi, Sanniti e Romani. A un amor patrio non privo di accenti municipalistici, come nella polemica contro l’etruschismo, univa un metodo di ricerca della verità ancorata al «fatto», di ispirazione dichiaratamente vichiana (tipica anche del fratello Nicola). A rafforzare ulteriormente lo sperimentalismo dell’opera riferiva di esperienze di scavo condotte nel 1788 e nel 1798.
Il secondo tomo era dedicato all’illustrazione dei soggetti dei vasi rappresentati in quarantacinque tavole. Tra queste, spiccava per la sua eccezionalità il vaso di Kleophrades, diventato celebre anche come «Hydria Vivenzio». Ritrovato nel 1797 in una grande urna deposta in un sepolcreto romano insieme ad alcuni balsamari e a una sardonica (descritta nelle Gemme antiche del 1809), e collocata nel museo in «trionfo in mezzo alla stanza» su un piedistallo coperto da un drappo di seta verde (Napolitano, 2011, pp. LXXXV s.), rappresentava «la tragica scena della famiglia di Priamo seguita nella notte della presa di Troia» (Sepolcri nolani, cit., p. 12). L’Hydria ha attratto l’attenzione degli studiosi contemporanei e degli archeologi fino a oggi (Castaldo, 2006-07).
Il museo finì smembrato e disperso nelle convulse vicende politiche alla svolta dell’Ottocento. All’arrivo dei francesi, nel 1806, la casa nolana dei Vivenzio fu occupata dal colonnello Francesco Pignatelli, che fece sgomberare le due stanze adibite a museo, spostando la collezione «in un’altra vecchia camera della stessa casa [...] confusamente e in disordine». Molti dei vasi rimasti furono «tolti dalle persone di servizio del medesimo colonnello e mandati in Napoli». Secondo Michele Arditi, direttore del Museo reale, incaricato ai primi di maggio del 1808 dal ministro dell’Interno André-François Miot di verificare la collezione per «esaminarvi se ve ne siano degli importanti per la collezione del real museo», già Giovanni Vivenzio, partendo per Palermo con la corte nel 1799, si era portato via «li migliori vasi di questo museo» (Rao, 2001, pp. 235).
Nel 1816, restaurata nuovamente la monarchia borbonica, Pietro pubblicò il Museo Vivenzio, ovvero Catalogo ragionato del museo giusta la disposizione numerata de’ monumenti, dedicato al fratello Nicola, morto il 27 agosto: «Alla memoria del marchese Niccola Vivenzio delle belle arti cultore sommo che la domestica raccolta di vasi italo-greci dipinti [...] alla pubblica luce riprodusse ed ordinò» (p. 3). Un precedente inventario era stato bruciato nel 1806 per impedire che cadesse nelle mani dei francesi. Secondo il testamento redatto da Nicola il 7 agosto 1816, Pietro e le sorelle Saveria e Maria Antonia ereditavano «capitali, quadreria, libri, argento, oro, ed ogni altra cosa senza distinzione, che trovasi nella mia abitazione in questa città di Napoli». I beni posseduti a Nola, incluso il «Museo di vasi etruschi», erano destinati a loro e alle altre sorelle Maria, Maddalena e Agnese.
Michele Arditi, il 12 luglio 1817, sostenne caldamente l’opportunità di acquistare per il Reale Museo borbonico ciò che restava del Museo nolano, che aveva visitato il 16 giugno, ricco ancora di vasi «singolari affatto»: «non pochi sono interessanti per le figure in essi dipinte, le quali ne rappresentano, nella maggior parte, dottrine mitologiche ed avvenimenti ricordati nella storia eroica e non di rado anche ne mostrano alcuni particolari riti, che noi leggiamo sì bene negli autori greci, ma che finora in pittura non si eran veduti» (Rao, 2001, pp. 235).
La vendita al sovrano, diventato intanto Ferdinando I re delle Due Sicilie, fu conclusa nel 1818 per 30.000 ducati. Ma non segnò la fine dell’attività archeologica di Vivenzio, che continuò a dare un contributo considerato essenziale dalle nuove autorità regie preposte alle attività di scavo. Scriveva, infatti, ad Arditi l’ispettore distrettuale agli scavi, Giuseppe De Luca, il 7 settembre 1827: «Posso assicurarle che fino al momento solo Vivenzio può dare attestazione dell’importanza dei vasi trovati [...] In un solo sepolcro, creduto di una sacerdotessa, si rinvenne una maschera di terracotta senza alcuna vernice, rappresentante a parer mio Nemesi, dea della Giustizia». E il 30 dicembre aggiungeva: «D. Pietro Vivenzio autorizzato [...] a scavare nel campo degli esercizi militari di questo capoluogo, nel passato mese di novembre, trovò una langella ed un vaso a tre manichi [...] di creta nolana e forse la più perfetta, frammentati in duecento pezzi» (Rao, 2001, pp. 235 s.).
Poco altro si sa degli ultimi suoi anni. Morì a Nola il 4 novembre 1835.
I due tomi dei Sepolcri nolani, rimasti manoscritti presso la Biblioteca nazionale di Napoli, più volte esaminati e parzialmente trascritti in tesi di laurea e di dottorato, sono ora editi in P. Vivenzio, Sepolcri nolani, a cura di S. Napolitano, Napoli 2011.
Fonti e Bibl.: Nola, Archivio storico diocesano, Libri Baptizatorum IX, 190, 1749-1756, c. 97v.
Fogge ed usi peligni delle donne di Scanno. Descritti da Michele Torcia Archivario del Re nel 1792, in Analisi ragionata de’ libri nuovi, agosto 1793, pp. 64-87; G. Patroni, Vasi dipinti del Museo Vivenzio disegnati da Costanzo Angelini nel MDCCXCVIII, testo illustrativo di G. Patroni, pubblicazione di G. Rega, Roma-Napoli 1900; L. Ammirati, I fratelli Vivenzio di Nola (Giovanni-Nicola-Pietro), Nola 1980; R. Franzese, Una famiglia di collezionisti del XVIII secolo: i Vivenzio di Nola, tesi di laurea, Università degli studi di Napoli Federico II, a.a. 1995-96; A.M. Rao, L’«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1997; L. Sorrentino, Io muoio libero e per la Repubblica. Vita ed opere di Vincenzo Russo ideologo e martire del 1799, Somma Vesuviana 1999, ad ind.; A.M. Rao, I fratelli Vivenzio, in Nola fuori di Nola. Itinerari italiani ed europei di alcuni nolani illustri, a cura di T.R. Toscano, Nola 2001, pp. 207-236; Il Museo Vivenzio in Nola: catalogo ragionato del Museo giusta la disposizione numerata de’ monumenti, Napoli 2003; F. Castaldo, Le necropoli dell’Agro campano tra VI e V secolo a.C., tesi di dottorato, Università degli studi di Napoli Federico II (trascrive parte dei Sepolcri nolani, alle pp. 208-230); F. Castaldo, La sepoltura dell’“Hydria Vivenzio”, in Annali di archeologia e storia antica. Dipartimento di studi del mondo classico e del Mediterraneo antico, n.s., XIII-XIV (2006-2007), pp. 173-184; S. Napolitano, Introduzione, in P. Vivenzio, Sepolcri nolani, cit., pp. VII-XCII.